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Ugo Volli
Cartoline
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Dov’è finita la marcia piccina piccina picciò? Non pervenuta 22/04/2018

Dov’è finita la marcia piccina piccina picciò? Non pervenuta
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
 

sopra: Gaza, la bandiera con la svastica nazista 
tra quelle palestiniste

Cari amici,

 Chi l’ha vista? Voglio dire: avete notizie della “grande marcia del ritorno”, cioè delle manifestazioni di Hamas per cercare di forzare il confine israeliano con Gaza usando le masse dei suoi sudditi come scudi umani, dopo averli già derubati degli aiuti internazionali fino a ridurli alla fame per arricchire loro e costruire armi per i loro deliri bellici? 
Be’, a giudicare dai giornali, la “marcia”, giunta al suo terzo venerdì su un percorso complessivo di sei, è già “non pervenuta”. Non se ne parla più. E sapete perché? La ragione sta nei numeri. Il primo venerdì erano 30 o 40 mila e riuscirono a spedire una ventina di persone all’assalto così vicino alla rete di protezione che le truppe israeliane furono costretta a fermarle con le armi, provocandone la morte (venne fuori poi che oltre tre quarti erano sicuramente terroristi arruolati dalle bande di Hamas e compagnia). 
Il secondo venerdì i partecipanti dimezzarono a circa ventimila e così i morti. 
Il terzo venerdì, l’altro ieri, hanno marciato in tremila circa e i morti sono stati quattro. Considerate che a Gaza c’è un milione e mezzo di persone, che il dominio dei gruppi terroristici è assoluto e che nelle milizie di Hamas sono arruolati (e pagati con i nostri aiuti umanitari) circa quarantamila persone.
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Come Repubblica disinforma/ Il Manifesto non è da meno

Insomma, un fallimento assoluto. Come se a Piazza Venezia a sentire i comizi del duce si fossero trovati a un certo punto due o trecento camicie nere. Certo, forse per il piacere di ricordare il loro disastro (questo vuol dire “Nabka”, il simpatico nome che danno alla fondazione di Israele),il 15 maggio saranno un po’ di più: nella mentalità palestinista far festa per le sconfitte e inorgoglirsi dei “martiri” cioè dei criminali masochisti che si sono ammazzati pur di eliminare donne e bambini ignari a una fermata dell’autobus o in un supermercato, è un obbligo e un piacere: che volete, ogni cultura si misura da ciò che festeggia e venera. 
Ma certo che la grande marcia è diventata piccina piccina picciò e questo è un altro segno di isolamento politico e incapacità di contare qualcosa.

Perché questo fallimento? Le ragioni sono tante, naturalmente, fra cui non bisogna dimenticare l’azione di Israele, guidato da Netanyahu, un realista in stile Ben Gurion (“In Israele, per poter essere un realista devi credere nei miracoli” diceva il fondatore dello stato ebraico, ma per lui credere voleva dire lavorare indefessamente per ottenerli, sfidando il mondo, se occorreva). 
Ma le cause di parte palestinista che voglio citarvi oggi sono due. 

La prima è generale: i leader palestinisti sono troppo innamorati della loro retorica (o attenti al loro personalissimo interesse di dirigenti che sanno solo fare il terrorismo) per capire che la politica è l’arte del possibile, cioè del compromesso e non dei desideri astratti, sicché “non hanno mai perso occasione di perdere l’occasione” di ottenere qualcosa, come diceva Golda Meir. 
Aggiungo io: per fortuna! Immaginatevi come sarebbe peggiore ora la situazione se avessero accettato le offerte dei Peres e dei Barak, per non parlare dei piani inglesi o dell’Onu. Israele sarebbe un posto molto, ma molto meno sicuro.

La seconda ragione è quella più vicina. Perché degli arabi che fanno fatica a vivere per via dei sistematici furti e del bellicismo velleitario di Hamas dovrebbero andare a farsi ammazzare solo per dare all’organizzazione terrorista un vantaggio propagandistico? Lo vedono bene che se, nei famosi venerdì della grande marcia come in qualunque altro giorno, se ne stanno in casa o anche fanno un bel picnic patriottico non troppo vicino alla barriera di sicurezza, diciamo a tre o quattrocento metri di distanza, non gli succede niente. Israele non li va a cercare, non ha la minima voglia di sprecare delle pallottole contro di loro. Basta che non facciano terrorismo, che non portino minacce concrete ai cittadini di Israele e non subiscono nessun danno. Anzi, se non ci fossero Hamas e Fatah e tutte le organizzazioni che li sfruttano come manodopera per l’industria della guerra, potrebbero benissimo guadagnarsi un’esistenza migliore lavorando oltre il confine, producendo merci più facilmente vendibili sul mercato internazionale dei missili Kassam, costruendo scuole e ospedali invece di tunnel d’attacco. Non è detto che i sudditi di Gaza, come quelli dell’Autorità Palestinese, siano lucidi su questo punto, tanto li hanno intossicati di propaganda. 
Ma resta loro, a quanto pare, abbastanza buon senso da non andare a cercare di invadere a mani nude un confine presidiato da un esercito disciplinato sì e tutt’altro che sanguinario, ma ben deciso a difendere la propria terra, solo per dare copertura agli attentati con cui Hamas vorrebbe dare sostanza alla sua ideologia antisemita e nazista, che ormai emerge chiaramente nella sovrapposizione fra bandiera palestinista e svastica.

Naturalmente questo fallimento, questo distacco della popolazione dalla “grande marcia” dipende anche dalla fermezza dell’esercito di Israele. Se avesse gestito questo attacco con incertezza e timidezza, come volevano gli stati europei e la sinistra, i numeri sarebbero molto maggiori: non solo quelli dei partecipanti, ma anche quelli dei morti. Vedremo come nelle prossime settimane si evolverà questa ennesima messinscena terrorista, chiamata “Grande marcia”. 
Ma già da oggi si può dire che questa macabra pagliacciata non ha mobilitato nessuno: non le masse arabe, neppure quelle palestinesi e in particolare di Gaza. Con un’unica eccezione, quel mondo di sinistra occidentale che non perde occasione di mostrare il proprio antisemitismo.

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Ugo Volli


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