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Mordechai Kedar
L'Islam dall'interno
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Turchia: democrazia 'yok' 11/08/2013

" Turchia: democrazia 'yok' "
analisi di Mordechai Kedar

(Traduzione dall’ebraico di Sally Zahav, versione italiana di Yehudit Weisz)


Recep Tayyp Erdogan

Intorno alla metà del 17° secolo, il sultano turco Ibrahim, detto “il folle”, aveva ordinato al comandante della sua flotta di conquistare l’isola di Malta. L’ammiraglio, a causa di una manovra sbagliata, non trovò l’isola. Un’altra versione dei fatti sostiene che invece non avesse avuto alcuna intenzione di raggiungere Malta, per cui l’aveva  addirittura cancellata dalla mappa di navigazione in modo che l’equipaggio non fosse in grado di trovarla. Ritornato in Turchia aveva detto: ”Malta yok” ovvero “Malta non esiste”. In questi giorni, ci chiediamo se in Turchia esiste la democrazia oppure se “democrazia yok”.

Questa domanda è valida non solo per quel che riguarda gli avvenimenti delle ultime settimane, quando 250 personalità, militari e civili, accusate di aver tentato di rovesciare il governo di Recep Tayyip Erdogan, sono state incarcerate, ma vale anche per quanto riguarda l’ultimo decennio, durante il quale Erdogan, a capo del partito islamista “Giustizia e Sviluppo”, ha governato il paese con il pugno di ferro. Questa domanda vale anche per gli anni che precedono il potere islamista, a cominciare dalla rivoluzione laica di Mustafà Kemal, “Atatϋrk”, che nel 1923 fu eletto Primo Presidente della Turchia moderna. Chi ha buona memoria si ricorda il film “Fuga di mezzanotte”,   che descrive perfettamente gli abominevoli metodi di tortura del regime turco all’era del laicismo. Persino lo stesso Erdogan nel 1998 rimase in carcere dieci mesi per aver letto in pubblico una poesia che conteneva la seguente frase “Le moschee sono le nostre fondamenta, le loro cupole sono i nostri elmetti, le loro guglie sono le nostre spade e i loro credenti i nostri soldati”. Fu incarcerato perché  leggere questa frase era considerato un atto di democrazia? Il sistema giuridico di allora era obiettivo?

Fino dal 1923 la Turchia è stata un campo di battaglia per i conflitti tra due movimenti culturali in guerra tra loro: quello laico, il Kamalismo (dal nome di Mustafa Kemal, “Atatϋrk”), che venne imposto alla Turchia con l’uso della violenza e con la dittatura, e quello della tradizione islamica,  represso per decenni, ma oggi al potere,  e che usa ogni mezzo per conservare il potere,  persino quelli che dovrebbero essere considerati non democratici secondo i criteri occidentali.

L’esercito e il sistema giudiziario sono stati sempre i difensori della laicità. Secondo la costituzione, il ruolo dell’esercito nel proteggere il carattere laico del Paese è ancora più importante del  ruolo di difesa dai nemici esterni. L’esercito ha svolto questa funzione quattro volte, quando dovette intervenire mandando i politici a casa negli anni 1960, 1971, 1980 e 1997. L’ultima volta fu dopo la prima vittoria politica del movimento islamico: il Partito di Necmettin Erbakan, che nel 1996 aveva vinto le elezioni. L’anno successivo l’esercito esautorò Erbakan e mise al bando il suo partito. Dalla piattaforma ideologica di quel partito, era intanto cresciuto l’attuale partito “Giustizia e Sviluppo” di Erdogan,  che ha governato la Turchia dal 2002.

Per auto-difesa, l’attuale governo si è sentito in dovere di delegittimare i custodi della laicità: Esercito,  Presidenza e  Corte Suprema. Con un’operazione senza interruzioni e per gradi, Erdogan alla fine è riuscito a promuovere l’amico Abdullah Gul, ex Ministro degli Esteri, a Presidente della Turchia. Poi, modificando la Costituzione, ha nominato nella Corte Suprema dei giudici che non appartengono al settore laico. L’esercito, che  era stato un corpo totalmente laico , è stato completamente svuotato: ogni volta che un ufficiale andava in pensione o dava le dimisssioni, veniva sostituito da un ufficiale leale alla legge islamica.

