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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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israele.net Rassegna Stampa
20.08.2025 Il doloroso dibattito interno in una democrazia trascinata in guerra da terroristi spietati, votati alla distruzione dello stato ebraico
Commento di Herb Keinon

Testata: israele.net
Data: 20 agosto 2025
Pagina: 1
Autore: Herb Keinon
Titolo: «Il Comma 22 dei commentatori israeliani: da 'andarsene da Gaza è l’unico modo per sconfiggere Hamas' a 'le proteste contro il governo irrigidiscono Hamas'. Il doloroso dibattito interno in una democrazia trascinata in guerra da terroristi spietati, votati»

Riprendiamo dal sito www.israele.net - diretto da Marco Paganoni - il commento di Herb Keinon tradotta dal Jerusalem Post dal titolo "Il Comma 22 dei commentatori israeliani: da “andarsene da Gaza è l’unico modo per sconfiggere Hamas” a “le proteste contro il governo irrigidiscono Hamas”. Il doloroso dibattito interno in una democrazia trascinata in guerra da terroristi spietati, votati alla distruzione dello stato ebraico".

Herb Keinon
Proteste in Israele per la liberazione immediata degli ostaggi. Tutti la vogliono, così come tutti vogliono la pace. Ma a quali condizioni? E perché protestare contro il governo Netanyahu (che si sta sforzando di liberarli) e non sotto le ambasciate e le rappresentanze degli Stati che appoggiano Hamas? Perché non fare pressioni sugli Usa, perché si impegnino di più, con Turchia e Qatar, a costringere Hamas a rilasciare tutti?

Immaginiamo cosa staranno pensando i capi di Hamas, seduti in una bella stanza d’albergo con aria condizionata a Doha o in un tunnel a Gaza, mentre guardano le immagini della polizia israeliana che disperde con gli idranti i manifestanti che bloccano le strade invocando il rilascio degli ostaggi.

Staranno pensando: “wow, questi israeliani dimostrano una solidarietà incredibile, guarda quanto tengono a ogni singolo ostaggio, dovremmo rilasciarli al più presto”?

Oppure staranno pensando: “guarda quegli israeliani che si combattono, letteralmente, tra loro, questa volta per gli ostaggi: più a lungo teniamo gli ostaggi, più intensi diventeranno i loro scontri”?

I capi di Hamas osservano attentamente queste scene. Ed è molto più probabile che interpretino le proteste non come solidarietà, ma come divisione:  come prova del fatto che la questione degli ostaggi sta seminando discordia all’interno di Israele.

Su un rifugio anti-aereo israeliano, adesivi in memoria dei soldati caduti nella guerra contro Hamas

E più credono che la questione degli ostaggi stia lacerando la società israeliana, più saranno incentivati a continuare a trattenerli.

Gli scioperi, i blocchi stradali e le proteste di domenica sconvolgono la vita in Israele, ma difficilmente spingeranno Hamas a rilasciare uno solo degli ostaggi. Semmai, è più probabile che incoraggiano Hamas a irrigidire ulteriormente la sua posizione.

Questa “giornata della rabbia”, sebbene non descritta come tale, si basava su un impulso che gli israeliani conoscono bene: la convinzione che tutto dipende da noi, che se solo facciamo la mossa “giusta”, l’altra parte risponderà di conseguenza.

È una dinamica che si ripete da decenni nei “colloqui di pace”: litighiamo tra di noi sugli insediamenti o su un ritiro o sul destino di Gerusalemme, pensando che una volta presa la decisione “giusta”, i palestinesi si comporteranno di conseguenza.

Ma le cose non sono andate esattamente così.

Le proteste di domenica si basavano anche su un altro presupposto: che il governo non sia realmente interessato agli ostaggi e che, se lo fosse, gli ostaggi sarebbero già tornati a casa. Presupposto assai discutibile.

L’ostacolo non è la riluttanza di Israele, ma il rifiuto di Hamas. Come hanno affermato uno dopo l’altro i funzionari statunitensi sia dell’amministrazione Biden che di quella Trump – da Tony Blinken a Brett McGurk, fino a Steve Witkoff – è Hamas, non Israele, che blocca accordo.

A quale prezzo Israele dovrebbe porre fine alla guerra, nell’ipotesi che ciò porti alla liberazione di tutti gli ostaggi? Al prezzo di consentire a Hamas di riorganizzarsi, riarmarsi e compiere un altro massacro tipo 7 ottobre?

E allora, perché le proteste in Israele?

Perché, contro chi altri possono protestare gli israeliani ? Contro Hamas? Opzione impossibile. Non è che si possa organizzare manifestazioni a Gaza City, né marciare contro una sede di Hamas a Doha.

La frustrazione si riversa inevitabilmente verso l’interno, contro un governo che almeno sembra a portata di mano. Le proteste non servono tanto a cambiare i calcoli di Hamas, quanto a dare agli israeliani un modo per agire, cioè un modo per non sentirsi del tutto impotenti.

Qual è l’obiettivo? Gli organizzatori ne hanno espressi due, mentre il terzo è sottaciuto.

