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Ugo Volli
Cartoline
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Storie di carceri palestinesi 09/01/2011

Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli

"Storie di carceri palestinesi"



Per essere molto filopalestinese, Eurabia è anche piuttosto ignorante, mi spiace riconoscerlo. Mentre i giornali non fanno altro che parlare delle epiche imprese oratorie dell'onorevole Bocchino o della lacrime del ministro Prestigiacomo (per non citare argomenti più spinosi poco adatte a cartoline che potrebbero leggere anche i bambini), pochi hanno preso nota della titanica lotta che oppone a Ramallah il presidente Abbas al giovane rampante Dahaln che avrebbe addirittura tentato un colpo di stato (ma lui nega: http://www.jpost.com/MiddleEast/Article.aspx?id=202255&R=R3) ed è stato per questo escluso dalle sue cariche (http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-12114595). Non commento questi misteri gloriosi della politica palestinese, se non per dire che il ricambio generazionale senza elezioni, è un tema piuttosto complicato (in realtà lo è anche con le elezioni finte come quelle egiziane o iraniane, ma questo è un altro discorso).

In realtà non conosciamo neanche lo stato dei rapporti fra le due anime (o se preferite la due mafie) dominanti fra i palestinesi, Fatah e Hamas: ogni tanto si incontrano, arrivano alla soglia di un accordo che tutti dicono sarebbe bellissimo, forse perché legittimerebbe il terrorismo sospeso (solo sospeso, non ripudiato) da Fatah. Poi scoprono che non riescono a mettersi d'accordo, anche perché Hamas dice chiaramente che cerca il genocidio (http://www.jcpa.org/JCPA/Templates/ShowPage.asp?DRIT=1&DBID=1&LNGID=1&TMID=111&FID=379&PID=1861&IID=5576&TTL=Talking_to_Hamas?_%E2%80%93_Increasing_Expressions_of_Genocidal_Intent_by_Hamas_Leaders_Against_the_Jews) mentre l'Aitorità Palestinese dominata da Fatah non lo può dire se vuole l'appoggio americano; e ufficialmente si combattono. Ma le cose sono un pochino più complicate, almeno se si guarda ai fatti materiali, a quelli brutali che si esprimono nel potere sui corpi: il carcere e le morti.

Per esempio una statistica pubblicata da Fatah dice che Hamas ha arrestato nel 2010 la bellezza di 3.120 suoi militanti (http://www.jpost.com/MiddleEast/Article.aspx?id=201801). Paragonato al milione e mezzo di abitanti della striscia, fa lo 0,2%; come si in Italia ci fosse un regime che mette in galera 120 mila avversari politici in un anno qualunque, non particolarmente sanguinoso o conflittuale: non è male per un posto retto da un potere "regolarmente eletto", come dicono i sostenitori di Hamas. Non si parla in questa statistica di torture, anche perché le ultime notizie in merito riguardano non le carceri di Hamas, che pure ne praticano abbondantemente, ma quelle dell'AP (per chi ama le emozioni forti: http://www.focusonisrael.org/2010/12/29/torture-prigionieri-palestinesi-abu-mazen-intrafada/).

Ancora più interessante è quel che è successo l'altro giorno a Hebron. Come forse avete letto (ma anche su questo c'è stata poca informazione), l'Autorità Palestinese ha rilasciato sei militanti di Hamas che avevano fatto diversi attentati, fra l'altro sparato addosso a una famiglia che passava in macchina su una strada in Cisgiordania, ammazzando se non sbaglio un rabbino e la moglie incinta. Il loro arresto ad opera delle forze di sicurezza dell'AP era stato visto come una prova dell'evoluzione palestinese, della sua volontà di bloccare il terrorismo. Però poi per ordine dello stesso presidente Abbas i sei, in sciopero della fame, erano stati liberati "per ragioni di unità nazionale (http://www.jpost.com/MiddleEast/Article.aspx?id=202689) e aveva dovuto pensarci l'esercito israeliano a dar loro la caccia e riarrestarli per impedire che gli venisse in mente di riprendere i loro giochini con le armi. Fra l'altro nell'operazione d'arresto era finito in mezzo un parente di uno degli arrestati, ucciso per errore durante l'operazione.

