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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Luciano Tas
Le storie raccontate
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1982: l'anno della guerra del Libano e dell'eplosione dell'odio antisraeliano

Tra gli anni negativi del dopoguerra il 1982 occupa uno dei posti di rilievo. E pensare che aprile si era presentato luminoso, almeno degli occhi di chi non considerava il mondo anglosassone come “il peggior di tutti i mali”, reo di non venerare sufficientemente il comunismo ed il suo altare, l’Unione Sovietica.

Accade dunque che un bel giorno soldati argentini sbarcano su alcune isolette non lontane dalle loro coste e lontanissime invece da quelle inglesi. Le isole, abitate da poche migliaia di pastori britannici, desolate da un clima gelido e assolutamente al nadir di ogni desiderio turistico, hanno però un difetto, battono bandiera britannica.

Il governo dei colonnelli argentini vuole però “distrarre” l’opinione pubblica del paese, afflitto da una dittatura spietata e da una economia in sfacelo. E come d’abitudine totalitaria, non c’è niente di meglio di una aggressione, con relativa conquista territoriale, anche se poco eroica e ancora meno rimunerativa.

I colonnelli non pensano nemmeno lontanamente che alla Gran Bretagna possa importare qualcosa delle povere anime di quelle isole, Falkland per gli inglesi, Malvinas per gli invasori.

Non tengono conto di un Premier britannico fuso nello stesso metallo di Winston Churchill, la signora Margaret Thatcher, la quale non ci pensa su molto e manda una ventina di navi da guerra a farsi sette o ottomila miglia marine verso gli invasori argentini. L’ONU intanto intima all’Argentina di tornarsene a casa, ma a Buenos Ayres l’intimazione non fa caldo né freddo.

Molto caldo deve invece produrre il naviglio da guerra inglese che prima affonda un incrociatore argentino, poi sbarca nelle Falkland, fa prigionieri tutti i soldati argentini e alza di nuovo l’Union Jack sulle isole.

Il costo dell’operazione è astronomico, ma ne vale la pena, anche nei confronti del resto d’Europa dove si va affermando l’ideologia dell’appeasement. E ne vale la pena anche perché la sconfitta manda in briciole la dittatura argentina e costituisce un avvertimento a molti altri.

God save the Queen, che ama la pace come tutti, ma non ama il pacifismo a spese proprie.

L’anno era cominciato all’insegna degli attentati terroristici palestinesi in Europa. Il 15 gennaio bombe contro il ristorante ebraico di Berlino “Mifgash”. 25 feriti, di cui otto gravissimi. Muore una bambina di 18 mesi, Jennifer. Rivendica l’attentato una “Lega del popolo della libera Palestina”. Sigla nuova, attentatori soliti.

 Si fanno intanto i conti degli ebrei espulsi o costretti a fuggire dai paesi arabi dopo il 1948. Vivevano nel modo arabo prima di quella data 865mila ebrei, nel 1982 ne sono rimasti 66.500, di cui 53.000 tra  Marocco e Tunisia.

I
l 3 giugno rimane gravemente ferito in un attentato palestinese l’ambasciatore d’Israele a Londra, Shlomo Argov.

Il giorno dopo Israele bombarda basi terroristiche dell’OLP nel sud del Libano, mentre gli uomini di Arafat continuano a cannoneggiare le città della Galilea. A Naharia verranno colpiti duecento edifici.

Il 6 giugno Israele lancia la sua operazione militare contro le basi da cui partono i tiri contro la Galilea.

Israele, stanco di costituire il quotidiano bersaglio dei terroristi palestinesi, incistati in Libano come un tumore maligno e che costituiscono uno Stato nello Stato, cerca di farla finita. come gli è accaduto altre volte e come gli accadrà in futuro. Il suo esercito va oltre le basi dell’OLP, entra più profondamente in Libano, occupa Tiro, bombarda Beirut.

I paesi europei si affrettano a condannare l’azione israeliana, forse per compensare il loro assoluto silenzio sul tiro a segno dell’OLP sulla Galilea e sulle stragi compiute nella guerra tra Iraq e Iran.

Una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro Israele non passa per il provvidenziale veto degli Stati Uniti.

