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Mordechai Kedar
L'Islam dall'interno
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Dobbiamo prepararci alla guerra, quella vera 20/09/2014
 

Dobbiamo prepararci alla guerra, quella vera
Analisi di Mordechai Kedar

(Traduzione dall'ebraico di Rochel Sylvetsky, versione italiana di Yehudit Weisz, Dror Peleg)

 

In questi giorni i media ci hanno informato sulla preparazione a livello internazionale di una guerra contro lo “Stato Islamico”, mentre a Parigi si è svolta una Conferenza per aggregare più Paesi in grado di affrontare questa nuova guerra. Nel frattempo l’aeronautica militare americana ha intensificato gli attacchi contro i combattenti dell’ISIS, soprattutto in vicinanza delle dighe nel Nord dell’Iraq, per impedire che vengano fatte saltare causando migliaia di morti tra i civili.

Abbiamo poi ascoltato un discorso breve e risoluto del Presidente Barack Obama, in cui si esprimeva con toni che raramente aveva usato prima, paragonabili con quelli del suo predecessore, George W.Bush. Non ho ascoltato tutti i discorsi di Obama, ma in quelli che ho seguito, l’espressione “nostri amici e alleati” era davvero molto rara. Bush invece, parlando di guerra al terrorismo, la usava sempre. Questa deriva retorica è allora il riflesso di un approccio diverso da parte del Presidente americano? Non ne sono sicuro.

In questo discorso Obama ha più volte ripetuto che il governo iracheno è un alleato degli Stati Uniti. Già nell’introduzione ha detto che “gli Stati Uniti non possono fare per gli iracheni ciò che devono fare per se stessi”.
In questa frase sta tutto l’errore strategico di Obama nel considerare gli iracheni come un'unica etnia. Non ha ancora capito che gli iracheni non sono mai stati capaci di sviluppare il senso dell’unità e della solidarietà che definisce una Nazione. In Iraq le divisioni all’interno delle tribù sono vive e vegete, e le tribù sono più di settanta, così come esistono quattro gruppi etnici, e circa dieci religioni diverse, il tutto frammentato in numerosi gruppi comunitari. Non ci sono grandi probabilità che il nuovo governo iracheno funzioni meglio di quelli che l’hanno preceduto, occorrono ancora delle prove che dimostrino come l’esercito possa opporre più determinazione e coraggio nel combattere i macellai muniti di coltelli dell’ISIS.  E’ molto difficile costruire una coalizione internazionale, perché aderirvi comporta delle considerazioni che invece per lo “Stato Islamico” non hanno la minima importanza.

 Nell’Ucraina orientale c’è un’altra guerra e la Russia ne è protagonista. Non partecipa alla guerra contro lo “Stato Islamico”, per cui  molti Paesi europei non aderiscono alla coalizione di Obama contro Abu Bakr Al Baghdadi e i suoi jihadisti. Vi sono poi questioni regionali connesse alla guerra contro lo “Stato Islamico”, tra le quali il ruolo che sarà assegnato all’Iran e al regime di Assad, che hanno forti interessi per voler far parte dell’alleanza. L’Iran si attende un guadagno daicontrolli più facili sul materiale nucleare e Assad si aspetta di ottenere una “polizza di assicurazione” contro le imputazioni e la destituzione, sebbene sia stato dichiarato “criminale di guerra”. L’occidente non è molto incline a garantirgli questa “polizza di assicurazione”, e lui ha già annunciato che qualsiasi attività militare di un Paese straniero sul territorio e sui cieli siriani sarà considerata un atto di ostilità contro la Siria, cui lui risponderà adeguatamente.

Il problema maggiore a questo punto non è la Siria, ma la Russia, poiché qualsiasi incursione sul territorio siriano da parte delle forze della coalizione sarà una scusa per la Russia, che si comporterà nello stesso modo in Ucraina.
Un altro problema regionale è rappresentato dalla Turchia, un Paese che fin dal 2011, quando erano esplose le proteste contro Assad, ha sostenuto le forze ribelli siriane, dalle quali in tre anni è nato lo “Stato Islamico”.
Sono infatti passati dalla Turchia le migliaia di Jihadisti provenienti da tutti i Paesi del mondo che hanno raggiunto i sanguinosi campi di battaglia in Siria e Iraq.
La Turchia acquista petrolio dallo “Stato Islamico” a un prezzo incredibilmente basso e lo rivende sui mercati internazionali: in questo modo finanzia lo “Stato islamico”e rastrella un’enorme quantità di denaro per le casse del proprio erario. Una notizia recente ha affermato che la Turchia fornisce persino direttamente armamenti allo “Stato Islamico”.
Neppure il Qatar è troppo ansioso di combattere lo “Stato Islamico”, avendolo per lungo tempo foraggiato e sostenuto, ben sapendo che i jihadisti contro Assad appartenevano al suo schieramento. L’Emiro del Qatar teme che il suo Paese diventi un bersaglio dei combattenti del Jihad, così li paga profumatamente affinchè puntino le loro armi verso altri Paesi.
Anche l’Arabia Saudita non si propone distruggere lo “Stato Islamico” sunnita: eliminarlo significherebbe permettere all’Iran di rafforzare il potere degli shiiti.
I gruppi vicini ai “Fratelli Musulmani” s’identificano con lo “Stato Islamico” anche se non ne condividono i metodi brutali.

