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Mordechai Kedar
L'Islam dall'interno
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Innanzitutto promuovere Gerusalemme 28/01/2017

Innanzitutto promuovere Gerusalemme
Analisi di Mordechai Kedar

(Traduzione dall’ebraico di Rochel Sylvetsky, versione italiana di Yehudit Weisz)

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Dal momento in cui Donald Trump ha promesso di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, quando era ancora un candidato, mi è stato chiesto spesso quale sarebbe stata la reazione araba e musulmana a quella mossa.
La mia risposta, come al solito a questo tipo di domanda, è “io non sono né un profeta né figlio di profeta” - secondo le parole del biblico Amos – e che la mia conoscenza del futuro è particolarmente limitata quando si parla di quell’area così critica come il Medio Oriente.

Eppure, quando si tratta di Gerusalemme, si può prevedere con discreta certezza, che ci saranno molte proteste lanciate dal mondo arabo e musulmano, numerose minacce, che ci potrebbero essere anche degli attentati contro obiettivi americani e cittadini americani all’estero. Questo potrebbe riguardare ambasciatori e tecnici, uomini d'affari e media, e chiunque sia cittadino degli Stati Uniti. Non c’è bisogno di spostare l’ambasciata perché queste minacce siano reali. Ci sono già abbastanza persone che vogliono vendicarsi contro gli Stati Uniti per il cambiamento di atteggiamento nei confronti dell’Islam dopo la vittoria di Trump, in particolare per il collegamento che lui ha fatto tra il terrorismo e gli islamici, legame che Obama aveva sempre rifiutato di riconoscere.
Trump è anche una minaccia per l’immigrazione musulmana negli Stati Uniti, esprimendo i timori di non pochi americani per quanto riguarda gli immigrati musulmani.

Gerusalemme non ha un particolare peso sul piatto della bilancia in cui su un lato ci sono Trump e gli USA e sull’altro c’è il mondo arabo e musulmano. In realtà, il fattore più importante nelle decisioni del governo di Washington sullo spostamento dell’ambasciata è come Trump vede la questione di Gerusalemme: se lui valutasse Gerusalemme quale capitale eterna del popolo ebraico, un luogo al quale si rivolgono che molti cristiani, una città che i musulmani devono accettare come capitale di Israele che piaccia o no, e, soprattutto se non piace, allora avrebbe già spostato l’ambasciata a Gerusalemme, senza esitazioni, il giorno stesso in cui è entrato alla Casa bianca.

La realtà, però, è più complessa: come un astuto uomo d’affari, Trump sa fiutare un buon affare, diffidare di un accordo ad alto indice di rischio o di uno la cui probabilità di fallimento è notevole. Ci sono chiari segnali che invece il nuovo Presidente degli Stati Uniti pensi in termini di “America First”, il che significa che gli Stati Uniti intendono rinunciare alla loro posizione di poliziotto del mondo, abbandonare la miriade di conflitti in tutto il pianeta ai loro legittimi proprietari e concentrarsi su se stessi, sui propri problemi e interessi. Con questo modo di pensare, Trump non si sente obbligato ad abbandonare posizioni assunte da coloro che lo hanno preceduto alla Casa Bianca solo perché alcuni ebrei americani e israeliani pensano che debba spostare l’ambasciata a Gerusalemme.
È vero, lui ha promesso di farlo durante la campagna elettorale, ma così avevano fatto anche i suoi predecessori, e nessuno di loro ha mantenuto quella promessa.

Che fretta c'è? Ha quattro lunghi anni per rispettare quanto promesso, può benissimo decidere di aspettare prima delle elezioni per un secondo mandato, per ottenere il sostegno dei voti degli ebrei americani, che in maggioranza non hanno sostenuto la sua elezione. Ma la decisione di spostare o non spostare l’ambasciata comporta altri aspetti: come si comporterà Israele di fronte ad altre promesse presidenziali, tra cui le garanzie di sicurezza? Che cosa può essere offerto a Israele in cambio di mantenere l’ambasciata a Tel-Aviv – forse gli Stati Uniti chiuderanno un occhio sulle nuove costruzioni in Giudea e Samaria? Che tipo di immagine avrà il mondo del Presidente Trump, se lo si vedesse cedere a minacce e ricatti? Quali altre richieste potrebbero fare gli arabi e i musulmani quando vedranno che egli teme le loro minacce? Cosa penserà Putin, fedele ai suoi amici, come Assad, di un Presidente che non mantiene le proprie promesse? In che modo i musulmani americani e quelli fuori degli Stati Uniti, reagiranno al trasferimento dell’ambasciata? Sarà un motivo in più per compiere attacchi terroristici?

Queste domande aggravano le preoccupazioni di Trump, che potrebbe perdere la capacità di svolgere il ruolo di onesto mediatore tra Israele e i suoi vicini, che vedono Gerusalemme come negoziabile. Per questi ultimi, lo spostamento dell’ambasciata significa rendere l’esito dei negoziati una vittoria per Israele. E’ importante notare che l’ambasciata dovrebbe essere costruita su un terreno acquistato dagli americani anni fa, come gli edifici residenziali del personale dell’ambasciata sono stati costruiti molto tempo fa e poi dati in affitto. Il terreno non si trova nella parte orientale della città, che i palestinesi reclamano come loro capitale, ma ciò non ha alcun effetto sulla loro opposizione allo spostamento dell’ambasciata nella parte occidentale della città.
Che senso ha tutto questo? La logica però è stata a lungo assente dalla realtà del Medio Oriente; se il pensiero razionale avesse avuto qualche effetto sulla situazione, le nazioni del mondo avrebbero da tempo detto agli arabi ed ai musulmani che Gerusalemme era la capitale degli ebrei da oltre 3000 anni, molto prima che il resto delle nazioni avesse una propria capitale.

