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Luciano Tas
Le storie raccontate
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Lobby ebraica e la Mondadori 14/10/2007

La “lobby ebraica” e le liste Mondadori

 

 

Improvvisamente nel nostro paese molti ebrei si sono visti  recapitare un libro graziosamente mandato dalla casa editrice Mondadori.

 

Lo ha ricevuto chi scrive e alcuni suoi amici, tutti in un modo o nell’altro attivi nel passato nella vita culturale ebraica italiana. Redattori, collaboratori e recensori la cui firma era apparsa sul mensile ebraico d’informazione “Shalom” e da molti anni ormai usciti dal giornale, ex consiglieri  e chiunque abbia o abbia avuto in qualche modo a che fare nell’ambito della comunità ebraica, quasi tutti hanno ricevuto l’omaggio di Mondadori.

 

Naturalmente ci siamo chiesti quale fosse il motivo di tanta prodigalità, non registrata invece in altri analoghi casi, quando  cioè l’editrice ha pubblicato altri saggi di argomento d’interesse ebraico.

 

Sì, perché se questo libro – “La Israel lobby e la politica estera americana” – è di sicuro interesse per molti ebrei, lo è anche (e forse di più), il libro “Le benevole” uscito quasi contemporaneamente, che però la Mondadori non ha  ritenuto opportuno far pervenire alla stessa “lista” (trovata dove?) di indirizzi.

 

Alla lettura della prefazione e poi dell’introduzione dove gli autori  enunciavano i punti della loro tesi e la metodologia seguita, qualche dubbio sull’obbiettivo legato alla generosità selettiva mondadoriana l’abbiamo avuto.

 

Nelle primissime righe della prefazione si  legge che agli autori americani,John J.Mearsheimer e Stephen M. Walt, era stato chiesto nel 2002 dalla rivista “Atlantic Monthly” di scrivere un articolo sulla “Israel lobby e la sua influenza nella politica estera degli Stati Uniti”.

 

Ci vollero due anni – scrivono gli autori – per preparare quell’articolo (ma doveva essere solo un “articolo”? All’attenzione del traduttore) che fu bensì accettato dalla rivista ma inspiegabilmente non pubblicato.

 

Per quale motivo? Gli autori non lo dicono esplicitamente, si limitano a scrivere che non lo presentarono ad altre riviste perché sicuri di altri rifiuti. Non fanno i nomi e i cognomi dei potenti nemici per prudente pudore, ma lo spiegano abbondantemente in 442 pagine: il motivo di questa censura preventiva va ricercato nell’intervento della lobby ebraica (pardon, israeliana) negli States.

 

E gli autori spiegano che chissà, forse, ma sì. Perché essi sostenevano nell’articolo, ora diventato ponderoso libro, che “oltre ad avere incoraggiato gli Stati Uniti a sostenere più o meno incondizionatamente Israele, gruppi e individui appartenenti alla lobby avevano anche avuto un ruolo fondamentale nel definire la posizione statunitense rispetto al conflitto israelo-palestinese (…) e osservano che “questa strategia non era nell’interesse nazionale degli Stati Uniti”.

 

Alto tradimento dei lobbisti? Qualcosa che gli somiglia.

 

E cosa fa questa potente “lobby ebraica”? Fa che “nel 2008, come nelle precedenti campagne elettorali, qualunque serio candidato alla Casa Bianca dedicherà molto tempo e molte parole a esprimere il proprio personale impegno a favore di un paese straniero – Israele”.

 

Tutti venduti? O si tratta del timore di venir presi di mira dai terroristi ebrei? Non proprio, ma se un candidato USA dovesse esprimere “critiche significative nei confronti d’Israele (…) sarebbe costretto a farsi da parte”.

 

Infatti “già nei primi mesi del 2007 i candidati alla presidenza hanno cominciato a proclamare il proprio appoggio a Israele”.

 

Allora tutti i candidati avrebbero altrimenti una strategia antiamericana?

 

Mearsheimer e Walt pongono degli interrogativi (retorici perché poi danno le risposte).

 

Perché tra i candidati alla presidenza USA “si rileva una posizione unanime riguardo a Israele?... Perché Israele viene approvato incondizionatamente da tutti i candidati?... Perché Israele beneficia di una deferenza così evidente?” .

 

Per l’importanza strategica dello Stato ebraico? Ma nemmeno per sogno.

 

Perché è un partner indispensabile nella guerra al terrorismo? Macché. La verità dei due autori è che “Israele strategicamente rappresenta un peso per gli Stati Uniti”.

 

Certo, sostengono gli autori, “ci sono solide ragioni perché gli Stati Uniti si impegnino ad appoggiarlo (Israele) qualora la sua sopravvivenza fosse in pericolo”, ma “dato il trattamento brutale che nei Territori occupati Israele riserva ai palestinesi”, gli Stati Uniti dovrebbero darsi una regolata e perseguire “una politica di equidistanza fra le parti o leggermente sbilanciata a favore dei palestinesi”.