Cosa dice ora l'autorità palestinese? Innanzitutto, ovviamente, che Israele, arrestando degli assassini, cerca di "sabotare l'Autorità Palestinese e di mettere in crisi gli sforzi dei riconciliazione fra Fatah e Hamas": la colpa è sempre di Israele. Ma poi anche che i sei erano trattenuti nelle carceri dell'AP non per scontare un omicidio plurimo premeditato a freddo, ma "per difenderli dagli israeliani" e che quando erano stati rilasciati su pressione di Hamas, erano stati ammoniti a fare attenzione agli israeliani ed era stato fatto firmare loro un documento in cui si assumevano le responsabilità delle conseguenze, come capita da noi quando qualcuno vuole uscire da un ricovero ospedialiero contro il parere dei medici. Non è fantastico? Il problema non è reprimere i terrorismo, ma impedire agli israeliani di catturare i terroristi. Le prigioni non servono a custodire pericolosi criminali, ma a difenderli dalla punizione. Questo sì che è uno stato di diritto. E questa è la – diciamo – complessità dei rapporti fra Fatah e Hamas: più concorrenti rissosi che avversari discriminati da diverse scelte etico-politiche fondamentali.

Ugo Volli

La Cartolina di Ugo Volli di oggi si arricchisce con una analisi che coinvolge il rapporto fra le tre religioni, uscito oggi su MOKED, dal quale lo riprendiamo:

"Non è vero che tutte le religioni sono ispirate alla pace"
(Moked, 09/01/2011, di Ugo Volli)


