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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Riformista Rassegna Stampa
22.08.2025 Egitto e Onu hanno incatenato i gazawi, ma ora tutti straparlano di deportazioni
Commento di Iuri Maria Prado

Testata: Il Riformista
Data: 22 agosto 2025
Pagina: 2
Autore: Iuri Maria Prado
Titolo: «Egitto e Onu hanno incatenato i gazawi, ma ora tutti straparlano di deportazioni»

Riprendiamo dal RIFORMISTA del, 22/08/2025, a pagina 2, il commento di Iuri Maria Prado dal titolo "Egitto e Onu hanno incatenato i gazawi, ma ora tutti straparlano di deportazioni".


Iuri Maria Prado

Il valico di Rafah: tutti dimenticano questo confine fra Egitto e Gaza. Perché è ermeticamente chiuso da quando Hamas ha preso il potere e, dall'inizio della guerra, da qui non sono potuti fuggire i palestinesi profughi. Per questo Israele organizza trasferimenti di popolazione, dentro la Striscia, lontano dalle aree in cui si combatte. E viene accusato di praticare "deportazioni".

Il Corriere della Sera - ma è un’impostazione diffusa - scrive che la decisione israeliana di spostare una parte della popolazione civile palestinese nella nuova fase della guerra di Gaza costituirebbe “un’altra deportazione”. Al di là della scelta del termine - non propriamente neutra - c’è il succo di un pregiudizio di cui si fatica a comprendere l’utilità proprio considerando gli interessi dei “deportati”.

Per quanto non piaccia a nessuno, e per quanto sia drammatica innanzitutto per la popolazione civile, quella di Gaza è una situazione di guerra. Hamas l’ha programmata e la combatte - dall’inizio, e rivendicandola - esponendo i civili al massacro. L’uccisione dei civili è un problema enorme per Israele, che per questo riceve condanna e sostanzialmente unanime esecrazione. Per Hamas è invece uno strumento di combattimento. Usare i civili “come attrezzi” non era un vuoto proclama di Yahya Sinwar: era, e continua a essere, una pratica di guerra del potere che governa la Striscia. È legittimo discutere sul fatto che Israele dovesse accettare quelle condizioni di combattimento e, per eccesso, sarebbe legittimo anche sostenere che Israele avrebbe dovuto astenersi dal fare la guerra ad Hamas perché il prezzo pagato dai civili palestinesi sarebbe stato troppo alto. Ma è disonesto e contrario al vero negare che quella fosse - e continui a essere - la politica militare delle belve del 7 ottobre.

Le “deportazioni” di cui si vaneggia - certamente non gradevoli, anzi spaventosamente afflittive - non si sarebbero rese necessarie se la comunità internazionale, adunata nelle inconcludenze e nelle complicità delle Nazioni Unite, non avesse rifiutato di realizzare e far realizzare, come Israele propose all’inizio del conflitto, delle zone di rifugio con presidio ospedaliero, linee di approvvigionamento e dispositivi di protezione. Salvo credere (anche di questo si è stati capaci, per esempio nei ricorsi sudafricani all’Aia) che Israele organizzi lo spostamento di quelle masse in aree separate da quelle di conflitto per farne altrettante zone di sterminio, chiunque dovrebbe comprendere che si tratta del tentativo - certo complicato, certo drammatico per chi vi è coinvolto - di minimizzare l’impatto sui civili delle operazioni militari. Le quali, per quanto siano descritte come l’insensato, sanguinario e immotivato ghiribizzo guerrafondaio di un governo senza freni, sono rivolte alla neutralizzazione delle capacità offensive delle formazioni terroristiche che ancora imperversano a Gaza e che ancora (è incredibile che si trascuri il “dettaglio”) attentano alla sicurezza di Israele. L’uso di quel termine - “deportazione” - appare insensato non soltanto per ciò cui allude (un’arbitraria scelta oppressiva), ma soprattutto per ciò che accantona, e cioè che l’alternativa non si sa quale potrebbe essere.

La “pace”, forse? E perché non il paradiso in terra? Ma un altro “dettaglio” condannerebbe al ridicolo - semmai si potesse sorridere su tanta tragedia - l’uso di quel termine. Ed è che discuteremmo d’altro, e saremmo in un’altra situazione, se lo Stato dirimpettaio - l’Egitto - non avesse ritenuto di impedire ai fratelli palestinesi di trovare rifugio oltre il confine.

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redazione@ilriformista.it

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