 

No, la “lobby” non lo consentirebbe. Per mettersi al riparo si spiega poi che questa lobby è un gruppo di pressione “composto sia da ebrei che da non ebrei”. Come dire, mettendo le mani avanti: non siamo antisemiti, non guardiamo in faccia nessuno, ebrei e non ebrei.

 

Il fatto è, dicono gli autori, che “molte delle politiche perseguite a beneficio di Israele ora mettono a repentaglio la sicurezza degli Stati Uniti”. Una allusione all’11 settembre e alle Torri gemelle?

 

Sempre per mettere le mani avanti nel loro dire e non dire gli autori scrivono: “Affermare che un gruppo d’interesse i cui membri sono per la maggior parte ebrei (ma non dicevano che della lobby fanno parte ebrei e non ebrei in parti uguali?) abbia una forte influenza sulla politica estera degli Stati Uniti, anche tacendone gli effetti negativi, mette in imbarazzo molti americani (probabilmente li spaventa e li irrita)”.

 

E perché questo spavento e questa irritazione? Perché – lo dicono proprio loro, gli autori – “suona come un’accusa presa direttamente dalle pagine  dei Protocolli dei Savi anziani di Sion…”. Ma allora perché sostengono proprio questa tesi?

 

La nostra argomentazione – scrivono – si propone tre obiettivi. Dobbiamo convincere il lettore che (.) gli Stati Uniti forniscono a Israele aiuti (.) in misura straordinaria; 2) la lobby è la principale ragione di questi aiuti; e 3) questo rapporto acritico e  incondizionato non è nell’interesse nazionale degli Stati Uniti”.

 

Gli aiuti “straordinari”. Ma Israele non ne ha proprio bisogno, dicono, perché ”Israele è la prima potenza militare del Medio Oriente” e gruppi come Hezbollah (o gli uomini di Hamas da Gaza) “possono lanciare contro Israele missili e razzi di scarsa efficacia” e “i loro attacchi non rappresentano una minaccia diretta per lo Stato ebraico”.

 

Ne deriva, secondo Mearsheimer e Walt, che Israele non è in realtà assediato e minacciato e che “i suoi vicini arabi sarebbero determinati a distruggerlo”. “C’è persino chi  sostiene che gi arabi si affrettarono a dare battaglia nel 1948, nel 1967 e nel 1973 per >”.

 

Guarda un po’ che cosa è andata insinuando negli animi degli innocenti americani. C’è persino chi sostiene… Ma basta andare a rileggersi i documenti relativi alla storia di quelle tre guerre per sostenere che davvero gli aggressori arabi scrivevano, dicevano e annunciavano a tutti i livelli e in tutte le sedi che gli ebrei sarebbero stati “gettati a mare”. Evidentemente Mearsheimer e Walt hanno la memoria corta o si sono insufficientemente documentati.

 

Gli autori sostengono poi, avventurandosi per tortuosi sentieri, che  prima della nascita dello Stato ebraico “Ben Gurion aveva già negoziato con re Abdullah di Transgiordania un accordo per spartire la Palestina tra Israele e la Transgiordania, precludendo di fatto ai palestinesi la possibilità di avere un proprio Stato”.

 

E qui la fretta ha confuso un po’ le idee agli autori. Primo, al tempo degli incontri con Re Abdullah di Giordania e non di Transgiordania, la controparte ebraica era Golda Meir e non Ben Gurion; secondo, la Palestina era già stata spartita con la creazione, in  Transgiordania,  del Regno di Giordania; terzo, gli arabi che vivevano in Cisgiordania – occupata dai giordani fino al 1967 senza che nessuno pensasse nemmeno lontanamente alla creazione di un nuovo Stato palestinese – erano gli stessi  arabi che, nella misura di due terzi, vivevano (e vivono) in Giordania; quarto, fino alla drammatica nascita del nuovo Stato ebraico per “palestinesi” s’intendevano gli ebrei residenti in Cisgiordania (Gaza era occupata dagli egiziani), tanto è vero che la Brigata ebraica della VIII Armata britannica si chiamava ufficialmente “Brigata palestinese”; quinto, ci si può chiedere perché mai, quando tra il 1948 e il 1967 Cisgiordania e Gaza erano saldamente in mano araba, a nessuno era venuto in mente di dar vita ad uno Stato palestinese.

 

Ma ecco, a chiarire definitivamente le idee sulla “lobby” che. come detto nelle pagine precedenti, gli autori definiscono composto da ebrei e non ebrei, poi più dai primi che dai secondi, a pagina 144 si può leggere che la lobby filoisraeliana già nel 1981 era “composta da almeno 75 organizzazioni per lo più ebraiche”.  

 

Poi però gli autori mettono le mani avanti, come fanno spesso e affermano che “l’accusa di antisemitismo resta un’arma ampiamente sfruttata per trattare con chi critica Israele”.

 

E così siamo tutti sistemati.

 

Ma se lo scopo della Mondadori era quello di suscitare le reazioni della “lobby ebraica” italiana per incrementare con qualche scandalo le vendite, proprio come aveva fatto non molto tempo fa l’editrice il Mulino con un infelice libro di “odio di sé ebraico”, eccoci qua, per servirvi o almeno, fateci avere “Le benevole”.

 

 


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