Tuttavia l’élite laica continuava a resistere, anche se in maniera riservata; aveva formato un gruppo segreto, detto “l’anima profonda del Paese”, costituito dalle poche migliaia di persone rimaste fedeli alla dottrina laica, anti-islamica di Atatϋrk. Tra loro c’erano importanti personalità dell’esercito, politici, accademici, giornalisti, giudici, avvocati, artisti, scrittori, poeti e uomini d’affari che avrebbero potuto con i loro notevoli mezzi economici e la loro autorevolezza, far cambiare assetto al paese, anche perché ritenevano Erdogan e i suoi islamisti, che soltanto una generazione prima erano ignoranti e privi di educazione, fossero andati al potere senza alcuna preparazione a gestire uno Stato moderno.

Erdogan e il suo partito sono impegnati in una lotta senza esclusione di colpi  contro il movimento laico, che è rappresentato in Parlamento da pochi e piccoli partiti. Per difendere la propria immagine a livello dei media, il governo islamico ha messo in carcere dozzine di giornalisti che avevano criticato la condotta e il comportamento del Primo Ministro. Tutto questo ha assunto sempre più importanza dopo le violente manifestazioni esplose in Turchia nei mesi scorsi a causa del progetto di sviluppo che il governo sta predisponendo nel centro di Istambul. Le relazioni tra capitale, stampa e governo nella Turchia di Erdogan sono strette e sotto controllo, esattamente come lo erano durante il governo laico.

Sullo sfondo di questa lotta per il potere tra movimenti laici e religiosi è sorto l’Affare Ergenekon, che ha portato all’arresto  centinaia di persone, tra cui noti ex ufficiali dell’esercito,  accusati  di complotto al fine di rovesciare il governo del partito islamico. Tra gli arrestati si contano addetti militari, uomini d’affari, giornalisti, accademici e artisti. Tutti hanno subito un processo di fronte ad un tribunale speciale, le cui regole impediscono all’imputato di potersi difendere con efficacia.

Secondo l’accusa ognuno degli imputati è stato responsabile di aver preso parte al complotto,  considerato come opera di una rete terroristica, affermazione che consente al governo di limitare con più facilità i diritti degli imputati. Il più importante degli imputati è l’ex Capo dell’esercito, il Generale Ilker Basbug, che è stato condannato all’ergastolo. Era stato arrestato nel 2012 e accusato di aver commissionato dei siti su Internet atti a diffondere propaganda anti governativa e contro il Primo Ministro. Anche molte altre note personalità dell’esercito sono state condannate a numerosi anni di carcere con l’accusa, non provata, di aver organizzato omicidi.

Il processo ebbe luogo nella prigione Silivri a Istambul, in un settore costruito per l’occasione, con il divieto assoluto di accesso a media. In questo modo il governo è riuscito a manovrare l’intero processo. Ogni volta che dei dimostranti si riunivano davanti alla prigione per protestare su come si svolgeva il processo e sui modi in cui tutto ciò accadeva, la polizia scioglieva le dimostrazioni con brutale violenza.

L’immagine della Turchia è ora in gioco: sarà un Paese liberale e moderno come il suo fondatore Mustafa Kemal, “il Padre dei Turchi”, si proponeva, o tornerà invece indietro, a quei giorni in cui i sultani ottomani sventolavano sui palazzi del potere la bandiera islamica ?.  L’esercito, i media, l’accademia, le arti, il commercio, tutto sta per essere stravolto in questa lotta, e  alla vigilia della sentenza definitiva per gli imputati dell’affaire Ergenekon, la lotta si farà ancora più forte.
Ognuna delle parti si schiera sulle proprie posizioni, reagisce in modo sempre più violento, per cui è probabile  che la Turchia stia scivolando, sebbene non così velocemente come successe in Egitto, in una serie di lotte  all’interno della sfera pubblica, come si è visto nei mesi scorsi.

Tutto questo avrà ripercussioni sia sull’economia  che sui rapporti internazionali. Gli Stati europei, che in passato avevano espresso dubbi sull’ingresso della Turchia nell’Unione europea  per il modo con cui viene trattata l’opposizione, potrebbero ora intensificare le loro richieste a Erdogan di alleggerire la repressione. Ci potrebbero essere anche delle procedure processuali a livello internazionale per rimettere in discussione le sentenze  comminate nell’Affare Ergenekon, sia sotto la forma di un appello diretto alla Turchia o attraverso un ricorso al tribunale internazionale.

La Turchia continuerà ad affermare che è normale, in uno Stato democratico, l’intensificarsi della lotta culturale tra le opposte correnti? E il mondo continuerà a guardare alla Turchia come a un partner negli incontri diplomatici, anche quando i diritti umani basilari vengono calpestati al suo interno? 

Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
Link:
http://eightstatesolution.com/
http://mordechaikedar.com/


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