Un altro problema che potrebbe interferire con la guerra contro lo “Stato Islamico” è una possibile reazione radicale da parte dei musulmani sparsi in tutto il mondo, contro questa guerra e coloro che la sostengono. Negli ultimi mesi in molti Paesi sventola la bandiera nera dell’ISIS, i cui successi nella guerra contro gli eretici di Iraq e Siria infondono nei cuori dei musulmani di tutto il mondo un senso di euforia, che li porta a identificarsi con lo “Stato Islamico” e i suoi obiettivi, in particolare il Califfato Universale.
I musulmani radicali che s’identificano con il jihad, e che si trovano ovunque nel mondo, potrebbero sferrare attacchi, rapimenti, assassini, e tagliare le teste degli infedeli per vendetta contro la coalizione che sta combattendo contro lo “Stato Islamico”.

 La guerra che oggi si sta svolgendo contro lo “Stato Islamico” è un “déjà vu” del tempo della guerra contro al-Qaeda in Afghanistan a partire dalla fine del 2011. Molti degli elementi che avevano caratterizzato la guerra di allora, sono presenti in quella di oggi, per cui possiamo supporre che questa guerra contro lo “Stato Islamico” fallirà, esattamente come fallì quella contro al-Qaeda.
Le ragioni sono ovvie: non si tratta soltanto di una guerra contro un Paese o un’organizzazione, dove se vincono le forze di un esercito, la missione è compiuta. No, qui si tratta principalmente di una guerra contro un’ideologia, contro una fede e una religione, che risiedono nei cuori di molti milioni di persone sparse in tutto il mondo. Alla base della fede degli islamici c’è la convinzione che l’islam è la “vera religione”, mentre il cristianesimo e l’ebraismo sono “false religioni”.

Milioni di musulmani sono convinti che l’islam possa e debba governare il mondo. La convinzione che la guerra del jihad sia un’arma legittima per raggiungere il controllo del mondo è ancorata nella storia dell’islam e nella biografia di Maometto. La convinzione che un musulmano debba vendicarsi in nome di Maometto contro qualunque infedele che osi soltanto alzare una mano contro un musulmano è parte integrante dell’islam.
Milioni di musulmani nel mondo condividono l’idea che lo “Stato Islamico”, obiettivo di tutta la missione, rifletta il vero, puro, originale e corretto islam. Dovrebbe essere chiaro a tutti che come lo “Stato Islamico” è sorto sulle ceneri di al Qaeda, se lo “Stato Islamico”venisse abbattuto, sui suoi resti sorgerebbe un’altra entità islamica che attirerebbe milioni di musulmani.
A questi aggiungiamo i convertiti all’islam in Europa, America e in altri angoli del pianeta, uomini e donne con i capelli biondi e gli occhi azzurri, che dovranno ubbidire docilmente a tutte le imposizioni del sistema islamico.

Questo potrebbe essere lo scenario in Africa per mano dell’organizzazione “Boko Haram”, nel deserto del Sahara sostenuto dagli jihadisti libici, o nel Sinai sponsorizzato dai macellai di Ansar Bait al-Maqdis. La guerra contro i difficili principi islamici non è vincolata al tempo e allo spazio. E’ come il genio che, una volta uscito, non si riesce più a far rientrare nella bottiglia.

Nei Paesi occidentali l’immigrazione islamica mina dall’interno la stabilità dei governi, con il controllo islamico dello spazio pubblico, della politica, dell’economia, e dei media con il pretesto del “politicamente corretto”.
In molte parti del mondo si può dire “Lo Stato Islamico è qui”, nei quartieri in cui la polizia locale non ha accesso, nelle città dove una maggioranza musulmana impone la shaaria nei supermercati, nelle farmacie, nei bar, nelle chiese, e in Parlamento, dove la presenza dello “Stato Islamico” diventa sempre più forte e influente.
La guerra reale, quella vera, non è in Iraq e in Siria. Quella che si sta svolgendo in questi due Paesi è soltanto il proseguimento di quanto avvenne 13 anni fa in Afghanistan. La guerra reale, quella a largo raggio e pericolosa, esploderà non appena sarà eliminato lo “Stato Islamico”, e la vendetta per la sua distruzione si abbatterà su Europa, America, Australia e su qualsiasi luogo controllato da leggi fatte dall’uomo, con l’obiettivo di imporre la legge di Allah, come è spiegato a chiare lettere nel Corano. Chi è convinto che l’eliminazione dello “Stato Islamico” in Iraq e in Siria sarà la soluzione del problema, commette un errore, poiché il problema non è questa o quella organizzazione o Paese. Il problema è l’ideologia che oggi motiva un miliardo e mezzo di persone che credono che “La religione di Allah è l’islam” (Corano, cap.3 verso 19) : questa ideologia non sarà eliminata con l’uccisione dei jihadisti in Siria e Iraq.
I loro successori operano già in molti altri Paesi e il mondo deve essere pronto a cambiare le regole del gioco, altrimenti si troverà a spegnere gli incendi invece di catturare il piromane.

Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.


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