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Giuliana Iurlano
Antisemitismo Antisionismo
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'Perché scrivere?', di Philip Roth 19/12/2018

'Perché scrivere?', di Philip Roth
Commento di Giuliana Iurlano

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Philip Roth

Uscito recentemente nelle librerie italiane, il volume di Philip Roth, Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti, 1960-2013 (Torino, Einaudi, 2018, pp. 446) è una raccolta di riflessioni, interviste, interventi sulla letteratura e sul “mestiere dello scrittore”. È una pubblicazione importante, perché consente di comprendere il backstage della scrittura di Roth nell’arco di cinquant’anni, le modalità con cui – spesso faticosamente – giunge alla stesura dei suoi romanzi. Sono trattati temi quali le grandi difficoltà dell’essere uno scrittore americano negli anni più “turbolenti” e vivaci della metà del XX secolo, quando il romanziere doveva essere capace di rendere “credibile” la realtà americana proprio sentendo sulla pelle il contesto in cui scriveva, ma anche il compito che lo scrittore ha di liberare i sentimenti e le emozioni spesso rinchiusi nelle gabbie sociali, e di farli uscire allo scoperto, non certo per modificare il comportamento dei suoi lettori o per ottenerne il consenso, ma perché il romanzo potesse essere letto “alle sue condizioni” (72). Da quella che Roth definisce la “carcassa” – “una serie di ‘blocchi di coscienza’, di agglomerati di materiali di svariate forme e dimensioni impilati uno sull’altro e tenuti insieme da associazioni mentali invece che dalla cronologia” (p. 70) – pian piano prende forma il tema, quello che costituirà il cuore pulsante della narrazione.

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La copertina (Einaudi ed.)

E qui Roth – incalzato da molti intervistatori – chiarisce bene il motivo per il quale, a partire dal lontano 1959, anno in cui fu pubblicato Goodbye, Columbus, i suoi romanzi sono stati per molto tempo criticati dagli ebrei e giudicati “pericolosi, disonesti, irresponsabili”. Ma in che cosa consisteva precisamente l’accusa a Roth? I suoi racconti avrebbero ignorato gli aspetti positivi della vita ebraica, diffondendo – come dichiarò il rabbino Emanuel Rackman al congresso del Rabbinical Council of America – “un’immagine distorta dei valori alla base del giudaismo ortodosso” e, dunque, alimentando gli stereotipi dei gentili. Ma l’accusa più particolare era quella della delazione: Roth avrebbe fatto la spia, avrebbe svelato ai gentili “quel che altrimenti si sarebbe potuto tener loro segreto: che le tentazioni della natura umana affliggono anche i membri della nostra minoranza” (p. 63). Di certi argomenti, insomma, non bisognerebbe scrivere, perché rischierebbero di essere fraintesi da persone deboli di mente e istintivamente maldisposte. La risposta di Roth è netta: “Questo non è combattere l’antisemitismo, è sottomettersi all’antisemitismo” (p. 65). Egli non approva nemmeno il rovescio della medaglia dell’immagine dell’“ebreo combattente” di Leon Uris, a suo dire una semplificazione essa stessa, che finisce per sostituire quella usuale dell’ebreo sottomesso. La verità, dichiara Roth, è che l’ebreo è perfettamente uguale a tutti gli altri, con i suoi pregi e si suoi difetti e a renderlo monco di una parte di sé non si fa certamente un favore all’ebraismo, che è una realtà complessa e articolata, impossibile da ridurre a schemi predefiniti. Non si può scrivere di ebrei, trattandoli “come bambini”, anziché come uomini e donne (p. 69). Ma è soprattutto il giudizio contraddittorio su Lamento di Portnoy che lascia perplessi: esso divenne all’istante un grande successo e, insieme, un grande scandalo, anche perché – come lo stesso Roth dichiara – nella narrativa americana dei decenni post-OShoah gli ebrei “erano stati identificati con la virtù e l’autocontrollo, con reazioni giuste e misurate, e non quelle attività libidinose e aggressive ai confini dell’accettabilità sociale” (p. 93). Roth non fa l’operazione delle “ossa spolpate” di Saul Bellow (uno scrittore da lui molto apprezzato), che rende i suoi protagonisti vividamente ed enfaticamente ebrei quando si trovano alle prese con complesse questioni di coscienza, ma che diventano quasi “lievemente” ebrei (o, addirittura, nemmeno tali) quando al centro del romanzo ci sono il desiderio e la sensualità. Ma ciò che più colpisce sono le conversazioni di Roth con Primo Levi, con Aharon Appelfeld, con Isaac Bashevis Singer, tre scrittori ebrei che interpretano la loro ebraicità in modo completamente diverso l’uno dall’altro. Sono conversazioni “tra scrittori”, prima di tutto, e poi “tra scrittori ebrei”; ma emerge un mondo della narrativa che si confronta, che si interroga, che si pone nuovi problemi. Si sentono gli scrittori parlare dei loro romanzi fuori dai romanzi stessi, interrogarsi reciprocamente sulle idee e sulle modalità di scrittura delle loro opere, scambiarsi impressioni e giudizi ad un livello di riflessione diverso da quello del lettore comune o del critico letterario, proprio perché ciò che accomuna scrittori anche così differenti fra loro è proprio il percorso interiore che li ha portati ad affrontare un tema, a decidere come scriverne, a modificarne l’iter talvolta anche completamente, ad abbandonarlo e poi riprenderlo. Credo che sia questo il grande fascino della letteratura: riuscire a ricomporre le pieghe del pensiero anche interrotto, della scrittura convulsa che poi si placa quando trova il modo giusto di fluire, della concentrazione assoluta davanti al foglio bianco che si riempie sempre più velocemente, fino a giungere alla chiusura, che è sempre una perdita. Soprattutto per il lettore.


Giuliana Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento. Collabora a Informazione Corretta


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