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Zvi Mazel/Michelle Mazel
Diplomazia/Europa e medioriente
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L'esplosiva questione dei rifugiati 25/07/2010

" L'esplosiva questione dei rifugiati "
di Zvi Mazel
(traduzione a cura di Laura Camis de Fonseca)
Le analisi di Zvi Mazel sono pubblicate in Italia in esclusiva da Informazione Corretta


Zvi Mazel

Una  nuova proposta di  concedere una serie di diritti  ai rifugiati
palestinesi in Libano  incrina  l'unanime consenso arabo  sulla certezza del
ritorno in Palestina.
E' la nuova  bomba politica lanciata  dal leader druso libanese Walid
Jumblatt,  che un anno fa  defezionò,   abbandonò lo schieramento filo
occidentale e passò nel campo filo-siriano.  La proposta mira ad esacerbare
le tensioni ed i conflitti interni alla società libanese.
Il 19 giugno scorso  Jumblatt lasciò stupefatto  il  mondo politico
presentando  in parlamento quattro proposte di legge che, se adottate,
darebbero ai rifugiati palestinesi in Libano una serie di diritti,  ma non
il diritto di cittadinanza:  il diritto a possedere una residenza al di
fuori dei campi profughi,  il diritto a cercar lavoro in qualunque settore e
a godere  dei benefici sociali legati al lavoro,  come l'assistenza
sanitaria e la pensione.

Si tratta di  una mossa, pienamente riuscita,  che  mira ad aumentare
l'ostilità fra Cristiani e Mussulmani.  Tutti i partiti cristiani,  incluso
quello di Michel Aun,  il generale cristiano  schieratosi  con l'opposizione
guidata da Hizbollah,  si sono detti contrari e hanno inviato le proposte
all'esame di  varie sub commissioni parlamentari.
I partiti islamici, incluso Hizbullah, non si sono pronunciati ed hanno
detto di essere aperti  alla discussione.
Al cuore del problema c'è la comune paura  che concedere diritti ai
rifugiati palestinesi porti non soltanto  al loro sistemarsi in Libano, con
conseguente  rottura del fragile equilibrio fra le diverse comunità
libanesi,  ma anche a infrangere il principio comune a  tutti gli stati
Arabi che i rifugiati non debbano venir integrati nei paesi che li ospitano,
ma debbano tornare in Palestina.

Secondo l'UNWRA nei 12 campi profughi sparsi per il Libano vivono 425 000
rifugiati palestinesi che fuggirono nel 1948, e i loro discendenti.  Si
tratta probabilmente di una cifra  superiore  a quella  reale,   perché
molti nel frattempo sono andati in altri  paesi arabi,   o in occidente a
cercar lavoro.
In base all'accordo del Cairo del 1969 fra il governo libanese e  il PLO e a
vari accordi successivi fra i governi libanesi e il PLO  all'epoca di Yasser
Arafat,  i rifugiati debbono vivere nei campi,  all'interno dei quali hanno
diritto all' autonomia amministrativa,  a detenere armi e ad 'addestrarsi
per  la lotta di liberazione'.  Le forze di sicurezza libanesi non possono
entrare nei campi,  ma  stazionano all'esterno.

L'UNWRA venne creata nel 1949 per provvedere agli abitanti dei campi,  ai
servizi educativi e sanitari,  oltre che al loro sostentamento.   I
finanziamenti però sono andati diminuendo nel tempo.   Le tende sono state
rimpiazzate da edifici in muratura,  ma i  rifugiati non  possono andare a
cercare nè  lavoro né casa fuori dei campi.
Così i campi sono diventati slums  i cui abitanti sono manipolati  a fini
diversi  da diverse organizzazioni palestinesi.  Fatah controlla la
maggioranza dei campi,  ma ci sono anche il Fronte Popolare per la
Liberazione della Palestina e altri gruppi.  Recentemente vi si sono
insediate anche organizzazioni jihadiste  informalmente legate ad al Qaeda.
Le dispute  si fanno spesso violente e portano conflitti a fuoco.  Le
organizzazioni jihadiste  pianificano nei campi  gli attacchi  missilistici
contro Israele.

