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Zvi Mazel/Michelle Mazel
Diplomazia/Europa e medioriente
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Tunisia: la prima sollevazione popolare nel mondo arabo 18/01/2011

Tunisia: la prima sollevazione popolare nel mondo arabo
di Zvi Mazel
(traduzione di Laura Camis de Fonseca) 


Zvi Mazel

La rivoluzione spontanea  del popolo tunisino porta un cambiamento nel mondo arabo, dimostrando che le rivoluzioni dal basso  sono possibili ovunque.

Gli avvenimenti  in Tunisia  hanno stupito e preoccupato alla pari sia i paesi arabi sia i paesi occidentali. 

La Tunisia non era un paese con  forti componenti rivoluzionarie.  Il governo del presidente Zine El Abidine Ben Ali era stabile e l’economia prosperava.  Aveva espulso Rashad Anushi e altri capi della Fratellanza Islamica  dopo che il  loro partito, Rinnovamento Islamico,  aveva ottenuto il 17 % dei voti  nelle elezioni del 1987.   Da allora l’Occidente ha visto in Ben Ali un bastione nei confronti  dell’islam radicale.  Fioriva il turismo, milioni di visitatori cantavano le lodi del paese.  Quello che nessuno voleva vedere era che Ben Ali governava col pugno di ferro e non tollerava né l’opposizione legittima, né le critiche.  Chi  gli si opponeva andava o in prigione o in esilio.

Non molti in Occidente notavano che soltanto una piccola minoranza godeva dei benefici delle riforme economiche e degli utili del turismo.  La corruzione era diffusissima, fondamentalmente a favore della famiglia di Ben Ali e della sua seconda moglie Laila.  Milioni, anzi miliardi di dollari finivano sui loro conti in Francia e in altri paesi.  Questo dirottamento della ricchezza di stato  ha portato all’inflazione,  all’aumento costante dei prezzi dei beni di prima necessità, e poi all’aumento della disoccupazione. I dati ufficiali dicono che i Tunisini disoccupati sono il 15%, ma è più probabile che siano quasi il 20%.  L’Occidente non ha reagito a queste situazioni ed ha rafforzato i legami con Ben Ali. I paesi arabi vedevano nella Tunisia un esempio lampante di un regime apparentemente aperto, in realtà basato sul soffocamento di qualunque opposizione e sul controllo diffuso dei servizi di sicurezza su ogni  aspetto di vita.

Un mese fa  Mohammed Ben Aziz,  giovane laureato disoccupato che, non avendo trovato lavoro,  viveva vendendo verdura nella città di Sidi Bouzid,  si è dato fuoco  dopo che un poliziotto aveva  distrutto il suo banchetto precario e  privo di licenza.   Molti altri  disoccupati locali   hanno dato vita a  una  violenta protesta  che  ha infiammato la regione  estendendosi  poi al resto del paese.  La sommossa crebbe per circa un mese,  nel silenzio dei media internazionali, e persino  i media arabi si tennero a distanza.  Tutti pensavano che si trattasse dell’ennesimo fuoco di paglia che Ben Ali avrebbe rapidamente spento.  Il mondo incominciò a prestare attenzione quando  dimostrazioni simili avvennero in Algeria, e sorse il timore dell’effetto domino.   Mentre la situazione ad Algeri si andava calmando, almeno momentaneamente,  gli eventi in Tunisia  si aggravavano e si estendevano alla capitale.

Ben Ali usò di nuovo il pugno di ferro:  la polizia e le forze di sicurezza aprirono il fuoco sui manifestanti, uccidendo 80 civili  inermi.  Le proteste si fecero ancor più determinate.  Il comandante in capo dell’esercito  annunciò allora che  i suoi uomini non sarebbero più  intervenuti.  Senza pensarci su,  il presidente lo destituì.  Meno di 24 ore dopo Ben Ali  fuggiva,  lasciando molti stupefatti.  Dopo tutto la polizia era ancora fedele al regime e i membri del partito di governo erano  in tutto il territorio, costituendo una forza con cui fare i conti.

D’un tratto il mondo  si trovò di fronte ad una rivoluzione popolare araba riuscita,   che non s’era mai vista prima.  C’erano state rivoluzioni nel mondo arabo fin dai tempi dell’indipendenza dalle potenze coloniali: la rivoluzione dei Giovani Ufficiali  nell’Egitto del 1952,  le rivoluzioni in Iraq, Siria, Libia e Sudan – ma furono tutti colpi di stato militari che a posteriori si  dichiararono fatti in nome  e nell’interesse del popolo.  In Tunisia è successa una cosa  nuova: una protesta spontanea  iniziata dal popolo, non  dai leader,  è diventata una valanga in modo  autonomo -  a meno che non emergano prove di  manipolazioni  occulte.  Pare trattarsi di una autentica rivolta popolare, nata dalle sofferenze di tante persone e dall’odio per un governo corrotto.  Pare anche che i  nuovi mezzi di comunicazione –  network sociali, telefoni cellulari -  non abbiano avuto un ruolo di rilievo negli eventi, che erano chiari  agli occhi di tutti,  ma hanno soltanto aiutato a informarne la stampa internazionale.   I media hanno trovato una connessione fra gli avvenimenti e  i messaggi  diplomatici recentemente divulgati da Wikileaks  sull’ampiezza della corruzione in Tunisia,  specialmente nella famiglia di Ben Ali.  Ma si trattava di cose che il popolo sapeva bene, ben meglio dei diplomatici.