Oltre alla giusta e naturale solidarietà, le aggressioni continue cui sono sottoposti i cristiani nel mondo islamico ci richiedono una riflessione più approfondita dei luoghi comuni "ecumenici" che la stampa, buona parte della politica e lo stesso mondo ci propongono di continuo.
Non è vero che di per sé le religioni, tutte le religioni, sono ispirate alla pace, non è vero che esse, occupandosi del divino sono meno esposte al conflitto di altre sfere della vita umana, non è vero che gli scontri fra popolazioni di religioni diverse si debbano spiegare in termini non religiosi, o con un fraintendimento della religione. Quest'idea deriva da una definizione della sfera religiosa come pura fede, che è caratteristica del cristianesimo (o piuttosto di un suo filone importante). Noi ebrei sappiamo benissimo che la religione si può invece definire in termini di pratica, di azione, di precetti, o come dicono i cristiani in contrapposizione alla fede di "opere". Sappiamo dunque che le religioni si portano dietro dei sistemi di valori, delle antropologie, delle "forme di vita". Non solo dei sistemi alimentari, familiari, giuridici, non solo certe concezioni sul ruolo degli altri popoli, delle donne, dei poveri; ma anche certe concezioni del rapporto fra l'ambito del religioso e quello della vita sociale, cioè in sostanza dello spazio politico. La religione fornisce una fondazione per la società civile e i suoi usi (potremmo chiamarla "teologia sociale"), e una per la sfera pubblica e il sistema di potere (si usa parlare a questo proposito di "teologia politica"), le quali ammettono certe forme di vita, certe organizzazioni concrete dell'esistenza, che senza dubbio possono evolversi e cambiare, ma entro certi limiti.
La persecuzione o almeno il dominio cui l'Islam, in nome della religione anche se con un certo grado di dissimulazione ("taqyia", una virtù teorizzata nelle fonti coraniche) sottopone le altre religioni ha a che fare con questa sfera. Si tratta di un discorso troppo complesso sul piano storico e teologico per essere svolto qui se non sommariamente, ma val la pena di accennarvi per punti.
Innanzitutto l'islam non conosce nella sua versione sunnita e con la teorizzazione di Khomeini ha significativamente ridimensionato nella sua versione sciita quella divisione fra sfera religiosa e sfera politica che invece è presente nell'ebraismo nella duplicità fra Moshé e Aharon e poi con l'istituzione della monarchia, fra regno e sacerdozio, che è stata ripresa poi dal Cristianesimo. In secondo luogo, non vi è presente quel meccanismo di adattamento al tempo delle regole antropologiche che nell'ebraismo è assicurata dai processi interpretativi della Torah orale e nel Cristianesimo dalle decisioni di papi e concili: l'Islam ha chiuso dieci secoli fa la "porta dell'interpretazione". Dunque le forme di vita connesse all'Islam sono straordinariamente rigide e conservatrici: il "fondamentalismo" è implicito nella sua stessa autocomprensione e questo spiega il suo dominio incontrastato, cioè l'assenza di una teologia "moderata". Non vi è spazio di legittimità autonoma per la sfera politica, non vi sono strumenti per ammorbidire una "teologia sociale" che già quattordici secoli fa, al momento della sua fondazione, era particolarmente repressiva e intollerante, per esempio nei confronti delle donne.
In terzo luogo, l'esperienza fondante e l'autocomprensione centrale dell'Ebraismo è la liberazione di un popolo dalla schiavitù; quella del Cristianesimo è la morte subita da un innocente; quella dell'Islam è la guerra vittoriosa di un clan guidato dal profeta contro i suoi nemici, con la strage loro e di chi li aveva aiutato (non a caso tribù ebraiche). L'ebraismo si propone come forma di vita dell'esilio che aspira a una terra promessa, il cristianesimo come religione di martiri che solo dopo secoli diventano religione di stato; l'islam è una serie ininterrotta di guerre di conquista condotte in nome della religione e di sanguinose precocissime divisioni interne, in cui i poteri si disputano la loro legittimità religiosa.
E' sulla base di queste tendenze che oggi nessun ebreo descrive la politica israeliana come azione religiosa, o nessun cristiano l'imperialismo britannico e poi l'egemonia americana come missioni religiose (anche se vi sono metafore e motivazioni teologico-politico in entrambi i casi). La politica e in particolare la guerra sono condotte per noi dallo stato, non dalla sfera religiosa; e per motivazioni economiche, di sicurezza, di libertà che l'Occidente percepisce come legittime solo se sono laiche. Ma l'idea di una laicità autonoma della politica è di per sé occidentale, deriva cioè da una forma di vita che si è sviluppata ed è stata legittimata da civiltà (quella greca, quella ebraica, quella cristiana che ne deriva) in cui la sfera del religioso lo consentiva. Per questa ragione proprio il fatto di concepire come politico e non religioso il conflitto in Medio Oriente è visto dal mondo islamico come religioso.
La tolleranza degli ebrei e dei cristiani (nei secoli sempre incerta, oppressiva e interrotta da persecuzioni) è stata interrotta nel momento in cui il mondo islamico si è trovato di fronte una forma di vita non religiosa (nella sua propria autocomprensione), ma evidentemente legata per i musulmani alle religioni "precedenti" che non si rassegnano a essere abrogate e accompagnate nella loro dissoluzione dall'Islam. Il trauma da questo punto di vista non è stata la guerra del Golfo e l'"occupazione" e nemmeno la fondazione dello Stato di Israele; è stata la dissoluzione del califfato ottomano, cent'anni fa con la conseguenza immediata del genocidio armeno e della pulizia etnica dei turchi. La lotta dell'Islam contro l'Occidente ha assunto in questo secolo molte forme, anche apparentemente laico-socialiste-nazionaliste (anche per l'esempio dei "paesi socialisti"); ma in realtà ha costantemente individuato il nemico in termini religiosi in ebrei, cristiani, cattivi musulmani ad essi sottomessi. Se non si capiscono queste radici profonde del conflitto in atto si rischia di illudersi che si possa risolvere con qualche gesto di buona volontà, eliminando qualche problema più acuto e simbolico (per esempio lo stato di Israele...), alleando le religioni "per la pace". Il problema è che non è così. Al riproporsi della guerra santa e delle spinte espansionistiche dell'Islam si può rispondere solo con una controspinta adeguata, cioè affermando i nostri valori, la nostra forma di vita e difendendosi – come fa tutti i giorni ma fra incomprensioni crescenti Israele.
Ugo Volli


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