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Mordechai Kedar
L'Islam dall'interno
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Il sangue scorre nei fiumi del Giardino dell’Eden 03/11/2013
 

Il sangue scorre nei fiumi del Giardino dell’Eden
Analisi di Mordechai Kedar

(Traduzione dall'ebraico diSally Zahav, versione italiana di Yehudit Weisz)

Due dei quattro fiumi del Giardino dell’Eden, secondo il Libro della Genesi, si trovano in Iraq. Il Tigri e l’Eufrate nascono dai monti della Turchia, attraversano la Siria, entrano in Iraq e confluiscono nello Shatt al-Arab, per sfociare nel Golfo Persico. Tra i due fiumi è stata scavata una rete di canali, o arterie (in arabo “arteria” è “al-Iraq”) per fornire l’irrigazione ai campi coltivati nel caldo e secco deserto. Senza i fiumi e questi canali l’Iraq sarebbe un arido deserto.
Chiunque voglia sopravvivere in questo deserto rovente deve appartenere a un gruppo armato, pronto a combattere per difendere la propria sorgente d’acqua, il proprio sostentamento.
Nel corso delle generazioni, in Iraq si sono insediati molti gruppi che oggi costituiscono la popolazione dello Stato. Ci sono quattro gruppi etnici: arabi, curdi, turcomanni, e persiani, che a loro volta sono divisi in più di settanta gruppi tribali; otto religioni (musulmani, cristiani, ebrei, zoroastriani, sabei, mandei, yazidi, e baha’i) e innumerevoli sette (i musulmani sono divisi in sunniti, sciiti, salafiti, sufi, e altri ancora; i cristiani in cattolici, caldei, aramaici, armeni, assiri, bizantini, copti rifugiati dall’Egitto; i protestanti sono divisi in: assiri nazionali, oltre agli Avventisti del Settimo Giorno e ai sabbatariani.

E’ importante sottolineare che molti iracheni musulmani considerano i membri delle altre religioni come infedeli, per questo la punizione consiste o nel dover vivere come “dhimmi”, soluzione appropriata per ebrei e cristiani, o nel dover scegliere tra la conversione all’Islam o essere uccisi. Le misere condizioni di vita nel deserto hanno portato a una proliferazione di gruppi etnici e tribù,  di conseguenza a una popolazione divisa e polarizzata, litigiosa e violenta, con una lunga tradizione nel corso delle generazioni di lotte e faide sanguinose.

Sta in questo l’origine di tutte le disgrazie dell’Iraq. Gli inglesi, ai quali con il Trattato di Sèvres nel 1920 era stato assegnato il Mandato sull’Iraq, nel 1921 avevano incoronato Faysal come Re, e suo fratello Abdullah come Emiro di Transgiordania, per dare così una ricompensa ai figli del Re di Hijaz, Sharif Hussein, per il sostegno durante la Rivolta araba contro l’Impero Ottomano nella la Prima Guerra Mondiale. Il fatto che Faysal parlasse con un accento saudita e il popolo arabo iracheno con un accento iracheno non aveva alcuna importanza per i britannici. Gli iracheni non accettarono mai la casa reale che gli inglesi, conformemente ai loro interessi, avevano loro imposto, e neppure il modo con cui avevano definito i confini dello Stato – guardando a dove erano i giacimenti di petrolio - e non in base alle esigenze della popolazione.
In tutta la storia dell’Iraq ci sono stati scontri tra il governo arabo e la regione curda, tra la minoranza sunnita e la maggioranza sciita.
Questo è stato l’inevitabile risultato della demografia irachena.
Ed è anche il motivo per cui questo Paese negli ultimi nove anni è stato governato da gruppi dittatoriali, ognuno dei quali  pronto a opprimere con durezza e crudeltà chiunque non appartenga al gruppo al potere.

