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Giuliana Iurlano
Antisemitismo Antisionismo
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Il pogrom di Kielce del 4 luglio 1946 14/10/2018

Il pogrom di Kielce del 4 luglio 1946
Commento di Giuliana Iurlano

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 Kielce, una cittadina della Polonia sud-orientale, fu occupata dai tedeschi subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. I circa 24.000 ebrei che vi vivevano vennero rinchiusi in un ghetto, costruito nell’aprile del 1941; in seguito, furono ammazzati gli ammalati, i vecchi e gli orfani, mentre tutti gli altri ebrei furono deportati a Treblinka. Solo due ebrei rimasero a Kielce, riuscendo a sopravvivere e a sfuggire alle deportazioni. Nei diciotto mesi successivi alla fine del conflitto, solo 163 ebrei ritornarono a Kielce e furono costretti a vivere in due sole case di via Planty nel centro della città, avendo trovato “occupate” le loro abitazioni. Proprio la “preoccupazione” che essi potessero rivendicare la proprietà degli immobili, spinse la popolazione di Kielce a perpetrare uno dei più crudeli pogrom nei confronti di ebrei sopravvissuti alla Shoah. Nel 1992, Bozena Szaynok – in un saggio sul pogrom del 4 luglio 1946 – ne descrisse punto per punto le modalità di svolgimento: l’inizio della violenza si ebbe dopo che, ancora una volta, fu rispolverata l’accusa di omicidio rituale nei confronti di un bambino, Henryk Błaszczyk; subito dopo, di fronte all’indifferenza di poliziotti e militari, una folla inferocita attaccò una delle due case di via Planty, sede anche del Comitato ebraico, per cercare bambini polacchi rapiti dagli ebrei e tenuti prigionieri nelle cantine dell’abitazione. Gli ebrei furono tratti a forza dall’edificio, picchiati, derubati e uccisi; tutto ciò sotto gli occhi di chi avrebbe dovuto essere responsabile dell’ordine e della sicurezza dei cittadini e che, invece, rimase intenzionalmente passivo. Ma la cosa interessante è che, sulle responsabilità del pogrom di Kielce, si scatenò ben presto un’inedita campagna propagandistica, con le autorità comuniste pronte ad incolpare l’opposizione e il clero polacco, invece, ad accusare i sovietici, campagna propagandistica di cui parla Adam Michnik (“Il pogrom”, a cura di F.M. Cataluccio, Torino, Bollati Boringhieri, 2007). Emblematico della prima posizione è il discorso del segretario generale del Partito Operaio Polacco (PPR), Władisław Gomułka, agli attivisti del partito il 6 luglio successivo: il Partito Popolare Polacco (PSL) e le Forze Armate Nazionali (NSZ) “non avendo ottenuto la vittoria nella votazione popolare, [vogliono] ottenerla gettando il paese nell’abisso dell’anarchia. [...] Lo dimostra in maniera lampante il pogrom contro gli ebrei di Kielce. [...] I fascisti polacchi [...] hanno superato i loro maestri hitleriani nella follia antisemita”. Il clero polacco, da parte sua, per bocca del vescovo Czesław Kaczmarek, difendeva i polacchi, gente da sempre, a suo dire, compassionevole verso gli ebrei e non certo antisemita, ma il cui atteggiamento era radicalmente mutato dopo l’ingresso degli eserciti sovietici e l’estensione del potere di Lublino a tutta la Polonia; da quel momento in poi, era maturato l’odio nei loro confronti, e non certo per motivi razziali, ma semplicemente per il fatto che “gli ebrei di Polonia sono i principali propagandisti del regime comunista, che il popolo polacco non vuole, che gli viene imposto con la forza, contro la sua volontà”. Nel suo lungo rapporto del 1° settembre 1946 diretto all’ambasciatore americano Arthur Bliss-Lane, l’alto prelato accompagnava la sua argomentazione elencando una lunga serie di motivi “collaterali”: dalla “buona posizione e dalle infinite possibilità e facilitazioni nel commercio e nell’industria” ai posti nevralgici ricoperti dagli ebrei nei ministeri, nelle fabbriche, negli uffici e nell’esercito, dalla direzione della stampa governativa e dalla gestione della censura a quella degli uffici di sicurezza. Poi, Kaczmarek aggiungeva: “Oltre a diffondere il comunismo, non si contraddistinguono per il tatto, soprattutto nei rapporti con persone di idee non comuniste. Sono spesso arroganti e brutali. Molti di loro non vengono nemmeno dalla Polonia. Giunti dalla Russia, parlano male il polacco e si orientano ancor peggio nei rapporti con i polacchi. Per le suddette ragioni si può dire perciò che la maggior parte della responsabilità per l’odio che circonda gli ebrei è da attribuirsi a loro stessi”. Ma il rapporto proseguiva, poi, su un’altra direzione interpretativa: “Già un paio di mesi prima del 4 luglio 1946 a Kielce avevano iniziato a diffondersi voci sulla morte di bambini di entrambi i sessi. [...] Indubbiamente furono queste morti di bambini a indignare persino molti membri dell’intelligencja. [...] Di ciò hanno deciso di servirsi alcuni agenti ebrei comunisti, di concerto con l’Ufficio di Sicurezza da loro diretto, per provocare un pogrom che si prestasse poi a essere propagandato come prova della necessità per gli ebrei di emigrare nel loro paese, come prova del fatto che nella società polacca regnano l’antisemitismo e il fascismo e infine come prova della reazionarietà della Chiesa, di cui gli uccisori erano membri”. Il pogrom di Kielce, insomma, è illuminante su due aspetti della situazione internazionale dei primi anni della Guerra Fredda: da una parte, la posizione sovietica nei confronti dello Stato di Israele – l’URSS, come poi dichiarò la stessa Golda Meir, riconobbe Israele soprattutto per estromettere l’Inghilterra dal Medio Oriente e fornì armi al giovane Stato ebraico, sfidando l’embargo imposto dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna tra la fine del 1947 e l’inizio del 1948 – e, dall’altra, i due principali stereotipi antisemiti che caratterizzavano la società polacca, vale a dire il giudeocomunismo e il complotto ebraico internazionale. Certo è difficile dimenticare le drammatiche parole del rabbino di Kielce al funerale delle vittime del pogrom: “A una tragica serie di tombe se ne aggiunge un’altra ancora, la tomba di uomini uccisi nella Polonia risorta: gli ebrei di Kielce. [...] Esiste in Polonia una categoria di persone, una classe, che avrebbe potuto impedirlo. La classe dei sacerdoti, gli agenti ufficiali della Chiesa cattolica in Polonia. [...] Sacerdoti del popolo polacco! [...] Potete dire con la coscienza pulita, dopo essere usciti da qui: ‘Le nostre mani non hanno versato questo sangue innocente, i nostri occhi non l’hanno visto?’. [...] Forse il comandamento ‘Non uccidere’ non riguardava gli ebrei?”.


Giuliana Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento. Collabora a Informazione Corretta


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