Le autorità libanesi non possono entrare nei campi, possono soltanto stare a
guardare.   Eppure nel 2007  alcuni estremisti nel campo  di al-Barad
vicino a Tripoli  (di Libano)  pianificarono,  su incitamento  siriano,
attacchi terroristici  nel nord del Libano  per destabilizzare  il paese.
La Siria voleva far  pressione sul governo libanese perché bloccasse
l'attività della  Corte di Giustizia Internazionale,  istituita dal
Consiglio di Sicurezza dell'ONU, per investigare l'assassinio  del primo
ministro libanese Rafik Hariri,  di cui  è sospettata proprio Beirut.
Seguirono  tre mesi di lotte sanguinose fra gli estremisti e  l'esercito
libanese,  che lasciò sul terreno  400 morti, di cui  168 soldati. Il campo
fu totalmente distrutto e  decine di migliaia di profughi rimasero senza
tetto.

Le fazioni  palestinesi filo siriane,  come il PFLP di Ahmed Jibril,  hanno
anche  eretto fortificazioni fuori dei campi,  soprattutto nella parte
orientale della valle della Bekaa, lungo la frontiera siriana.  I Siriani
usano queste fortificazioni, dove le forze armate libanesi non osano
entrare,  per  accumulare armi e addestrare le  milizie di Jibril,  che
portano le armi  pubblicamente,  ad  azioni sovversive  in Libano.

La situazione complessiva  è cupa,  ma nessuno in Libano né nel mondo arabo
dice apertamente che è il prodotto  della  scelta politica araba di impedire
l' integrazione dei  rifugiati negli stati arabi confinanti,  per  non
rischiare di disinnescare  il conflitto nato dal rifiuto arabo della
spartizione della Palestina,  che avrebbe dato anche ai Palestinesi uno
stato.  Fu il  concorde   tentativo degli Arabi di  distruggere  il neonato
stato di Israele a creare  la dolente piaga  dei  profughi palestinesi.

A più di 60 anni di distanza, il Libano  è la prima vittima di  questa
situazione impossibile,  che minaccia la sua stessa esistenza.  Sistemare  i
profughi nei campi  doveva essere una soluzione temporanea.  Tutti i
successivi governi libanesi rifiutarono di  integrare  i profughi,
insistendo che  prima o poi sarebbero ritornati in Palestina.  Questo fu
scritto anche nella costituzione e  inserito nell'accordo di Taif  che pose
termine alla guerra civile libanese nel 1989.   L'accordo stabiliva anche
che tutte le milizie  fuori dei campi, incluse  quelle di Hizbullah e di
Jibril,  sarebbero state disarmate,  ma questo non avvenne.  Nessun governo
libanese  fu mai in grado di imporre il rispetto di quella parte
dell'accordo.

Povertà, terrorismo e mancanza di speranze  hanno  trasformato i campi in
piaghe  aperte nel corpo del paese,  ed anche polveriere  pronte ad
esplodere,  gettando il Libano nel caos e  frazionandosi in una miriade di
schegge guerrigliere.   Tutti capiscono che  questa situazione non può
proseguire e che  occorre fare 'qualche cosa'.
Il Libano aderisce ancora alla cosiddetta iniziativa saudita e araba  che
ribadisce che i rifugiati  non debbono venir assorbiti all'interno dei paesi
ospitanti -  parole  prive di  senso.

Ora Jumblatt ha  lanciato questa provocazione,  sapendo bene che il suo
paese non può risolvere da solo il problema e che il solo fatto di parlarne
apre voragini fra le comunità  libanesi e indebolisce il governo.  La
Commissione per gli affari legali  cui  le proposte sono state inoltrate
dapprima ha deciso di  rimandarne la discussione, poi  l'ha  fissata per il
15 luglio.  I rifugiati sono  in agitazione e  hanno fatto una grande
dimostrazione a Beirut chiedendo i diritti civili  per  'poter condurre  una
vita decorosa'.
Il presidente di Hamas Khaled Mashaal  ha detto agli studenti palestinesi a
Damasco che i rifugiati debbono avere  i pieni diritti civili, e che ciò non
significa che i rifugiati  si stabiliranno in Libano,  perchè i Palestinesi
non rinunceranno mai al diritto al ritorno.