Data la natura confessionale del governo, alcuni settori della popolazione sono rimasti fedeli alle proprie tradizioni, garantendo così ai loro membri un riparo dalla furia dei governanti, dal momento che una collettività consolidata dalla tradizione è in grado di difendersi meglio e  negoziare con il governo centrale la divisione del potere. Per evitare continui conflitti con i vari gruppi, il governo centrale ha trovato il modo di pacificare i loro rapporti con concessioni economiche e incarichi governativi.
Agli occhi degli occidentali tale condotta è considerata corrotta, mentre in Medio Oriente appare necessaria e naturale.
Due furono i capi di governo che scrissero la storia irachena nella seconda metà del XX° secolo: Ahmed Hassan al-Bakr (1968-1979) e Saddam Hussein (1979-2003).
Dal punto di vista ideologico e organizzativo, entrambi fecero riferimento alle idee del baathismo e al partito istituito per la loro realizzazione. In realtà il loro regime era basato su un sistema di equilibrismi, tra la dura oppressione e la pacificazione di potenziali avversari, creando così rivalità in grado di evitare la formazione di coalizioni anti-governative.
Uno Stato illegittimo guidato da un governo illegittimo deve avere un nemico esterno per unificare l’opposizione al governo e portarla sotto il proprio controllo. L’Iraq ha identificato questo nemico nell’Iran, che ha combattuto in guerre cruente: la prima negli anni 1974 e 1975, contro lo Scià, e la seconda tra il 1980 e il 1988, contro il governo degli ayatollah.
Allo scopo di incrementare la solidità economica e il potere politico a spese dei Paesi vicini, nel 1990 Saddam conquistò e occupò il Kuwait. Anche se si aspettava che il mondo avrebbe condannato l’invasione, aveva creduto che alla fine sarebbe stata accettata come un fatto compiuto, ma si era sbagliato.
Nel gennaio del 1991, in una guerra durata cinque settimane, fu costretto ad abbandonare il Kuwait, dopo aver subito gravissimi danni inflitti all’esercito e alle infrastrutture civili dello Stato.
Ma la guerra e il regime di sanzioni imposte all’Iraq non portarono alla caduta di Saddam, perché i dittatori sanno bene come dirottare i disagi sulle loro popolazioni, nella maggior parte dei casi ne rimangono immuni.
Nel 2003 è stata creata una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti per attaccare l’Iraq. Saddam si era nascosto, ma nel 2004 fu arrestato e processato,e nel 2006, impiccato.

Ma la tragedia dell’Iraq, nonostante la popolazione sia stata affrancata dal regime dittatoriale, consiste nel mancato sviluppo dei meccanismi civili e politici, essendo rimasta la popolazione fedele alle tradizioni della tribù, del gruppo etnico, del gruppo religioso e della setta.
Apparentemente ci sono dei partiti politici, si svolgono le elezioni, sembra che la macchina parlamentare e il governo funzionino, ma se si esamina più in profondità come si muovono questi meccanismi, ne risulta che tutti, chi più  chi meno, hanno sempre la stessa struttura e conducono le battaglie di sempre, solo con strumenti più moderni che la caduta di Saddam ha introdotto.
Ma la cosa peggiore è che il sistema, soprattutto da quando le forze americane se ne sono andate alla fine del 2011, non ha avuto un solo potere equilibrato in grado d’imporre ordine a tutte le forze in conflitto.
Ne consegue che il governo non funziona, che parti del Paese, in particolare quella curda, si comportano come se fossero Stati indipendenti,  le organizzazioni jihadiste sunnite fanno esplodere autobombe nei quartieri sciiti, e in risposta, bande di jihadisti sciiti fanno saltare camion bomba nei mercati delle città sunnite.
Il disordine sociale, il caos politico e il vuoto di potere rendono l’Iraq vulnerabile all’influenza di potenze straniere.
Sono due i vicini coinvolti pesantemente nelle sanguinose vicende nella Terra dei Due Fiumi: l’Arabia Saudita, che finanzia, arma e addestra le milizie sunnite, e l’Iran che analogamente sovvenziona quelle sciite. Nell’ampia rete di canali tra il Tigri e l’Eufrate, in due dei fiumi che irrigavano con le loro acque il Giardino dell’Eden, oggi scorre il sangue iracheno, trasformandolo in un inferno.
Durante tutto il 2013, in Iraq diverse centinaia di persone sono state uccise in attacchi terroristici. Le forze di sicurezza sono state infiltrate da agenti di organizzazioni nemiche del governo, per cui non è possibile combattere efficacemente gli attacchi dinamitardi e terroristici.
Le mani di molti politici sono bagnate del sangue dei loro rivali, ma d’altra parte la loro dedizione violenta al proprio gruppo è quella che permette loro di essere eletti “democraticamente”. E dato che in Iraq gli sciiti sono in maggioranza, governa la coalizione sciita, con gli auspici iraniani, mentre la minoranza sunnita è marginalizzata politicamente, economicamente e socialmente.
Gli attivisti politici sunniti vengono arrestati e scompaiono torturati nelle segrete delle prigioni, non meno terribili di quelle di Saddam Hussein.Ma in queste prigioni i ruoli sono cambiati: allora i carcerieri sunniti di Saddam torturavano gli sciiti, ora sono i carcerieri sciiti di Nuri al-Malaki, il Primo Ministro sciita, a torturare i sunniti.
Alcuni leader sunniti che facevano parte in passato del partito Ba’ath e che oggi sono in prigione potrebbero  essere impiccati.
Nel frattempo, la Siria, il vicino a ovest, si è aggiunto alla lista degli Stati colpiti dalle “ turbolenze arabe “ che sono iniziate in Tunisia nel dicembre 2010, causando anche in quel Paese un bagno di sangue.
L’Arabia Saudita sunnita wahabita sostiene le organizzazioni jihadiste sunnite salafite che operano in Iraq contro il regime sciita, con finanziamenti, armi e combattenti, mentre in Siria i sunniti combattono contro il dittatore alawita sotto la spinta di al-Qaeda, anche se il nome di questo gruppo non compare tra le varie sigle dei ribelli.
Gli americani osservano quello che avviene in Iraq, attoniti e senza speranza. Da una parte Obama si vanta di aver portato via le truppe americane dall’Iraq, dall’altra vedendo come la “democrazia” si sta trasformando in un regime di tortura, il sangue scorre nelle strade e l’ influenza iraniana è sempre più forte, non ha nessun desiderio di sostenere il regime iracheno.
D’altra parte, se il regime in Iraq è debole, allora milizie come al-Qaeda e lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria possono occuparne una parte, in modo particolare le regioni di al-Anbar, a ovest,  colonizzate da tribù sunnite, e trasformare questa area in un nuovo Afghanistan, unendole con la regione est della Siria, il Dir al-Zur, dopo che lo Stato siriano si sarà disintegrato.

