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Luciano Tas
Le storie raccontate
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Il mio 1938 - sesta parte 30/06/2008

Torniamo al ’38. Come è passato l’ultimo trimestre?

 

 

Non ricordo grandi avvenimenti. Sembrava che tutto procedesse quasi normalmente, come se un treno, dopo essere deragliato, continuasse la sua corsa sul terreno. Infido, pericoloso, pieno di buche, ma comunque terra ferma e in qualche modo rassicurante. forse perché la spinta umana ad adattarsi è fortissima. Quello che ieri ci sarebbe sembrato insostenibile, oggi riusciamo a inghiottirlo, ad accettarlo. E ci si adegua, almeno fino a quando sentiamo che la vita è in pericolo, non imminente ma attuale, alla porta di casa.

 

 

Naturalmente a quel tempo non facevo considerazioni di questo tipo che spiegano come mai il ritmo della mia vita, casa-scuola-strada-casa e così via non era poi cambiato radicalmente. Dimenticata in fretta l’”altra” scuola, i vecchi compagni, ora c’era solo questa scuola, che a partire dal 1939 si sarebbe trasferita negli ampi vani ricavati sopra il nuovo edificio della Sinagoga situata in una breve traversa di via Assarotti.

 

 

Tutto, o quasi, sembrava dunque procedere normalmente a scuola, cioè in quell’appartamento di Piazza della Vittoria dove si era installata la mia III ginnasio (i padroni di casa erano cugini di Umberto Terracini, un “pericoloso” comunista in galera, la cui parentela li agitava parecchio).

 

 

Su quei giorni, su quelle settimane, su quella grande tavola da pranzo che fungeva da banco di scuola collettivo, c’è come una nebbia, dalla quale usciva nitida soltanto la figura di una bambina, un po’ più grande di me e che io trovavo bellissima (forse lo era). Con lei e con qualcuno degli altri dieci o dodici compagni e compagne di classe andavo talvolta a pattinare in una pista al Lido d’Albaro, dove in realtà non avremmo potuto entrare, per via del divieto dell’ingresso agli ebrei, ma noi ci andavamo lo stesso, del tutto incuranti. e solo attenti a restare sempre uniti, sempre tra di noi, a evitare eventuali incidenti e scontri, pronti solo a non farci mettere sotto. Ma che eravamo ebrei mica lo avevamo scritto in faccia, e documenti non li avevamo davvero.

 

 

Poi c’era lo studio. Andavo benissimo in Storia, bene in Italiano, così così in Latino, e mi divertivo molto a ginnastica (prima che si chiamasse Educazione Fisica e molto prima che diventasse Attività Motoria o qualcosa del genere, sulla corrente moda di cambiare i nomi delle cose per farle diventare più appetibili o chissà che altro), dove ero piuttosto bravo. Parecchi anni dopo, in Svizzera (dove per me il 1938 era in un certo senso finito davvero), avrei corso con un certo successo anche i cento e duecento metri nelle gare scolastiche.

 

 

A casa, a parte il cercare di riprendersi dalla brutta botta, papà continuava a lavorare come prima, con i clienti cui non importava affatto che fosse ebreo e che continuavano come prima ad affidargli lavori di grande precisione e valore (papà era un valente tagliatore di diamanti, come sua madre e suo padre, e  come sarei diventato anch’io in uno dei primi lavori della mia vita).

 

 

Dopo la prima campagna di stampa contro gli ebrei organizzata dal regime e le leggi che via via si susseguivano, incominciava a scendere un certo tranquillizzante silenzio.

 

 

Certo, un mio zio, ferroviere (e vecchio comunista che in passato ogni volta che a Genova capitava qualche “gerarca” o magari  lo stesso Mussolini veniva arrestato per un giorno o due), era stato cacciato dalle FFSS, e con tre figlie (il maschio, mio compagno di classe, era morti di meningite fulminante un paio di anni prima) la vita per lui era cambiata per davvero.

 

 

Ma per noi, il gruppo ristretto della famiglia, le cose non erano cambiate moltissimo, a parte la radio, che come ho detto ci era stata sequestrata, e Yvonne, la donna di servizio che aveva dovuto andare via perché “ariana”, e a parte gli amici “ariani” che si erano dileguati, o perché avevano paura per quello che gli poteva succedere, o perché erano imbarazzati per noi e non volevano complicarci la vita (chissà perché).

 

 

Io continuavo a comprare “Bertoldo” e “L’Osservatore Romano”, a divertirmi con Mosca, Guareschi, Simili, a seguire ghiottamente le avventure di Gordon e degli Uomini-falco e del malvagio imperatore Ming, dell’Uomo Mascherato, di Cino e Franco, a vedermi con i nuovi compagni.

 

 

Una cosa è certa e la ricordo bene. Alla fine dell’anno non c’è stata nessuna festa e nessun brindisi si è fatto per salutare l’Anno Nuovo, quel 1939 che non portava con sé nessuna promessa.

 

 

Del 1938 due altre cose ho vive in mente.

 

 

 

 

 

 

 

 

Luciano Tas

 

 

taslevi@alice.it


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