Ma anche noi siamo colpevoli. Bisogna dire la verità: Israele non ha fatto abbastanza per sancire il fatto che Gerusalemme è la propria capitale e per radicare questa realtà nella coscienza mondiale. Diverse prove lo testimoniano: importanti uffici governativi, tra i quali il Ministero della Difesa, si trovano a Tel Aviv. Di conseguenza, appena due settimane fa, abbiamo sentito dire al Congresso dal Segretario della Difesa designato da Trump che la capitale di Israele è Tel Aviv. Anche gli incontri con i responsabili della difesa di Israele hanno luogo a Tel Aviv, dove Israele ha speso miliardi per la costruzione del complesso del Dipartimento della Difesa, uffici non certo di poco conto.

A proposito dell’aeroporto Ben Gurion, vorrei far notare un fatto ancora più imbarazzante per i responsabili politici di Israele: tutti coloro che arrivano in aeroporto passeggiano lungo il terminal fino al controllo passaporti, attraversando un lungo corridoio circolare, le cui pareti sono coperte da gigantesche pubblicità, tra queste una per una marca di birra. In ebraico la parola “ bìra” definisce una bevanda alcolica nota come birra, ma quando si pronuncia sottolineando la seconda sillaba, “birà”, si dice “ la capitale”. Che vergogna !! E’ questo il modo in cui Israele dovrebbe accogliere i visitatori? E’ questo il messaggio che Israele vuole dare ai loro primi passi in Terra Santa? Birra? E’ questo ciò che conta? Perché non le foto della “birà” , Gerusalemme? O i bei paesaggi di Israele? La sua gente, le città, le strade? Come si può esserne orgogliosi? Solo la birra in primo piano? E’ questo il gradino più alto nella scala dei valori? E’ stato il profeta Isaia (Apocalisse 28,1) ad aver detto: “Guai a quella corona, l’orgoglio degli ubriachi di Efraim ...” ( 28.3 La corona di superbia degli ubriachi di Efraim sarà calpestata n.d.t.)

Sono altre le cose che Israele potrebbe fare per imprimere nelle menti dei propri cittadini e in quelle del mondo, il “ light motiv” di Gerusalemme quale capitale storica.
Ad esempio, si potrebbe tenere una commemorazione annuale dell’inaugurazione del Primo Tempio, avvenuta durante il regno di re Salomone (Re 1, 8), per la festa di Sukkot e fare sapere al mondo che Israele non è stato istituito nel 1948, ma quando il re Davide trasferì la capitale della monarchia ebraica da Hebron a Gerusalemme (Samuele 1, 5), rendendo lo Stato ebraico e la sua capitale antica di 3000 anni e più.

Un altro passo molto importante è quello di cambiare il nome arabo di Gerusalemme sui cartelli stradali di Israele. Ora si dice “Al Quds”, una denominazione relativamente recente. Il nome classico per Gerusalemme, che appare innumerevoli volte negli Hadith musulmani (Legge orale), è “Beit Al Maqdes”, e chi fa caso al nome si rende conto che è preso dalle parole Beit Hamiqdash, il Sacro Tempio. Israele ha tutto il diritto di usare quel nome poiché è quello che appare nelle prime fonti islamiche. Potrebbe semplicemente traslitterare la parola “Gerusalemme” in lettere arabe. Dopo tutto, questo è il nome della città.

Un’altra cosa che si potrebbe fare è quella di mettere grandi cartelli all’ingresso di ogni chiesa con scritto: “ Benvenuti a Gerusalemme, la capitale storica ed eterna di Israele”. Questi segnali dovrebbero apparire nel maggior numero di lingue possibili: ebraico, inglese, francese, spagnolo, russo e cinese. Si tratta di una lotta per sensibilizzare l’opinione pubblica, indicazioni che aiuteranno a determinare la legittimazione di Gerusalemme a noi, ai nostri vicini e ai chi viene a visitare il paese.
Malauguratamente, ci sono in Israele e nel resto del mondo, persone e organizzazioni – purtroppo anche tra ebrei e israeliani - che aspirano a dividere Gerusalemme e a dare la sua parte orientale ai musulmani, la cui città santa è la Mecca.

Dobbiamo mettere queste persone e le organizzazioni a cui appartengono, fuori dalla sfera pubblica israeliana e dal mondo intero. E’ importante ricordare che ci sono stati politici israeliani che hanno ceduto alle pressioni e messo Gerusalemme - cosa per cui ancora oggi sstiamo pagando il prezzo di quegli errori - sul tavolo delle trattative con i nostri vicini ostili. E’ troppo aspettarsi dalle nazioni del mondo e dai loro leader, che considerino Gerusalemme come capitale di Israele se noi non facciamo tutto il possibile per stabilire la sua centralità come nostra capitale.
Se faremo di tutto per dimostrare che Gerusalemme è eternamente nostra, non ci sarà motivo per tutti gli altri Paesi che impedisca di trasferire le loro ambasciate nella Città Eterna.

 

Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
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