Il 16 giugno su “Repubblica” appare un appello di ebrei intimoriti dalla canea antisemita “Perché Israele si ritiri”. E’, si commenta, “il censimento delle coscienze”. Per Mario Capanna (scriverà “Formidabili quegli anni”, quelli del terrorismo in Italia), Israele <ha deciso di attuare una vera e propria “soluzione finale”. Quello che è in corso è un autentico genocidio dei palestinesi>. Forse di genocidi ne preferisce un altro.

Per Eugenio Scalfari <la sanguinosa spedizione punitiva di Begin e Sharon, sinistramente denominata “pace in Galilea” non ha alcuna giustificazione>. Magari bastava un telegramma di protesta all’ONU.

E per Francesco Alberoni su Panorama <il dio della guerra non è più tedesco ma israeliano>. 

Il dio della pace invece si deve essere distratto il 9 agosto, quando quattro terroristi di estrema sinistra – “Action directe” – irrompono alle 13 nel ristorante ebraico di Jo Goldenberg di rue Rosiers a Parigi e sparano con i mitra sulla folla di avventori: sei morti, 21 feriti.

 Da noi, come intermezzo poco pacifico, c’è il giallo del banchiere Roberto Calvi del Banco Ambrosiano, trovato impiccato a Londra sotto il ponte dei Back Friars, i Frati Neri. Ma non è un suicidio come qualcuno vuol far credere. Il suo nome era legato allo scandalo dello IOR, la banca vaticana, e al suo faccendiere capo, il sacerdote Marcinkus, che il Vaticano spedisce in tutta fretta a  dire Messa in Sudamerica.

Il silenzio si addice ai banchieri vaticani.

L’estate del 1982 è davvero calda. Le sorti della guerra Iraq-Iran si stanno capovolgendo. Il blitz di Saddam Hussein fallisce e l’Iran si trova, malgrado il suo caos interno e il sacrificio di centinaia di migliaia di suoi giovani e giovanissimi, a respingere gli assalti iracheni, oltrepassare a sua volta il confine e minacciare da vicino Bassora. I morti delle due parti (alla fine saranno un milione) sembrano non commuovere troppo i candidi cuori europei. Nessuna manifestazione di protesta (forse non sapendo bene contro chi farla), nessuna lacrima per i bambini e i ragazzi coinvolti, come nessuna solidarietà, nemmeno tra le femministe più impegnate, per le donne iraniane respinte in pieno Medio Evo, intabarrate in nero dalla testa ai piedi, dal fanatismo islamico.

La fine dell’estate vede Beirut sotto protezione della forza internazionale di pace, francesi, americani, italiani, che risparmiano la resa finale dei conti tra Israele e OLP, garantendo ad Arafat l’evacuazione pacifica dei miliziani palestinesi che andranno a installarsi in Tunisia dove continueranno indisturbati a ordire attentati.

Ma l’esodo dal Libano dei guerrieri dell’OLP e di Yasser Arafat  garantisce qualche sollievo a Israele.

Il 14 settembre in Libano viene assassinato il neo-eletto Presidente, il cristiano Beshir Gemayel.

A seguito di questo attentato il Premier israeliano Menahem Begin e il ministro della Difesa Ariel Sharon, senza consultarsi con gli altri ministri, decidono di fare occupare dall’esercito i punti strategici di Beirut Ovest, al fine di impedire sommosse, disordini o l’intervento della Siria.

Peggio però accade in quello che il quotidiano israeliano di lingua inglese “Jerusalem Post” chiamerà “Il Rosh ha Shanà della vergogna”. Perché? Due giorni dopo l’assassinio di Gemayel, nella notte tra il 16 e il 17 (e poi nelle notti seguenti), proprio mentre il mondo ebraico festeggia il suo Capodanno, Rosh ha Shanà, le milizie libanesi cristiane, per vendicare la morte del loro Presidente, penetrano a Sabra e Chatila, quartieri periferici di Beirut, perpetrandovi una strage.

Centinaia le vittime, per la maggior parte civili inermi, donne e bambini,

La strage si svolge a poche centinaia di metri da dove sono accampati i soldati israeliani, che pur rendendosi conto di quanto succede a poca distanza, non intervengono, né ricevono ordini dai loro comandi.

Ecco quindi il “giorno della vergogna” d’Israele, da dove si levano, immediate, grandi proteste per quei tragici eventi, le cui indirette responsabilità israeliane sono gravi, almeno per “omissione di soccorso”.

