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Ugo Volli
Cartoline
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Il segreto della diaspora 10/09/2017

Il segreto della diaspora
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli

Cari amici,

si svolge oggi, com’è abituale in tutta Europa in una delle prime domeniche di settembre, la Giornata della cultura ebraica. Vi saranno aperture dei numerosi musei delle comunità ebraiche, visite alle sinagoghe, mostre e conferenze. I programmi delle singole località si possono trovare qui
http://ucei.it/giornatadellacultura/programmi/
Tutti gli anni la giornata ha un tema e questa volta, a differenza dalle occasioni del recente passato, l’argomento è pertinente e significativo: “Diaspora. Identità e dialogo”

Non c’è dubbio che la dimensione della diaspora, cioè della disseminazione, come si traduce letteralmente questa parola greca, sia una caratteristica molto rilevante della cultura e dell’autocoscienza ebraica. Non perché l’ebreo sia per natura “senza patria” o “senza terra”, come hanno spesso sostenuto gli antisemiti dalla leggenda antigiudaica cristiana medievale dell’”ebreo errante” fino alle deliranti teorizzazioni di Heidegger. Ma perché la società ebraica è stata sempre caratterizzata da un equilibrio dinamico fra il suo centro storico e geografico, la Terra di Israele e le comunità sparse in buona parte del mondo (già nell’antichità fra l’India e la Spagna, la Libia e la Mesopotamia, l’Armenia e l’Italia).

Nel testo biblico il primo ebreo è Abramo, nato nel sud dell’attuale Irak e cresciuto in una città che oggi si trova in Turchia; il popolo ebraico è formato in Egitto e riceve le sue leggi sotto il monte Sinai. I documenti archeologici ci parlano intorno al XIII secolo prima della nostra epoca di una popolazione seminomade di Hapiru che combattono le città cananee e di un popolo di Israel sconfitto dai faraoni.
Quel che conta è che non solo nei fatti, ma anche nella coscienza ebraica vi è la memoria di non essere indigeni – il che è vero per tutte le popolazioni, come ci insegna la paleontologia, ed è richiamato anche in certi miti, come quello di Enea progenitore dei romani - ma è particolarmente sottolineato nella cultura ebraica.
Il fatto di sapersi anticamente immigrati nella propria terra non rende questa meno preziosa ed importante, perché essa è pensata come il dono divino che è la premessa della vita ebraica e dunque della costituzione del popolo.

Sappiamo che una prima grande diaspora in Egitto, in Mesopotamia e in Persia seguì la caduta dei regni di Israele (722 aEV) e di Giuda (586 aEV); sappiamo anche che questa presenza di ebrei fuori dalla loro terra non cessò neppure con la ricostruzione del Tempio e il ritorno degli ebrei a Getrusalemme, fra il 536 e il 515; anzi, sotto il dominio ellenistico e poi romano si espanse in tutto il Mediterraneo, l’Europa continentale e l’Asia fino all’India. La distruzione di Gerusalemme nel 70 eV incrementò il processo e anche di più lo fece l’invasione musulmana (637) e la violenta conquista crociata (1135).

Naturalmente gli ebrei non furono l’unico popolo a essere conquistati, a perdere l’autonomia della propria patria e a essere costretti a emigrare in quella lunga serie di secoli. Furono però gli unici (o quasi, anche gli armeni ebbero un percorso abbastanza simile) a non sparire, a non assimilarsi, a non perdere la loro cultura. Grandi centri culturali ebraici sorsero nella Diaspora, da Babilonia, dove fu scritto il più importante Talmud, alla Francia e alla Spagna, dove si affermò insieme il misticismo e la filosofia ebraica, dall’Egitto dove visse Maimonide all’Italia delle grandi edizioni a stampa, fino all’Europa orientale del Chassidismo.
Nel frattempo però non cessò mai del tutto la vita e la cultura in Terra di Israele: la Mishnà e una formulazione del Talmud furono compilati fino al VI secolo in Galilea, la trascrizione alfabetica (massoretica) della Torah fu realizzata a Tiberiade fra il VII e il X secolo, lo sconvolgente misticismo di Luria e Cordovero e la codificazione di Josef Karo furono realizzati nel XVI secolo a Safed, sempre in Galilea.

Insomma il dialogo intraebraico non cessò mai, non solo fra le diverse comunità della diaspora (c’erano corrispondenze e anche ricchi scambi commerciali fra la Renania e il Magreb, la Polonia e la Grecia, l’India e perfino la Cina e l’Egitto, lo Yemen e la Spagna), ma anche fra queste e la terra d’origine.
Gli ebrei si dispersero ma non si persero come capitò a tutti gli altri proprio per la loro fedeltà o se si vuole per il loro ostinatissimo attaccamento a usi, costumi, credenze religiose, norme di vita e anche e soprattutto per la loro terra.
Ci fu naturalmente l’interazione coi popoli presso cui la diaspora viveva, ci fu dialogo, accettazione delle regole, senso di responsabilità nei confronti degli ospiti e spesso anche amicizia e incontro vero.

Ci furono anche le persecuzioni, i pogrom , i roghi di libri e di persone, le prepotenze minute e quotidiane o terribili e mortali codificate nel cristianesimo e nell’islam, i ghetti e gli stermini, non solo la Shoah – ma di questo non importa oggi parlare. Tutte le pressioni per l’assimilazione furono però inutili. O meglio realizzarono certamente un’emorragia demografica continua, perché bastava accettare di diventare cristiani o musulmani (o comunisti, o europei illuminati) e quasi sempre la condizione di vita degli apostati migliorava di colpo e notevolmente e magari semplicemente si riusciva a sopravvivere invece di morire. Ma gli ebrei che riuscirono a non tradire la loro identità furono sempre la grande maggioranza e ad essi si deve la capacità della cultura ebraica di sopravvivere abbastanza per essere oggi celebrata.

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Con la costituzione dello Stato di Israele tutto questo è molto cambiato, gli ebrei hanno preso in mano il loro destino e difendono collettivamente e in maniera attiva il loro diritto alla vita e all’identità, anche se gli attacchi non sono affatto cessati.
Il rientro nella terra degli avi ha avuto ritmi impressionanti, riportando nella Terra di Israele più o meno la metà degli ebrei del mondo. La diaspora però non è affatto sparita, perché molti hanno pensato di poter continuare la vita nei paesi di cui fanno parte, magari proprio perché rassicurati dall’esistenza di Israele.
E la cultura ebraica si fa a Gerusalemme e Tel Aviv, ma anche a New York e Parigi e Londra e magari un po’ anche in Italia. Quel che conta, oggi come nei secoli passati, è non smarrire quella fedeltà che rende la diaspora produttiva, quell’attaccamento a Israele che fa sì che essa continui a essere diaspora e non assimilazione e autodistruzione.

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