Riduci       Ingrandisci
Clicca qui per stampare

 
Angelo Pezzana
Israele/Analisi
<< torna all'indice della rubrica
Quando l’interesse verso il criminale supera la salvezza delle vittime 07/01/2013

Quando l’interesse verso il criminale supera la salvezza delle vittime
Commento di Angelo Pezzana


Angelo Pezzana

Due episodi, tutt’altro che marginali, ci aiutano a capire l’attacco ai valori delle società democratiche. Il primo lo racconta Alessandra Farkas (Corriere della Sera 06/01/2013) riportando le accuse di Naomi Wolf a Kathryn Bigelow, regista del film “ Zero Dark Thirty”, sulla cattura e uccisione di Osama Bin Laden. Il secondo, sullo stesso giornale, Giovanni Bianconi ci riporta alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, rapito dalle Brigate Rosse nel dicembre 1981 e liberato nel gennaio 1982.
L’argomento centrale nel primo non è l’eliminazione di Bin Laden, ma una feroce critica da parte della pacifista americana Naomi Wolf ai metodi di interrogatorio usati dalla Cia per arrivare a scoprire il rifugio del capo di Al Qaeda. Si tratta del “waterboarding”, il detenuto viene obbligato a bere acqua fino a sentirsi sul punto di affogare, una tecnica altamente coercitiva, ma che non mette in pericolo di vita il detenuto e ottiene sempre il risultato voluto, la confessione. A Naomi Wolf non interessa che doveva essere catturato un uomo che ha ucciso migliaia di esseri umani, pronto a sterminarne altri, per lei  ciò che conta è la correttezza dell’interrogatorio, se manca la confessione se ne prende atto e basta.
Nel secondo, gli attori sono le Brigate Rosse, e i metodi della polizia italiana per arrivare a scoprire dove era stato sequestrato il generale americano James Lee Dozier erano stati gli stessi, l’uso del “waterboarding”. Va da sé che i Br in carcere confessarono e Dozier fu liberato. Ebbene, oggi se ne riparla, non tanto per ripercorrere la storia criminale delle Br, ma per mettere sotto accusa gli stessi poliziotti che riuscirono a liberare Dozier, e per riparlare di presunti maltrattamenti che i rapitori del generale americano avrebbero subito una volta arrestati.
Non abbiamo visto il film di Kathryn Bigelow (in Italia uscirà a febbraio), né siamo andati a rileggere sui giornali dell’anno in cui si era svolto il sequestro di Dozier, un mese  e mezzo di prigionia con il rischio quasi certo che sarebbe stato ucciso. Ciò che ci colpisce oggi è il capovolgimento dei valori e la sottovalutazione del crimine. Intendiamoci, interrogarsi sulla liceità dei metodi di interrogazione è alla base di qualunque società democratica, così come la difesa dei diritti del detenuto. Ma non tutti i crimini hanno la stessa valenza, se un terrorista sta per compiere un attentato, ed è certo che è possibile impedirlo catturando chi sta per compierlo, allora diventa lecito anche il “waterboarding”, il tentativo estremo per salvare centinaia, migliaia di vite, come nel caso di Bin Laden. O una vita sola, perché no ?, come nel caso del generale Dozier, quando arriva il momento in cui si è sicuri che una vita è in pericolo. Invece no, sotto accusa non sono più i criminali, ma chi deve garantire ‘legge e ordine’.  Quanti innocenti ha sterminato sino ad oggi Al Qaeda ? Quante sono state le vittime, altrettanto innocenti, delle Brigare Rosse ? Domande che non sembrano avere più legittimità sul palcoscenico dove si rappresenta la tragedia del politicamente corretto.

Per consentire ai lettori di capire le motivazioni della pacifista americana e quelle in difesa dei brigatisti rossi, riprendiamo i due articoli citati nell'articolo di Angelo Pezzana:

Alessandra Farkas : " La scrittrice accusa la regista. «Sulla tortura racconti bugie» "


