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Giuliana Iurlano
Antisemitismo Antisionismo
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L’ambiguità degli Stati Uniti di fronte alla Shoah 02/12/2017

 L’ambiguità degli Stati Uniti di fronte alla Shoah 
Commento di Giuliana Iurlano

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F;D.Roosevelt

Gli anni che vanno dal 1938 al 1941 furono anni terribili e decisivi per l’ebraismo europeo. Già tre anni prima, le leggi di Norimberga avevano sancito l’esclusione progressiva degli ebrei da tutte le strutture sociali tedesche, ma fu con la Kristallnacht che l’esplosione di violenza antisemita cominciò a raggiungere il suo culmine.
Dopo l’invasione della Polonia, furono costruiti i primi lager e, a seguito del protocollo di Wannsee del gennaio 1942, già nel marzo successivo, a Chelmno, iniziò lo sterminio. Dal 1938 al 1941 le “Porte d’oro” degli Stati Uniti, insieme ad altri paesi europei, furono investite da un massiccio esodo di ebrei, inizialmente sostenuto con forza dalle autorità tedesche. Ma sin da questa prima fase, l’amministrazione Roosevelt manifestò un atteggiamento politico contraddittorio, quando non apertamente ambiguo. Le ragioni di ciò sono molteplici. 
Già il presidente Wilson aveva atteso un anno per dare la sua approvazione alla Dichiarazione Balfour, nella speranza di tirar fuori la Turchia dal conflitto, senza mai averle dichiarato guerra.

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Louis Brandeis        Stephen Wise            Henry Morgenthau

In questo percorso, il sionismo americano, guidato da Louis Brandeis, aveva rispettato i tempi e le ragioni del presidente, entrando spesso in contrasto con il movimento inglese di Weizmann, che premeva affinché gli Stati Uniti appoggiassero la “national home” ebraica. 
Con Roosevelt, la situazione peggiorò ulteriormente: l’amministrazione aveva ancora nella memoria il ricordo della Grande Depressione, che aveva colpito la società e l’economia americana, insieme al gravissimo problema dell’immigrazione massiccia negli Stati Uniti da gestire al meglio. I profughi ebrei, dunque, furono inizialmente inquadrati proprio in questo contesto, senza considerare minimamente le ragioni del loro esodo, più volte giudicate dal presidente e dal Dipartimento di Stato solo come un problema di “politica interna” di un paese straniero, nel quale era meglio non interferire. 
Anzi, vi fu un accentuato irrigidimento della politica statunitense nei confronti dei profughi ebrei, testimoniato dal gravissimo episodio della St. Louis, costretto – una volta approdato a L’Havana – a ritornare ad Amburgo, dove i passeggeri ebrei furono immediatamente internati. 
Roosevelt non intendeva interferire in alcun modo con la politica inglese in Medio Oriente – ridefinita con la pubblicazione del Libro Bianco del 1939 – e si limitava a fare ambigue assicurazioni ai sionisti e all’opinione pubblica americana, preoccupata dalle notizie che giungevano dall’Europa, senza peraltro negare l’appoggio agli arabi, a loro volta assolutamente contrari all’ingresso ebraico in Palestina.
Insomma, gli Stati Uniti non seppero (o non vollero) rendersi conto delle contraddizioni insite in una politica filo-araba, né seppero vedere le forti incoerenze della strategia palestinese britannica, mentre l’amministrazione Roosevelt continuò a considerare “improponibile” ogni aiuto all’ebraismo. 
Anche dopo l’elaborazione della “Soluzione finale”, il presidente americano continuò pervicacemente a ricondurre la “questione ebraica” sia ad una faccenda interna dei singoli Stati europei, sia ad un problema esclusivamente britannico. 
A ciò si aggiunse l’introduzione di una legislazione fortemente restrittiva nei confronti dell’immigrazione, che danneggiò seriamente gli ebrei europei in un momento drammatico della loro esistenza. Nel contesto internazionale, la collaborazione col regime di Vichy, giudicato prigioniero dei nazisti, se era politicamente opportuno, era anche pericoloso per il fatto che nel Nord Africa francese le autorità di Vichy permettevano che si manifestassero gravi persecuzioni nei confronti degli ebrei residenti, senza che le autorità americane protestassero in alcun modo, ma anzi manifestando una sgradevole tolleranza verso tali atti. Sebbene informato costantemente di quanto stesse accadendo agli ebrei in Europa, Roosevelt continuò a mantenere la sua ambigua posizione, appoggiato, del resto, dai funzionari del Dipartimento di Stato.
Quando, il 29 agosto 1942, Stephen S. Wise venne a conoscenza dello sterminio degli ebrei attraverso un telegramma di Gerhart Riegner, del Geneva World Jewish Congress, telegramma rigettato in primis dallo stesso Dipartimento di Stato al quale era stato inoltrato, il rabbino fece presente la gravità della situazione e i funzionari statunitensi gli chiesero di mantenere il silenzio finché la notizia non fosse stata verificata, cosa che avvenne il 25 novembre successivo. 
A quel punto, Wise indirizzò una lettera a Roosevelt per chiedergli un incontro.
La risposta arrivò nel febbraio del 1943 con una lettera del sottosegretario di Stato Sumner Welles, in cui si confermavano le atrocità commesse dal regime hitleriano, ma esplicitamente si rifiutava l’assunzione di “qualsiasi responsabilità ufficiale per le informazioni contenute nel rapporto Riegner, perché non fondate su indagini condotte dai rappresentanti americani all’estero”. 
Mentre nella società americana le notizie si diffondevano a macchia d’olio e sulla stampa molti esponenti dell’ebraismo statunitense, come Max Lerner, chiedevano a Roosevelt le ragioni della sua “inerzia” (“What about the Jews, FDR?”), un altro importante ebreo, Henry Morgenthau, allora segretario del Dipartimento del Tesoro, pubblicò, il 13 gennaio 1944, un rapporto sull’ostruzionismo del Dipartimento di Stato, che aveva tenuta nascosta l’effettiva gravità della situazione per non aggravare il peso dell’immigrazione ebraica negli Stati Uniti. 
Morgenthau chiese l’intervento urgente di Roosevelt, che, il 22 gennaio del 1944, creò il War Refugee Board, riuscendo a mettere in salvo circa 200.000 ebrei. 
Ma era troppo tardi, ormai. Le contraddizioni, l’attendismo e soprattutto l’ambiguità della politica rooseveltiana non riuscirono in alcun modo a salvare sei milioni di ebrei dalle camere a gas naziste. Solo con Truman alla presidenza, e contro la consueta ferma opposizione del Dipartimento di Stato, gli ebrei videro riconosciuto il loro diritto ad avere un proprio Stato.


Giuliana Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento. Collabora a Informazione Corretta


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