La sera del 25 settembre si svolge a Tel Aviv una manifestazione di protesta a cui partecipano oltre mezzo milione di persone, quasi il 15% della popolazione dell’intero Paese, come se da noi ne scendessero in piazza nove milioni.

La tragica vicenda viene portata davanti all’Alta Corte di Giustizia d’Israele, che rapidamente concluderà il suo lavoro con una dura condanna all’indirizzo del ministro della Difesa e del Primo ministro.

Sharon darà subito le dimissioni e Begin lo seguirà poco dopo.

All’estero le conseguenze sono diverse. A Israele viene attribuita la responsabilità tutta intera della strage e si parla subito di “strage israeliana”.

Ne segue, in Europa e altrove, una nuova ondata di antisemitismo, non più mascherato da antisionismo.

In Italia il partito”sovietico” si scatena in questo senso, tanto da far scrivere su Repubblica alla sua responsabile culturale Rosellina Balbi un articolo diventato famoso: “Davide discolpati”, per segnalare l’abietta richiesta rivolta a tutti gli ebrei di dissociarsi da Israele, di unirsi alla condanna.

Una azienda statale a Bracciano, nei pressi di Roma, nel corso di un’assemblea indetta dai sindacati per protestare contro gli avvenimenti di Sabra e Chatila, vede uno dei partecipanti proporre il boicottaggio dei negozi degli ebrei (italiani). Non sarà l’ultima volta.

A Venezia un Festival del cinema comico ebraico americano viene annullato.

A Torino è picchiato un ragazzo che porta al colla una medaglietta con la stella di David. I passanti non intervengono e uno di loro dice “Per gli ebrei abbiamo già fatto una guerra”. Fortunatamente perduta. 

 Ancora a Roma le maestranze della tipografia dove si stampa il giornale ebraico “Shalom” rifiutano di comporlo se il giornale non ospiterà la condanna dei lavoratori. Il direttore di Shalom s’impunta e l’avrà vinta.

Di media si riparla di “alta finanza ebraica”: Se ne riparlerà ancora ventisette anni dopo.

Il Presidente Pertini dice a Genova che <Israele non dovrebbe sgarrare perché lì è nato Gesù>.

La prima “risposta” non proprio coraggiosa alla “omissione di soccorso” israeliana avviene a Roma il 25 giugno quando, durante una grande sfilata organizzata dai Sindacati in difesa dei lavoratori, dalla fiumana che marcia a Lungotevere si stacca un gruppo di partecipanti per recare davantii al portone (fortunatamente chiuso) del Tempio Maggiore una bara vuota. Un lugubre messaggio che difficilmente potrebbe essere giudicato solo anti-israeliano.

L’atmosfera che si è creata in Italia, come in molte parti d’Europa,  è favorevole al compiersi di un altro attentato palestinese non proprio definibile “politico” e particolarmente odioso perché perpetrato nel sabato di  Sheminì Azereth, giorno della benedizione dei bambini.

Il 9 ottobre, all’uscita dal Tempio Maggiore alla fine della cerimonia, alcuni uomini, sbucati dalla strada che affaccia sul Tempio, estraggono dai loro tascapane qualcosa che lanciano sulla folla appena uscita dal luogo di culto: Sono granate che esplodono in quattro successive esplosioni, poi colpi di mitra proteggono la fuga degli assalitori.

Lasciano sull’asfalto decine di feriti, occhiali, borsette insanguinate, libri di preghiera calpestati e perforati e grida disperate di dolore.  

E’ poi un correre di polizia e di ambulanze che raccolgono i feriti, alcuni dei quali molto gravi, per smistarli in vari ospedali della città.

Invece non si muove più dall’asfalto un bambino di due anni, Stefano Taché, mentre il fratellino Gadiel, quattro anni, è gravissimo (ma si salverà).

Due giorni dopo sarà l’architetto Bruno Zevi a dar voce al dolore e alle accuse che partono esasperate dagli ebrei di Roma in tutte le direzioni.

In vista dei funerali del piccolo Stefano la Comunità farà sapere che la presenza degli uomini politici, inclusa quella del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, non sarà gradita.

Parteciperà alle esequie il solo presidente del Consiglio Spadolini.

 Il Segretario della CGIL Luciano Lama condannerà l’attentato, ma con parole ambigue, con molti “se” e “ma”, quasi a rimettere la responsabilità allo Stato d’Israele.


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