Alessandra Farkas           Kathryn Bigelow

NEW YORK — Il tanto annunciato secondo Oscar a Kathryn Bigelow per «Zero Dark Thirty», il film sulla caccia e l'uccisione di Osama Bin Laden (in Italia dal prossimo 7 febbraio) potrebbe non materializzarsi mai. O almeno così spera la nota scrittrice femminista Naomi Wolf, che per sbarrare la strada alla prima e unica donna a vincere il premio Oscar per la regia, (nel 2010, con il film «The Hurt Locker») le ha inviato una feroce lettera aperta, pubblicata dal britannico Guardian, dove la paragona addirittura a Leni Riefenstahl, la regista ufficiale di Adolf Hitler.
«Anche tu, come Riefenstahl, sei una grande artista — teorizza la Wolf — a se Leni sarà per sempre sinonimo del regime nazista, tu verrai ricordata dai posteri come l'ancella della tortura». Nel mirino dell'autrice di «Il Mito della Bellezza», oltre alle «pretese documentaristiche di un film mendace e per nulla realistico» sono i «compromessi amorali» adottati dalla Bigelow. Che nel film sposa tesi pro-militaristiche «per ottenere il pieno appoggio dal Pentagono». E quindi «l'accesso illimitato alle sue risorse tecnologiche, di personale e intelligence che le hanno garantito gli investimenti milionari e una gigantesca campagna promozionale».
«Zero Dark Thirty trasforma in eroi e eroine gente che si è macchiata dei più brutali crimini contro l'umanità», punta il dito Wolf, figlia di un profugo ebreo romeno, che sbatte in faccia alla rivale «il precedente storico di delitti basati solo sulla razza». Ma il giudizio più duro riguarda la tesi del film («una ignobile menzogna riaffermata sequenza dopo sequenza») secondo cui il famigerato programma di tortura implementato dalla Cia avrebbe portato alla cattura ed eliminazione del leader di Al Qaeda, nonché alla vittoria della guerra globale contro il terrore.
Il legame tra i durissimi metodi d'interrogatorio della Cia e la scoperta del rifugio di Bin Laden non è andato giù alla Wolf. «Benissimo, compagna reporter: scopri le tue fonti e mostra le prove», ironizza nella lettera, aggiungendo che la Bigelow non potrà mai farlo «perché cinque decenni di indagini citate nel mio libro The End of America, confermano che la tortura non funziona». E chi avesse ancora dubbi, aggiunge, può consultare i reportage di Robert Fisk, corrispondente dal Medio Oriente per il quotidiano britannico The Independent o leggere il rapporto di Human Rights First del 2011 che, a detta della Wolf, «confuta la premessa stessa di Zero Dark Thirty».
A darle ragione sono i senatori Dianne Feinstein, californiana, capo della Intelligence Committee, il Chairman della Armed Services Committee Carl Levin (Michigan)e il senatore dell'Arizona John McCain che hanno deciso di avviare un'indagine ufficiale per far luce sui rapporti intercorsi fra alcuni esponenti della Cia, la Bigelow e Mark Boal, sceneggiatore del film. L'indagine, spiegano i tre leader bipartisan, ha come fine quello di «appurare se esistono prove che le tecniche di interrogatorio mediante tortura abbiano prodotto informazioni che hanno aiutato le autorità a localizzare e uccidere Osama nel maggio del 2011». E se ci fu «uno scambio d'informazioni secretate tra fonti interne alla Cia e i realizzatori di Zero Dark Thirty» e fino a che punto queste abbiano «influenzato la versione della storia accreditata dal film».
In un comunicato di qualche giorno fa, il direttore della Cia Michael Morell aveva stigmatizzato la versione della storia sposata dal film giudicandola «non realistica», pur lasciando aperta ogni ipotesi circa la possibilità che le tecniche d'interrogatorio abbiano giocato un ruolo centrale nell'operazione. «La verità è che molte piste d'intelligence hanno condotto gli analisti della Cia fino al nascondiglio di Abbottabad — ha spiegato Morell — insieme a quelle che scaturivano dagli interrogatori, c'erano molte altre tracce che sono state seguite. Se furono in effetti decisive quelle raccolte durante gli interrogatori, come suggerisce il film, è questione dibattuta che non può essere e non sarà mai appurata».
Ma nella lettera inviata lunedì al Congresso, i tre senatori americani citano l'analisi del programma di detenzione e interrogatori della Cia post 11 Settembre realizzata dall'Intelligence Committee secondo cui il prigioniero che portò l'intelligence Usa sulle tracce di Bin Laden «ha fornito tali informazioni cruciali prima di essere sottoposto a tecniche di interrogazione coercitive».

Giovanni Bianconi : " L'ex commissario e il caso Dozier: «Così torturammo i brigatisti» "


