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Ugo Volli
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Cartolina di viaggio 4: Ponti sulla storia 17/04/2018

Cartolina di viaggio 4: Ponti sulla storia
Di Ugo Volli

A destra: Masada

In ogni viaggio collettivo in Israele c’è una parte dedicata ai monumenti storici, che si tratti delle mura ottomane di Gerusalemme, di Masada o Cesarea o di altre architetture erodiane, di quel che resta del Tempio o delle tombe di patriarchi e profeti. E’ chiaro che Israele, come pochi altri posti al mondo, conserva un patrimonio archeologico e architettonico di enorme ricchezza e complessità. La cosa può colpire meno noi italiani, perché anche l’Italia è ricchissima di questi monumenti, con ricchezza e continuità storica anche maggiore, ma rispetto ai cittadini di altri paesi europei, per non parlare degli americani e dei sempre più presenti orientali, si tratta di una ricchezza stupefacente e di una profondità storica vertiginosa. Per capire la loro collocazione, bisogna collegare luoghi culture, stati, popolazioni e tempi con salti di millenni, dalle influenze egizie a quelle cananee, dalle architetture romane a quelle dei mamelucchi, sempre ritrovando la continuità dell’insediamento ebraico.

Una caratteristica inquietante di questa continuità è che la maggior parte di questi luoghi sono coperti dai segni di sconfitte, oppressioni subite, assedi, distruzioni, diaspore. Non si tratta della storia ebraica a partire dalla distruzione del Tempio, nel lunghissimo periodo in cui la presenza degli ebrei nella loro terra era residuale sottoposta a mille vincoli e angherie, e per la maggior parte di essi Gerusalemme era soprattutto un luogo dello spirito, un’aspirazione, una mancanza. Ma anche prima, nella dozzina di secoli e più in cui il popolo ebraico era concentrato in terra di Israele e salvo brevi periodi indipendente o almeno autonomo, le tracce monumentali ricordano soprattutto le sconfitte, dalle due distruzione del tempio alla resistenza eroica proprio perché disperata di Masada.

E qui però si celano delle lezioni importanti. Chi a Roma oggi ricorda ancora luttuosamente l’invasione dei Galli e Brenno che butta sulla bilancia del riscatto della città la spada, gridando “Guai ai Vinti”? Certo, ce l’hanno insegnato a scuola, fra mille aneddoti, gli Orazi e i Curiazi, “questi sono i miei gioielli”, la congiura di Catilina e i tribuni della plebe. Ma chi sente come “nostra” una sconfitta avvenuta nel 390 o forse nel 386 prima della nostra epoca, di cui neppure la data è sicura? Nessuno, naturalmente. Ma per il mondo ebraico il IV secolo è una data relativamente recente, in cui tutti gli avvenimenti biblici si sono già svolti; è più o meno della regina Ester, di cui si ricorda con dettaglio la vicenda, come si ricorda la distruzione di Gerusalemme per mano dei babilonese accaduta due secoli prima, la sua conquista da parte di Davide ancora mezzo millennio prima, e più in là le vicende dei Giudici, di Mosè, dei patriarca. E questi ricordi sono attuali, ha le loro date, dei riti, dei racconti che si ripetono ogni anno.

In questo discorso naturalmente non conta che cosa sia storia e che cosa mito o una via di mezzo, nel caso di Brenno come delle vicende ebraiche, ma solo la diversa struttura del tempo, il diverso uso della memoria, la straordinaria continuità di una tradizione per cui il passato è ancora in mezzo a noi, ha mille cosa da insegnarci e soprattutto ci motiva ad essere quel che siamo, ci dà diritti e obblighi che non si estinguono con un’invasione, una diaspora, un cambiamento di regime politico. Per questa ragione restano le tracce delle sconfitte e delle disfatte, ed esse sono fonte di insegnamento, che siano accadute per colpa morale, com’è l’interpretazione tradizionale delle cadute del Tempio, o con onore ed eroismo, com’è il caso del grande suicidio di massa di Masada o della rivolta del ghetto di Varsavia, stroncata nel sangue dai nazisti; due date facili da accostare, in quest’ottica, anche se si collocano a diciannove secoli di distanza o con attori collettivi del tutto diversi (i nazisti e i romani, un migliaio di zeloti della rivolta del 70 asserragliati in una fortezza imprendibile e le masse degli ebrei polacchi raccolti a forza nel ghetto), anche solo per il fatto che il loro destino si è compiuto nello stesso giorno, il primo della festività di Pesach (la “Pasqua” ebraica), che ricorda l’Esodo, cioè in sostanza un’altra rivolta di altri ebrei contro un altro oppressore, il faraone egiziano, che la tradizione colloca altri sedici secoli prima di Masada.

Sono queste vertigini nel tempo e nello spazio, queste rime storiche che collegano eventi diversissimi ma anche uguali, almeno dal punto di vista dei grandi atteggiamenti metastorici morali ed umani che danno senso alla centralità della memoria e dei suoi artefatti in qualunque visita non solo turistica di Israele. E’ naturalmente rischioso gettare questi ponti oltre ai secoli. Ma insieme è proprio questa percezione a rendere unica l’esistenza di Israele, a dirne la ragione tacita, ma intensamente percepita da chi l’ha voluta e la sostiene. Visitare questi monumenti vuol dire prendere parte a questa contemporaneità estesa, fare da testimoni a un destino.

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Ugo Volli


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