La Francia, molto vicina Ben Ali, è stata il primo paese ad essere colto di sorpresa.  Soltanto la settimana scorsa il Ministro degli Esteri Michele Alliot-Marie gli aveva offerto sostegno,  segno chiaro che il governo francese non aveva capito che cosa succedeva.  Sarkozy poi  ha raddrizzato il timone rifiutando asilo politico a quello che meno di una settimana prima era ancora definito un amico.  Ben Ali  perciò è stato costretto a cercare rifugio in Arabia Saudita.  Parigi ha fatto sapere che i familiari del deposto presidente non sono persone gradite e ha congelato i suoi conti in banca.  Altri paesi europei non si sono ancora pronunciati,  in attesa di capire da che parte tira il vento.  Il presidente americano Barack Obama ha offerto aperto sostegno  ai dimostranti, ma soltanto dopo che avevano vinto. 


Ora i media arabi indipendenti  - che esistono – accusano i paesi occidentali che hanno sostenuto Ben Ali,  e che sostengono altre dittature arabe,  di aiutare i dittatori ad esistere e  di prolungare le sofferenze dei popoli.  E’ giusto?  Le potenze occidentali dovrebbero attivarsi per cambiare i regimi nel mondo arabo?  Non esiste una risposta netta.  Un  comportamento del genere sarebbe  ben accetto, o provocherebbe ancora più odio per l’Occidente,  destabilizzando i paesi  arabi e suscitando caos?  L’Iraq dovrebbe aver insegnato una lezione.

I paesi arabi tacciono.  L’Arabia Saudita ha dichiarato di aver concesso asilo a Ben Ami per motivi umanitari e per solidarietà islamica,  come aveva fatto in passato con Idi Amin, Nazaf Sherif ed altri,  ma  ponendo come condizione che l’ex presidente non  svolga azione politica in territorio saudita.

I paesi arabi sono preoccupati.  Nei palazzi reali e presidenziali ci si chiede se questa rivoluzione sarà la prima di una serie.  La situazione economica non è migliore, forse peggiore,  in Algeria, Marocco, Libia, Egitto, Giordania, Siria e Yemen. Tutti paesi in cui sono rampanti  disoccupazione, povertà, malattie, analfabetismo,  grandi disuguaglianze e  corruzione delle élites.  Perché non ci dovrebbero essere rivoluzioni analoghe in questi paesi?  E’ difficile capirlo.  Forse perchè ci sono  condizioni  molto diverse da paese a paese.   I cosiddetti esperti di Egitto si aspettano una rivoluzione da 20 anni, eppure la mano di Hosni Mubarak  è ancora salda al timone … per ora.  In Algeria l’esercito ha annullato il risultato  della prima tornata di elezioni  del 1991,  dopo la vittoria  dei radicali del  Fronte Islamico di Salvezza.  Ne è scaturita una guerra civile durata molti anni, che potrebbe non essere ancora a finita,  che ha già fatto 200 000 morti.  Si può dire che in tutti i paesi arabi esistano le condizioni di base per una rivoluzione,  ma  questo non significa che ci saranno rivoluzioni. 

 

E’ interessante capire il grado di coinvolgimento degli islamisti militanti,  in particolar modo dei Fratelli Mussulmani,  negli eventi recenti.  La conquista del potere da parte di radicali islamici è il maggior incubo per l’Occidente,  ma anche per gli Arabi.  Le immagini delle dimostrazioni e degli scontri  con le forze di sicurezza in Tunisia non mostrano giovani con la barba e la galabia, segni  identificativi dei militanti islamici.  Non c’è traccia di propaganda islamista.

Il leader in esilio dei Fratelli Mussulmani Rashad Anushi, che vive a Londra,  ha rilasciato una intervista dai toni misurati al quotidiano Asharq Al-Awsat,  in cui sottolinea le sofferenze del popolo tunisino ed esprime  sostegno  ai dimostranti che, secondo lui, rappresentano tutto il popolo.  Durante gli scontri di Algeri  della settimana scorsa il capo del Fronte Islamico di Salvezza ha tentato di partecipare alle proteste e di assumerne la guida, ma non ci è riuscito.  Il leader Abbas Medani, che  vive in esilio in Quatar,  ha inutilmente incitato per ben cinque giorni i suoi seguaci a unirsi alle dimostrazioni.  Il suo vice Ali Belhaj ha  tenuto  un  acceso comizio nel centro di Algeri,  ma pochi lo hanno ascoltato.  Può essere il segno che qualche cosa sta cambiando,  che gli Arabi  rifiutano l’Islam radicale, che porta soltanto caos e distruzione?  E’ troppo presto per dirlo. 

Ben Ali  è fuori,  ma i suoi sostenitori e il partito di governo sono ancora in posizioni di potere.  Sono organizzati,  e non abbandoneranno facilmente il proprio status e le proprie ricchezze.  Bande armate ancora occupano le strade, portando distruzione e saccheggi.  L’esercito sta riprendendo il controllo,  ma la situazione è  ancora  densa di pericoli.  Il governo  provvisorio,  tutto composto di uomini di Ben Ali,  sta discutendo con i leader dei vari partiti  per indire elezioni entro 60 giorni.  E’ un periodo lungo.

Qualunque sia l’esito, la rivoluzione spontanea dei Tunisini ha cambiato per sempre il mondo arabo,  dimostrando che una rivoluzione dal basso è possibile ovunque.

(Zvi Mazel, già Ambasciatore israeliano in Romania, Svezia ed Egitto, è
membro del Jerusalem Centre for Pubblic Affairs and State)


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