 E’ contro questo insieme di situazioni che il Primo Ministro iracheno si è recato a Washington, per informare Obama su quanto i governi iracheni, ed in modo particolare il suo, hanno ottenuto negli ultimi anni: un aumento della produzione di petrolio e un conseguente aumento del reddito; una diminuzione del tasso di povertà e disoccupazione; il reinserimento dei profughi che se ne erano andati negli ultimi decenni; una migliore nutrizione per bambini ed adulti assieme ad una diminuzione della mortalità infantile; un miglioramento della qualità dell’acqua potabile; più bambini iscritti alla scuola dell’obbligo; un miglioramento della condizione delle donne e la concessione alle donne di essere elette al parlamento; lo sradicamento quasi totale della malaria; il verificarsi di elezioni democratiche per il parlamento e per i governi locali.
Per mantenere queste conquiste e progredire per ottenerne altre, al-Maliki ha bisogno delle armi americane che gli daranno la possibilità di combattere efficacemente contro le forze che cercano di trasformare l’Iraq in un Jihadistan sunnita, sotto l’influenza dell’Arabia Saudita.
Il problema è che se gli Stati Uniti forniscono le armi a uno stato sciita, potrebbero aiutare gli sciiti a trasformare l’Iraq in uno Jihadistan sciita, che agirebbe sotto l’influenza iraniana. Al- Maliki è interessato principalmente ai droni " predator” che darebbero la possibilità al regime di attaccare la jihad sunnita senza rischiare i piloti. Questi droni hanno dato prova di sé in Yemen, Pakistan e Afghanistan. Ma cosa succederebbe se al-Maliki permettesse ai suoi amici in Iran di esaminare questi droni in modo da poter sviluppare armi simili? Come potrebbero in futuro gli americani usufruire, se fosse necessario, di queste armi contro l’Iran? E cosa succederebbe se gli iraniani condividessero questi segreti con i loro amici russi e cinesi?
L’accordo di cooperazione strategica che era stato firmato tra l’Iraq e gli Stati Uniti poco prima del ritiro americano fornisce lo sfondo di queste discussioni, perché gli Stati Uniti si sono impegnati a sostenere la stabilità del regime, anche se il suo comportamento non è perfetto e non riflette i valori democratici americani e i loro interessi ragionali.
Al-Maliki dovrà usare tutta la sua forza di persuasione per avere l’approvazione Usa – stanchi delle guerre e del coinvolgimento nelle crisi mediorientali – a prendere significativi provvedimenti che potrebbero trascinarli di nuovo nelle paludi irachene.
Anche la crisi in Siria sarà oggetto del dialogo con Obama. Al-Maliki è un rappresentante della posizione iraniana, e la sua presenza alla Seconda Conferenza di Ginevra, se ci sarà, potrebbe far pendere la bilancia a favore di Assad.
Da un lato Obama non è entusiasta della partecipazione alla conferenza del duo iracheno-iraniano, dato che considera l’Iran come parte dominante del problema, ma non necessariamente parte della soluzione. D’altronde tutti sanno che non c’è possibilità di trovare una soluzione, se questi due Stati non la vogliono approvare e agiscono contro.

 La domanda di fondo sugli eventi in Iraq è questa: smetterà di scorrere il sangue nel Tigri e nell’Eufrate, in Siria e in Iraq e l’acqua dei due fiumi sarà nuovamente il nutrimento del Giardino dell’Eden come una volta?

 Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
Link:
http://eightstatesolution.com/
http://mordechaikedar.com/


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