Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Per i media, Israele colpevole fino a prova contraria Commento di Daniele Scalise
Testata: Informazione Corretta Data: 15 agosto 2025 Pagina: 1 Autore: Daniele Scalise Titolo: «Per i media, Israele colpevole fino a prova contraria»
Per i media, Israele colpevole fino a prova contraria Commento di Daniele Scalise
La guerra contro Israele viene combattuta nelle redazioni, prima ancora che sul campo di battaglia. I media seguono un copione già scritto, in tutti i loro servizi, in cui il finale è già scritto e il colpevole è Israele.
Ci sono guerre che iniziano sul terreno e guerre che cominciano in redazione. Per Israele, troppo spesso, la seconda precede la prima. I grandi media internazionali non aspettano i fatti: li adattano a un copione già scritto, dove il finale è sempre lo stesso. Israele è l’aggressore, i palestinesi sono le vittime. Il resto è solo scenografia.
L’impianto narrativo non è il frutto di una riunione segreta in qualche cantina fumosa ma ben più subdola, nascendo da un riflesso automatico, un pregiudizio consolidato, una pigrizia professionale che si traduce in titoli e aperture costruiti prima ancora di avere prove. E quando le prove arrivano – se arrivano – allora bisogna rincorrere la bugia iniziale, con il fiato corto e senza mai raggiungerla.
Primo atto: l’ospedale Al-Ahli, ottobre 2023. Poche ore dopo l’esplosione, le agenzie battono: “Raid israeliano colpisce ospedale di Gaza, centinaia di morti”. Le fonti? Una sola: il “Ministero della Sanità” di Gaza, ossia Hamas. Nessuna verifica indipendente, nessuna cautela. I giornali considerati più autorevoli, dal New York Times a Le Monde, rilanciano la notizia in prima pagina, con foto di macerie e bambini insanguinati. Quando le prove video e radar dimostrano che si è trattato di un missile jihadista caduto nel cortile dell’ospedale, è troppo tardi: la menzogna ha già fatto il giro del mondo. Le smentite finiscono in trafiletti da pagina 12.
Secondo atto: Jenin, gennaio 2023. Titoli fotocopia: “Incursione israeliana lascia 9 palestinesi uccisi”. Il lettore medio, dopo un occhiello e tre righe di testo, ha già un quadro completo: Israele entra, spara, uccide. Solo chi arriva in fondo – e pochi ci arrivano – scopre che i nove erano tutti miliziani armati, eliminati durante un’operazione mirata contro cellule terroristiche. Nel frattempo, l’immagine sedimentata è quella di un esercito che massacra civili.
Terzo atto: l’attacco del 7 ottobre 2023. Mentre Hamas massacra e rapisce centinaia di civili israeliani, le prime agenzie parlano di “militanti palestinesi entrati in Israele”. Militanti, non terroristi. La parola ‘militante’ è connessa automaticamente a significati positivi: impegno coraggioso, difensore di cause meritevoli, senso di abnegazione etc. etc. Naturalmente nessun riferimento iniziale a stupri, decapitazioni, intere famiglie bruciate vive. Le immagini dei kibbutz devastati e i dettagli dell’orrore arrivano con giorni di ritardo, e con un’enfasi infinitamente minore rispetto alle immagini di Gaza bombardata. Così, l’aggressione diventa in fretta un “ciclo di violenze” dove il carnefice e la vittima si invertono.
Il filo rosso di questi tre episodi è chiaro: la prima versione è sempre contro Israele, la rettifica arriva – quando arriva – depotenziata e invisibile. Il pubblico non legge due volte la stessa storia: la verità non ha il privilegio dell’uscita in prima serata.
Questo meccanismo ha una logica di ferro per chi lo applica: in una guerra di propaganda, l’obiettivo non è raccontare i fatti, ma imprimere un’immagine nella mente del lettore o dello spettatore. Una volta fissata, è quasi impossibile rimuoverla. Le scuse, le note di correzione, le “versioni aggiornate” servono al massimo da alibi professionale per chi le scrive, non un antidoto per chi ha già assorbito la panzana.
Israele, così, si trova costantemente a combattere una battaglia impari: non solo contro chi lo attacca sul campo, ma contro un ecosistema mediatico che tratta le sue ragioni come appendici di una notizia già confezionata. È un processo che non ha bisogno di complotti: bastano conformismo, superficialità e una dose abbondante di pregiudizio.
Finché i fatti non torneranno ad avere la precedenza sul copione, ogni evento che coinvolge Israele continuerà a essere giudicato “colpevole fino a prova contraria”. E in un mondo dove la prova contraria arriva sempre tardi e in sordina, significa che la condanna è scritta in partenza.