Anche il  presidente dell'UNWRA Filippo Grandi,  che era a Beirut  a fine
giugno, ha  chiesto al governo libanese di  concedere i diritti civili ai
rifugiati,  sostenendo che la creazione di una società palestinese stabile è
nell'interesse del Libano.  Grandi era  in visita in Libano per raccogliere
fondi per ricostruire  il campo di al-Barad,  distrutto  nei combattimenti.
In una conferenza stampa ha dichiarato di aver raccolto soltanto 4 milioni
di dollari sui 50 necessari.  In altre parole, l'ONU è pronto a ricostruire
il campo e a perpetuare lo status di rifugiati  per i Palestinesi,
nonostante tutti i problemi.
I partiti cristiani  sono ben saldi nell'opposizione.  Aoun ha recentemente
dichiarato  in un congresso  di partito che non acconsentirà mai a
provvedimenti che permettano ai Palestinesi  di acquistare proprietà in
Libano.  Vale la pena di notare che nessuna organizzazione umanitaria ha
pensato  di rilasciare commenti sulle condizioni dei rifugiati palestinesi
in Libano.  Gli stati Arabi sanno bene che la situazione  è frutto  della
loro politica, e preferiscono non interferire.

A fine giugno  si è anche tenuta una riunione a Beirut della commissione per
il dialogo libano-palestinese.   Il presidente  dell'Autorità Palestinese
Mahmoud Abbas ci ha mandato una delegazione  guidata da Azzam al-Ahmed, del
comitato centrale di Fatah,  cui si è aggiunto il rappresentante del PLO in
Libano.   La delegazione  si è incontrata con il presidente libanese Michel
Suleiman e con il primo ministro Saad Hariri, ma anche con  i rappresentanti
dei partiti cristiani Amin Gemayel e Aoun.  Il messaggio  per  tutti è stato
lo stesso:  i Palestinesi rimarranno ospiti  in Libano, secondo le leggi del
paese,  e non rinunceranno il diritto al ritorno,  ma  chiedono i diritti
civili per poter vivere decorosamente.  Tutti aspettavano di  sentire la
risposta del Primo  Ministro,  che però deluse le aspettative.   ll suo
discorso  non disse nulla  di nuovo.  Hariri ripetè  che, benché il governo
libanese sia  responsabile dei Palestinesi   residenti in Libano,   la
comunità internazionale deve fare la sua parte e garantire il diritto al
ritorno in Palestina.  Aggiunse  che il parlamento ed il governo libanesi
faranno la loro parte, ma il resto del mondo deve fare altrettanto.

Il primo ministro libanese non  ha la soluzione  miracolosa  ed è in grande
difficoltà.

Concedere ai Palestinesi il diritto di acquistar casa nel paese  e  di
lavorare in qualunque settore  sarebbe un brutto colpo per i giovani
Libanesi in cerca di lavoro e di casa. Sarebbe anche un primo passo  per
l'integrazione definitiva dei Palestinesi in Libano.  I partiti cristiani
sono  contrari,   quelli islamici  non  sono  favorevoli. Sanno bene che
questo aumenterebbe l'antagonismo dei Cristiani e potrebbe portare a una
nuova guerra civile.  Fare a pezzi il  Libano è proprio quello che la Siria
vuole,  perché lascerebbe il paese debole e senza difesa.

Nessuno sa che fare con la bomba lanciata da Jumblatt,  né come
disinnescarla. Per ora i Libanesi  reagiranno secondo il solito: non faranno
nulla, sperando che i campi   profughi non gli esplodano in faccia.

(Zvi Mazel, già Ambasciatore israeliano in Romania, Svezia ed Egitto, è
membro del Jerusalem Centre for Pubblic Affairs and State)


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