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Ugo Volli
Cartoline
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Perché vogliono continuare la guerra contro Israele 11/12/2017
Perché vogliono continuare la guerra contro Israele
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli

A destra: una manifesta zione contro Israele: "Dal fiume al mare, Palestina libera!", ovvero: "distruggiamo Israele!"

Quando centoventi anni fa il movimento sionista si pose per la prima volta l’obiettivo di uno stato ebraico in Terra di Israele e quando poi settant’anni fa David Ben Gurion, nonostante l’opposizione di molti anche dentro il mondo ebraico colse una fuggevole e rischiosa occasione storica per fondare lo stato di Israele, tutti erano consapevoli delle difficoltà pratiche, politiche, economiche e militari di tale mossa. Ma pochi ne coglievano i profondi ostacoli teologici. Anche perché si pensava allora di andare in una direzione di razionalità collettiva e dunque di possibili scambi e compromessi fra interessi contrapposti. Basta leggere "Vecchia Terra Nuova" il romanzo di Herzl in cui si immagina una conciliazione generale dovuta al successo economico e alla vita laica e tollerante che egli giustamente prevedeva in Israele; o pensare ai numerosi colloqui segreti organizzati dai leader sionisti (fra cui Weizmann e Golda Meir, ma anche Ben Gurion e Dayan) con i capi tribali arabi per cercare una accordo che sulla carta non sembrava difficile. La terra intorno era vastissima e quasi disabitata, i confini vaghissimo da molti secoli, gli arabi non erano particolarmente interessati a quei luoghi, neppure a Gerusalemme lasciata a un abbandono secolare. Gli ebrei portavano capitali e competenza europea, si poteva vivere accanto.

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Poi le cose andarono diversamente, ci furono pogrom, sollevazioni, guerre in tutto il Medio Oriente, promosse da mestatori non solo di fede musulmana ma spesso anche cristiana (per lo più cristiano è il panarabismo e anche l’esplosione dell’antisemitismo arabo). Certo le crisi finivano, era possibile anche se sempre più difficile superarle, ma per l’insediamento ebraico (Yishuv) e poi per lo stato di Israele che ne derivò non cessarono. Ormai sono cent’anni di guerra, un tempo superiore all’ostilità franco tedesca (1870-1945), a quella italo-austriaca (1848-1918), all’odio fra Corea e Giappone (1905-1945). Perché? Intanto perché ci sono dei dispositivi per farla continuare, come l’invenzione di un finora inesistente popolo palestinese, cinquant’anni fa circa, l’attenta conservazione del miserabile statuto di rifugiati per i discendenti dei fuggitivi dalla guerra di indipendenza (mentre gli esuli istriani in Italia e quelli cechi e polacchi in Germania, rifugiati nello stesso momento storico, sono integrati da generazioni). Infine le risoluzioni di Onu, Unesco, Unione Europea ecc. ecc. che ribadiscono i “diritti palestinesi”. Chi legge con attenzione la stampa, o semplicemente fa caso a quel che mettiamo in evidenza noi di IC, vede che questo tipo di politica è continuamente ribadita. Non si vuol lasciare che accada quel che mette fine a tutte le guerre, cioè l’accettazione di uno status quo, la “normalizzazione”. Si vuole a tutti i costi tenere aperta la ferita del conflitto, spingere il revanscismo, che è la base politica della dirigenza palestinista, selezionata da un gruppo di terroristi che disgraziatamente Rabin accetto come “legittimi rappresentanti del popolo palestinese.

Ma perché? Perché si fa questo solo con Israele e non con tutti gli altri casi di conflitti, modifiche territoriali, “occupazioni” di cui il mondo è pieno? La ragione profonda, spesso neppure cosciente per chi ne è mosso, è l’antisemitismo. Quel particolare antisemitismo che sostiene che NON DOVREBBE ESISTERE un popolo ebraico. Non dovrebbe esistere perché avrebbe dovuto accettare duemila anni fa Gesù come messia, perché avrebbe dovuto accettare mille e quattrocento anni fa Maometto come suggello dei profeti, perché avrebbe dovuto accettare cent’anni fa la rivoluzione proletaria come fine della “questione ebraica”, perché al massimo si potrebbe parlare di una religione (una religione “fossilizzata”, “superata”, “antiquata”, di “fratelli maggiori” un po’ tonti come ci hanno spiegato tutti, da Paolo di Tarso a Kant, Voltaire, Wagner, i fascisti e i comunisti). E che pretesa è per una religione avere un suo Stato? Le religioni sono universali o non sono, come sono universali cristianesimo, islam e marxismo. Perché dunque uno stato, una capitale? Perché difendersi e ostinarsi a vivere quando si può nobilmente fare le vittime, ottenendo meravigliose giornate della memoria, o semplicemente lasciarsi assimilare, dimenticare la propria identità, che è un modo non sanguinoso di suicidarsi collettivamente?

Le reazioni assurde ed esagerate alla banale dichiarazione di Trump, che non ha neanche spostato l’ambasciata (poteva farlo subito, bastava mandare il console di Gerusalemme a Tel Aviv e l’ambasciatore nelle due belle sedi consolari di Gerusalemme, poi l’aspetto burocratico e architettonico si sarebbe messo a posto facilmente), si spiega così. La mossa è servita a distinguere chi vuole continuare a delegittimare Israele e chi vuol davvero chiudere la questione. Fra i primi, quelli che non vogliono che Israele abbia uno stato perché essere “ebreo errante” è la punizione teologica per la sua “perfidia”, il Vaticano e i comunisti, l’Unione Europea e Erdogan, l’Isis e l’Iran, gli ebrei nemici di sé (o piuttosto del loro popolo, diciamo chiaramente: nemici di Israele) di buona parte del movimento reform, di J Street, dell’estrema sinistra ebraica in Israele e in Europa. Quelli che pensano che il problema sia “difendere i palestinesi”, cioè lasciar spazio al terrorismo, pur di impedire che gli ebrei abbiano il loro stato. Dall’altro, la grande maggioranza del popolo americano con Trump, coloro che in Europa capiscono che arrendersi all’Islam non è un modo di salvarsi, come Cechia e Ungheria, da noi Berlusconi.

Bisogna ringraziarli, naturalmente. Ma anche dire a tutti, che Israele ha capito dall’esperienza della Shoah che deve badare a se stesso e difendersi. E che intende farlo, piaccia o meno a Bergoglio e Macron e a quelli così sciocchi da essere ancora comunisti o già anticipatamente servi (dhimmi) del potere che sbagliando pensano stia arrivando, cioè l’Islam.

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