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David Braha
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Basta con i privilegi agli ultra ortodossi 13/07/2010

 " Basta con i privilegi agli ultra ortodossi "
di David Braha
(foto di Ruben Salvadori)

La storia ci insegna che alla base del concetto di cittadinanza, almeno nei paesi democratici del mondo, vi è un equilibrio tra diritti e doveri dell’individuo, solitamente sancito da una carta costituzionale. Essere cittadino in una democrazia in altre parole significa aver garantiti specifici diritti – di voto, all’educazione etc. – rispondendo allo stesso tempo a determinati obblighi nei confronti dello stato – come pagare le tasse e rispettare la legge. Il mancato rispetto di questo principio dovrebbe avere come conseguenza, in linea teorica, una serie di sanzioni variabili per tipo ed intensità. Tutto questo però, come detto, in linea teorica.

Tra le eccezioni a questa regola, uno dei casi più eclatanti è quello della mancanza di simmetria tra diritti e doveri all’interno di un settore della società israeliana: gli ultra-ortodossi. Questa “minoranza” gode infatti di vantaggi e facilitazioni che normalmente in una democrazia sarebbero impensabili. Come noto, in Israele è obbligatorio il servizio militare di leva di tre anni per i ragazzi dai 18 ai 21 anni, e di due per le ragazze dai 18 ai 20: tuttavia i haredim – gli ultra-ortodossi appunto – ne sono esenti in quanto passano gran parte, se non tutta la loro vita a studiare nelle yeshivot, le scuole rabbiniche. Per lo stesso motivo sono esenti anche dal servizio civile, utilizzato di solito come alternativa al servizio militare nei casi in cui un individuo non possa arruolarsi. Inoltre, proprio perché il loro impiego è costituito quasi esclusivamente dallo studio dei testi sacri, gran parte degli haredim non lavorano, e di conseguenza non pagano le tasse. In questa maniera la sussistenza delle loro comunità è basata soprattutto su donazioni e sui soldi pubblici elargiti dallo Stato. La domanda che sorge spontanea però è: per quanto ancora può essere mantenuta una situazione del genere, prima che si arrivi ad una profonda spaccatura nel tessuto sociale?

Negli anni ’80 gli ultra-ortodossi rappresentavano il 4% della popolazione israeliana; oggi, specialmente a causa del loro altissimo tasso di natalità, hanno raggiunto il 10%. Di conseguenza sta salendo il numero di cittadini israeliani abili ma “disoccupati cronici” – come vengono spesso denominati gli haredim – e diminuisce allo stesso tempo quello dei cittadini che si fanno carico di tutti i problemi dello Stato, dalla sua difesa, al supporto economico. Inutile dire che questa condizione è considerata inaccettabile da questi ultimi i quali, stanchi ormai di portare sulle proprie spalle il “peso morto” della popolazione ultra-ortodossa, chiedono sempre più a gran voce una riforma del sistema. Ma da dove iniziare?

Sicuramente il primo punto di riflessione riguarda l’equilibrio di potere tra i partiti politici. Quelli ultra-ortodossi sono partiti relativamente piccoli, non-sionisti, la cui convinzione è che il “vero” Israele sarà istituito da un atto divino – la venuta del Messia – e non dalle azioni degli uomini. Tale fede religiosa rende le loro posizioni politiche estremamente flessibili, trasformandoli così in potenziali partner di governo per tutti i partiti maggiori, sia di destra (Likud) che di sinistra (Avoda in passato, Kadima oggi). Consapevoli di ciò, i partiti maggiori hanno fatto sfoggio nel corso dei decenni di vera e propria “malapolitica”: al fine di assicurarsi il supporto dei partiti religiosi per formare coalizioni di governo, sono spesso scesi a compromessi concedendo agli haredim privilegi insoliti come appunto l’esenzione dal servizio militare, o maggiori finanziamenti per le loro yeshivot. Tuttavia il vero fulcro della questione non è da ricercare soltanto nell’impatto negativo di infelici scelte politiche sul sistema sociale; quello che dovrebbe essere riformato prima di tutto è piuttosto il sistema educativo pubblico, inadatto a rispondere alle necessità di una società complessa come quella israeliana.

Fin dalle scuole elementari, le famiglie hanno la possibilità di far frequentare ai propri figli uno di tre possibili tipi di scuola statale: regolare, religiosa-ortodossa, o araba. Nonostante le differenze nell’indirizzo di studi, il fatto che queste scuole siano tutte statali significa che sono finanziate completamente da fondi pubblici: il che è in parte un bene, in quanto garantisce democraticamente a ciascuno dei principali gruppi della società israeliana la possibilità di educare la propria prole nella lingua, secondo la cultura, e all’interno dell’ambiente che ritiene più consoni. Allo stesso tempo però, il curriculum di ciascun indirizzo è deciso da apposite commissioni del Ministero dell’Educazione sulle quali lo Stato non ha potere decisionale: in altre parole, non può imporre ai vari indirizzi lo studio di materie obbligatorie ed uguali per tutti. Il che è estremamente problematico. Gli haredim per esempio, non studiando la matematica, o l’inglese, si precludono la possibilità di ricevere un’educazione paritaria che li aiuti ad acquistare un margine di competenza e di competitività sul mercato, a trovarsi un’occupazione, e quindi a guadagnarsi da vivere. Gli arabi israeliani d’altro canto, arrivano il più delle volte a terminare le scuole superiori senza conoscere la lingua ebraica, fondamentale per integrarsi nel tessuto sociale dello stato del quale sono cittadini. Il danno maggiore che questo sistema arreca è di conseguenza una tragica mancanza di integrazione, in una società sempre più caratterizzata da spaccature, conflitti, e spesso astio tra i diversi gruppi etnico-religiosi.

In una situazione del genere sarebbe fondamentale l’istituzione di una base culturale condivisa, che aiuti singoli individui ed interi gruppi a percepire “l’altro” non come un alieno proveniente da una remota galassia culturale, ma come un vicino. Sarebbe utile, al fine di attutire i conflitti sociali già esistenti, creare un comune denominatore che unisca le persone come un filo sottile, al fine di dare loro la percezione dell’esistenza di un’identità collettiva, di un’”israelianeità”, nonostante le profonde differenze. Per questo, la domanda non è tanto se riformare il difettoso sistema educativo e sociale israeliano, ma quando farlo e con quali presupposti. Arriverà mai un leader politico con la forza ed il carisma necessari ad imprimere una svolta, e a resistere alle inevitabili dure proteste da parte degli haredim? Arriverà un partito pronto a mettere in gioco la stabilità della propria coalizione al fine di non cadere nella trappola del supporto politico in cambio di agevolazioni e privilegi? Se ciò non dovesse accadere la riforma probabilmente si farà lo stesso, ma solo a seguito di una vera e propria insurrezione da parte dei cittadini israeliani che si sacrificano nell’esercito, che lavorano, e che pagano regolarmente le tasse. Il conto alla rovescia, quindi, è iniziato da tempo. Ora bisogna solo aspettare di vedere se la svolta avverrà tramite la diplomazia nelle stanze della politica, o tramite la violenza nelle strade e nelle piazze.


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