James Lee Dozier

ROMA — Finora si trattava di ricostruzioni giornalistiche, interviste più o meno esplicite, mezze ammissioni anonime. Adesso invece è tutto scritto in un atto giudiziario, un interrogatorio di cui il testimone si assume la piena responsabilità. Sapendo di poter incorrere, qualora affermasse il falso, in una condanna fino a quattro di galera. È il rischio accettato dall'ex commissario di polizia, nonché ex deputato socialdemocratico, Salvatore Genova, uno degli investigatori che trentuno anni fa partecipò alla liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse.
Il 30 luglio scorso Genova ha deposto davanti a un avvocato che lo ascoltava nell'ambito di proprie indagini difensive, svelando le torture inflitte ad alcuni sospetti fiancheggiatori delle Br per arrivare alla prigione di Dozier; metodi «duri» avallati dal governo di allora, aggiunge l'ex poliziotto, con una dichiarazione tanto clamorosa quanto foriera di reazioni e (forse) ulteriori accertamenti giudiziari.
«È stato tutto disposto dall'alto — ha detto Genova all'avvocato Francesco Romeo, difensore dell'ex brigatista Enrico Triaca, uno dei presunti torturati —. C'è stata la volontà politica, che poi scompare sempre in Italia, che è stata quella del capo della polizia, d'accordo con l'allora ministro Rognoni... E infatti noi facemmo». L'avvocato lo interrompe: «Mi sta dicendo che l'autorizzazione a fare quel tipo di tortura...». E Genova: «Non poteva non essere, non era cosa personale di Ciocia (il poliziotto chiamato "De Tormentis" che secondo il suo ex collega dirigeva i "trattamenti", ndr)... Fu De Francisci che fece una riunione con noi. Lui era il capo dell'Ucigos e ci disse "facciamo tutto ciò che è possibile"».
L'Ucigos era l'organismo responsabile delle indagini antiterrorismo sull'intero territorio nazionale, e nel ricordo di Genova il prefetto De Francisci che la guidava dette il «via libera» a sistemi d'interrogatorio poco ortodossi: «Anche usando dei metodi duri, disse così, perché ovviamente eravamo veramente allo stremo come Stato...». L'alleato americano premeva per ottenere risultati, «tant'è che durante tutte queste indagini noi fummo sempre seguiti, non ovviamente con interferenza ma con la loro presenza, da agenti della Cia».
Il sistema d'interrogatorio attraverso tortura, al quale il testimone sostiene di aver assistito personalmente, è chiamato waterboarding: il prigioniero viene legato mani e piedi a un tavolo, un imbuto infilato in bocca e giù litri di acqua e sale per dare la sensazione dell'annegamento. «Era una tecnica molto usata dalle squadre mobili», denuncia Genova; ecco perché fu chiamato il «professor De Tormentis», al secolo Nicola Ciocia, poliziotto di dichiarate simpatie mussoliniane che a Napoli e in altre regioni del Sud aveva combattuto la criminalità comune e organizzata. «Di quella tecnica io a quel momento non ne conoscevo l'esistenza», precisa Genova. Davanti ai suoi occhi, al waterboarding fu prima sottosposto un presunto fiancheggiatore delle Br, poi il futuro «pentito» Ruggero Volinia. Lo arrestarono insieme alla fidanzata, «semidenudata e tenuta in piedi con degli oggetti, mi sembra un manganello che le veniva passato, introdotto all'interno delle cosce, delle gambe». Dopo aver ingurgitato acqua e sale, racconta Genova», Volinia «alzò leggermente la testa e la mano, chiese un attimo per poter parlare: "E se vi dicessi dov'è Dozier?"».
Così, nel gennaio 1982, si arrivò alla liberazione del generale. Alla quale seguirono i maltrattamenti sui suoi carcerieri, che vennero alla luce grazie a indagini giudiziarie e disciplinari su alcuni poliziotti. Genova, che poté usufruire dell'immunità parlamentare garantitagli dal seggio socialdemocratico, oggi ha deciso di riparlarne. Prima al quotidiano ligure Il Secolo XIX e ora col difensore di Triaca, l'ex br arrestato nel '78, all'indomani dell'omicidio Moro, che denunciò di essere stato torturato e per questo fu condannato per calunnia. Oggi l'avvocato Romeo ha presentato un'istanza di revisione di quel processo, basata anche sulle rivelazione di Genova. Il quale racconta di aver saputo che ad occuparsi di Triaca fu proprio De Tormentis-Ciocia, l'esperto di waterboarding che si muoveva — a suo dire — con tanto di garanzie ministeriali.
«Non ci fu alcuna copertura — ribatte l'allora ministro dell'Interno Virginio Rognoni —. Anzi, i comportamenti "duri" accertati furono prontamente perseguiti. C'era una certa esasperazione degli investigatori, questo sì; gli Stati Uniti volevano mandare le loro "teste di cuoio" per liberare Dozier, e io mi impuntai per difendere le nostre competenze. Ma non ho mai avallato alcun genere di tortura». E il prefetto in pensione De Francisci replica alla testimonianza di Genova: «Sono tutte bugie. Io non ho torturato nessuno né tollerato niente di ciò che lui dice. È un bugiardo, lo citerò in giudizio». Dopo trent'anni e più, un capitolo rimasto oscuro e ora riaperto della storia dell'antiterrorismo italiano promette nuovi sviluppi.


Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui