Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Quanto è costato il 7 ottobre, chi finanzia Hamas Analisi di Antonio Picasso
Testata: Il Riformista Data: 18 agosto 2025 Pagina: 1 Autore: Antonio Picasso Titolo: «Quanto è costato il 7 ottobre, chi finanzia Hamas e dove si registrano i flussi della jihad economica (Gran Bretagna): 'C’è la consapevolezza, ma anche la reputazione'»
Riprendiamo dal RIFORMISTA, edizione online, l'analisi di Antonio Picasso dal titolo "Quanto è costato il 7 ottobre, chi finanzia Hamas e dove si registrano i flussi della jihad economica (Gran Bretagna): 'C’è la consapevolezza, ma anche la reputazione'".
Antonio PicassoIl 7 ottobre Hamas ha invaso Israele. Non è stata un'operazione improvvisata e nemmeno gratuita. E' costata fino a 350 milioni di dollari. Chi ha finanziato l'organizzazione terroristica? Soprattutto l'Iran e la rete di finanziatori della Fratellanza Musulmana
Quanto è costato ad Hamas il 7 ottobre? Non in morti (circa un migliaio di terroristi uccisi), bensì in spese. Si sa, il maggiore contributor di Hamas è l’Iran, che bonifica al suo alleato tra i 100 e i 350 milioni di dollari ogni anno. Ma non è il solo. «È ancora difficile dare una dimensione economica del progrom», spiega Michael Barak, senior researcher dell’Institute for Counter-Terrorism (Ict di Herzliya). «Sappiamo che Gaza è alimentata da un complessa rete di finanziamenti internazionali».
Nulla di nuovo per molti aspetti. Hamas nasce nel 1987. Da allora, vanta rapporti con i tutti Paesi musulmani. D’altra parte, così come per Israele il 7 ottobre 2023 è stata una chiave di volta, altrettanto lo è per questo gruppo terroristico che, da vent’anni, ha diritto di vita e di morte sulla Striscia di Gaza. L’intensificarsi degli scontri, le operazioni del Mossad contro i leader residenti fuori dalla Striscia e la chiusura dei tunnel nel Sinai hanno di fatto scisso un’Hamas operativa, a Gaza, da una residente in contesti pacifici. Due realtà isolate tra loro: una in prima linea, l’altra una macchina di soldi, in costante difficoltà a trasferire i finanziamenti al fronte. Questo come sintesi generale. Più ne dettaglio però, chi finanzia Hamas? Una risposta adeguata prevede che si parta dal “dove”.
Dove?
«Il canale principale sono i tunnel», spiega Barak. Quei 750 chilometri di cunicoli sono il punto collettore delle attività finanziarie e dei traffici illeciti di Hamas. Appena fuori dal Sinai, i terroristi gazawi vantano un radicato supporto nelle guardie di frontiera egiziane, corrotte, quanto anche nella Fratellanza musulmana al Cairo. Da qui partono le grandi direttrici: verso il resto del Medio Oriente (Turchia, Siria, Libano, Yemen, Qatar), il mondo musulmano più esteso (Mauritania) e l’Occidente. Oggi, i Paesi più interessati da movimenti finanziari di Hamas sono il Regno Unito, la Svezia, la Norvegia, l’Olanda e gli Stati Uniti. In un passato neanche troppo lontano, nel mirino c’erano anche Svizzera, Liechtenstein e Bahamas.
In Italia, l’Associazione di Solidarietà con il Popolo Palestinese, guidata da Mohammed Hannoun, è stata sanzionata dal Dipartimento del Tesoro Usa per aver trasferito 4 milioni di dollari in dieci anni al gruppo terroristico. C’è infine il web: canale strategico per lo scambio di informazioni di intelligence, propaganda e criptovalute.
Chi?
Deux ex machina di questo hub è ovviamente la Fratellanza musulmana che ha ben più punti in comune con Hamas di quanti ne abbia l’Iran. La rivalità sciiti-sunniti resta irrisolta in seno all’Islam. Ecco perché, da sempre, si considera il movimento terroristico gazawi un proxy per gli Ayatollah, funzionale nella lotta comune contro il grande e piccolo satana (rispettivamente Usa e Israele), ma non un alleato sine die. Al contrario, i Fratelli musulmani, sunniti come Hamas, sono mossi dallo stesso missionarismo bellico della jihad. Oggi la cabina di regia della Fratellanza è ad Ankara. Da qui i suoi tentacoli si prolungano in Europa. In Olanda, l’associazione filo-palestinese el-Baraka fa da collettore. C’è poi la succursale yemenita, distribuita tra Turchia e, ovviamente, la penisola arabica, dove però è in concorrenza con gli Houthi, al soldo di Teheran. In Siria, resta a piede libero il “most wanted” sceicco Abdallah al-Muhaysini, al tempo guida di al-Nusra, il gruppo jihadista che diede filo da torcere ad Assad e che vantava legami, tra gli altri, con il movimento islamico degli uiguri in Cina. Poi si va verso il Qatar, dove si concentrano le attività immobiliari e alberghiere dei clan di Ismail Hanyyeh e Kaled Meshal, che operano attraverso società di comodo e asset immobiliari, per valori stimati tra 2,5 e 5 miliardi di dollari ciascuno. Uscendo dal sistema della Fratellanza, c’è la rete finanziaria. La Taqwa bank fa ancora da protagonista. Inserito nella lista nera degli Usa per i suoi legami con al-Qaeda, poi depennato nel 2010 per insufficienza di prove, questo istituto finanziario ha dato fino a 60 milioni di dollari all’anno per la causa gazawi dal pieno degli anni Novanta.
Infine, arriviamo alle organizzazioni umanitarie e alle istituzioni internazionali. Dalla sua presa del potere nel 2006 nella Striscia, Hamas ha sempre utilizzato fondi e materiali destinati a scopi umanitari per la realizzazione delle proprie infrastrutture operative. L’Ngo Monitor, di base a Gerusalemme, ha registrato una sensibile crescita di questi dirottamenti dopo il 7 ottobre 2023. Risorse di provenienza Unicef, Un Ocha (United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs), ma anche del Ministero degli Esteri britannico, in origine destinate alla popolazione sono finite nelle mani di Ong gazawi legate al terrorismo. Il Centro palestinese per i diritti umani (Pchr), l’Unione dei comitati di lavoro agricolo (Uawc) e i Comitati di lavoro sanitario (Hwc) hanno finanziato la realizzazione di nuovi tunnel, installazioni di combattimento, siti di stoccaggi di risorse e provviste. Il sistema Foreign office di Londra, Unicef e Norwegian Refugee Council avrebbe destinato oltre 200 milioni di dollari in attività di assistenza e “contanti multiuso”, come scrive l’Ngo Monitor, a Gaza. Hamas avrebbe intascato una quota variabile tra il 15 e il 25% degli aiuti.
Come?
La raccolta fondi avviene tramite investimenti e operazioni immobiliari, finanziamenti jihadisti, propaganda, corruzione. In Qatar si concentra il grosso del real estate di Hamas. Dal 2007 il Paese del Golfo ha trasferito alla Striscia circa 1,8 miliardi di dollari, con una media recente di 360 milioni all’anno, usati in gran parte per salari e assistenza. A sua volta, la Zakat è un obbligo di charity per ogni fedele musulmano ed è quindi volontaria. A meno che non sia estorta. A questo proposito, è interessante il caso della Mauritania. Paese africano a maggioranza islamica, geograficamente lontano da Gaza e dalle condizioni economiche tutt’altro che stabili, si sta rivelando un vero e proprio bancomat per Hamas, che si è infiltrata per via della Fratellanza musulmana. I leader palestinesi più influenti che hanno stretto legami con i capi tribù e le rappresentanze sindacali. Le donazioni sono state incoraggiate da chierici estremisti e sceicchi radicali intervenuti in eventi di piazza nei villaggi, conferenze e lezioni nelle scuole. Chi si è opposto a questa jihad economica si è sentito dire che Gaza ha la precedenza sulle necessità delle classi più povere mauritane. Preso il 7 ottobre 2023 come Anno zero, si calcola che circa 50 milioni di dollari sono stati trasferiti dalla Mauritania a conti egiziani, oppure in cash direttamente nella Striscia.
Queste attività sono collaterali alla propaganda. Nei campus del Nord America, Europa e dell’Australia, il crowdfunding va per la maggiore. Nella maggior parte dei casi, si tratta di donazioni dirette e individuali, per un valore che supera i 12 milioni di dollari. Grazie al messaggio “pro-Pal”, declinato in versione pacifista e umanitaria, docenti e studenti, non necessariamente di fede musulmana o di origine mediorientale, si sono sentiti di chiudere un occhio sull’identità terroristica di Hamas e quindi destinare piccole risorse personali. La comunicazione è corsa sui canali canonici del volantinaggio, delle conferenze in ateneo, ma anche via Telegram. Questo ha permesso anche il ricorso a criptovalute.
Cosa?
Ai traffici monetari, si aggiungono le attività di contrabbando e del mercato nero. Le sigarette vendute nella Striscia sono di monopolio di Hamas. Il narcotraffico resta invece un’attività marginale. Con ipocrisia, il “governo” di Gaza sventola lo stendardo dell’Islam per vietare l’uso di stupefacenti. Tuttavia, la politica di tolleranza zero non esclude lo spaccio di tramadol e oppiacei, che filtra ch’esso attraverso i tunnel. Inoltre, le anfetamine vengono utilizzate proprio da Hamas per dopare i miliziani affinché ne venga schiacciata la razionalità e, durante le operazioni sporche, si limitino a essere una perfetta macchina di morte.
Perché?
La domanda finale richiede una risposta duplice. Chi finanzia Hamas lo fa perché crede nella sua causa, oppure perché è convinto che possa risolvere il dramma di Gaza? Su entrambe le posizioni si è scritto molto. È più importante capire perché realtà come le istituzioni occidentali e altri soggetti ideologicamente lontani dal jihadismo non riescano ancora a prendere una posizione contraria, se non di condanna di questi flussi di denaro che, certificati, si trasformano nella ricchezza del terrorismo. «C’è la consapevolezza, ma anche la reputazione», osserva una fonte informata italiana. La riflessione trova conferma in quanto scrive Ngo monito: “I diplomatici britannici, pur sapendo delle infiltrazioni di Hamas, hanno considerato la situazione come un semplice “rischio reputazionale”, non una questione di sicurezza nazionale, o finanziamento del terrorismo. Dai documenti emerge come i funzionari britannici sembrino più preoccupati per l’immagine del Regno Unito che per le gravi implicazioni derivanti da una politica lassista contro il finanziamento del terrorismo”.
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