Il primo obiettivo, liberare gli ostaggi, è un sentimento universalmente condiviso in Israele. Chi non vorrebbe veder finire subito, oggi stesso, l’immane sofferenza degli ostaggi e delle loro famiglie?

Il secondo obiettivo: fermare la guerra. Anche in questo caso, la stragrande maggioranza degli israeliani vuole che finiscano le uccisioni, che i soldati tornino a casa e che le centinaia di migliaia di riservisti tornino alle loro famiglie dopo mesi di assenza.

Tutti lo vogliono. La domanda è: a quale prezzo?

A quale prezzo Israele dovrebbe porre fine alla guerra, nell’ipotesi che ciò porti alla liberazione di tutti gli ostaggi?

Al prezzo di un ritiro completo delle Forze di Difesa israeliane da Gaza, incluso il Corridoio Philadelphi (al confine con l’Egitto ndr) e tutto il perimetro di confine, come pretende Hamas?

Al prezzo di permettere che Hamas conservi le armi e mantenga il controllo dell’enclave – se non direttamente, almeno attraverso i gregari da essa manipolati?

Al prezzo di consentire a Hamas di riorganizzarsi, riarmarsi e compiere un altro massacro tipo 7 ottobre, se non fra cinque anni, allora fra 10 o 15?

Posta in questi termini la domanda, la risposta non è più un semplice sì o no, bensì un grande “dipende”.

Al desiderio di liberare gli ostaggi e porre fine alla guerra, nelle proteste di domenica si aggiungeva un altro messaggio, non esplicitamente dichiarato: far cadere il governo.

Non c’è niente di male nel voler far cadere il governo e protestare per riuscirci. Basta non farlo sulla questione degli ostaggi.

L’empatia per il dolore e l’angoscia degli ostaggi e delle loro famiglie è uno dei temi che ha unito il Paese per molti mesi dopo il massacro del 7 ottobre. Trasformarlo in un altro terreno di scontro politico rischia di erodere il fragile terreno comune che ancora esiste.

Dopo oltre 681 giorni di prigionia, gli ostaggi rimangono al centro della coscienza nazionale. Non rischiano di essere dimenticati, come accadde tragicamente per Ron Arad a metà degli anni ’80, quando alla sua famiglia fu consigliato di tacere poiché la pressione pubblica avrebbe solo favorito il ricatto dei suoi rapitori.

La sua scomparsa dalla scena pubblica ha lasciato una cicatrice incancellabile negli israeliani, e questo trauma spiega in parte la determinazione odierna: nessuno vuole ripetere il silenzio che segnò il destino di Arad.

Oggi, è tutto il contrario: la questione degli ostaggi non scomparirà.

Ma la domanda è d’obbligo: cosa si ottiene con eventi come quello di domenica, che proiettano l’immagine di una nazione in guerra con se stessa?

Le persone si sentono impotenti. Vogliono agire. L’istinto è quello di fare pressione sul governo, l’obiettivo più vicino.

Ma questo ripete l’errore fatto con lo slogan originario della campagna: Bring them home “Riportateli a casa”. Quella frase attribuisce l’onere della responsabilità a Israele, sottintendendo che se gli ostaggi non sono a casa è perché Israele non ha fatto abbastanza.

La pressione deve essere fatta su Hamas – e su coloro che hanno influenza su di essa, come il Qatar e, in misura minore, la Turchia – affinché Hamas Let them go “li lasci andare”.

Bisognerebbe manifestare davanti alle ambasciate del Qatar e della Turchia. E utilizzare i fondi raccolti per le proteste in Israele per finanziare campagne internazionali che screditino la doppiezza di Qatar e Turchia agli occhi dell’opinione pubblica mondiale.

E fare campagna negli Stati Uniti affinché i rapporti di Washington con il Qatar siano condizionati alla volontà del Qatar di fare vera pressione su Hamas.

Il presidente Isaac Herzog, intervenendo domenica in Piazza degli Ostaggi a Tel Aviv, ha esortato il mondo a porre fine all’ipocrisia e a fare vera pressione su Hamas.

“Quando volete fare pressione, sapete come farla – ha esclamato Herzog – Fatela su Hamas: avrebbero dovuto rilasciare gli ostaggi immediatamente!”.

E ha continuato: “Basta piegarsi a Hamas, alle sue pretese, alla sue manipolazioni emotive. Prima di ogni altra cosa: liberate gli ostaggi. Ditelo al mondo intero, e ditelo a Hamas: volete portare rifornimenti? Volete cambiare la situazione? Prima di tutto, liberate gli ostaggi! Lo chiedo al mondo intero: basta con l’ipocrisia: liberateli”.

La rabbia espressa domenica è del tutto comprensibile. Il sentimento è giusto, ma il bersaglio no. È Hamas che si rifiuta di rilasciare gli ostaggi, non il governo israeliano, che è disposto a fare quasi tutto per riaverli.

Quasi tutto, tranne una cosa: permettere a Hamas di sopravvivere, riorganizzarsi e preparare il terreno per altri 7 ottobre.

Quella linea non può essere oltrepassata. Perché se così fosse, le proteste di oggi per il rilascio degli ostaggi non farebbero altro che promettere altre proteste, domani, per il rilascio di altri ostaggi.


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