Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Disimpegno, trauma e il 7 ottobre. Un cerchio che si chiude nel dolore Commento di Tomer Corinaldi
Testata: Il Riformista Data: 13 agosto 2025 Pagina: 6 Autore: Tomer Corinaldi Titolo: «Disimpegno, trauma e il 7 ottobre. Un cerchio che si chiude nel dolore»
Riprendiamo da IL RIFORMISTA di oggi, 13/08/2025, a pag. 6, con il titolo "Disimpegno, trauma e il 7 ottobre. Un cerchio che si chiude nel dolore", il commento di Tomer Corinaldi.
Tomer Corinaldi, rabbino della comunità ebraica di Verona e VicenzaIl "disengagement", il ritiro da Gaza voluto da Sharon nel 2005, fu il trasferimento forzato di tutti gli ebrei che vivevano nella Striscia di Gaza. Fu catastrofico e non portò alla pace, ma alla guerra continua con il regime di Hamas. Quest'ultimo conta sul sostegno, diretto e indiretto della comunità internazionale... che ora vuole che Israele ripeta lo stesso errore in Giudea e Samaria, lasciando spazio a uno Stato Palestinese che farà guerra continua a Israele.
Esattamente il 15 agosto di vent’anni fa, che quell’anno cadeva, secondo il calendario ebraico, nel giorno del 9 di Av (Tisha B’Av), Israele avviò una mossa drammatica: il disimpegno dalla Striscia di Gaza. Ariel Sharon, primo ministro eletto dal campo della destra politica, lanciò un piano unilaterale per separarsi dai palestinesi: evacuare tutti i villaggi ebraici del Gush Katif e consegnare il controllo di Gaza all’Autorità palestinese.
Il Gush Katif era un blocco di villaggi ebraici situato nella Striscia di Gaza. Vi abitavano migliaia di famiglie israeliane che avevano costruito lì la loro vita. Oltre 8.000 cittadini israeliani, che vivevano in 21 villaggi, furono costretti a lasciare le loro case. Molti persero anche il proprio lavoro e rimasero in gravi difficoltà economiche: molti gli agricoltori che dovettero abbandonare la propria terra. Ricordo bene quei giorni. Lavoravo come assistente sociale e terapeuta con animali – pet therapy. Mi recai nel nord del Paese per accogliere le famiglie sgomberate, affrante. In seguito, accompagnai gruppi di bambini e adolescenti che soffrivano di traumi profondi: sradicamento, perdita della casa. Per la terapia mi affidai a piccoli animali da compagnia, capaci di creare un ambiente caldo e sicuro che permettesse ai bambini di aprire il cuore. Gli animali arrivavano da “Chai Yeled”, una fattoria nel villaggio di Kfar Aza, gestita da un uomo dal grande cuore, Yankalle.
Dentro di me cercavo di separare la dimensione politica da quella umana. Credevo – e speravo – che quella scelta difficile avrebbe portato alla pace. Che il sacrificio avrebbe garantito sicurezza. Così promettevano il primo ministro, i suoi ministri e gli alti ufficiali. Mi sforzai di crederci, nonostante la sensazione opprimente di ingiustizia e abbandono. Ma non era solo dolore personale. Fu un trauma collettivo. Il disimpegno avvenne proprio nel giorno più triste del calendario ebraico: 9 di Av - Tisha B’Av, giorno in cui, secondo la tradizione, furono distrutti entrambi i Templi di Gerusalemme. In quello stesso giorno, nel 1492, fu anche proclamata l’espulsione degli ebrei di Spagna da parte della regina Isabella. Era difficile comprendere l’insensibilità nel compiere un simile atto traumatico proprio in quella data. Ancor più difficile era assistere all’esecuzione affrettata, priva di pianificazione. Famiglie intere vissero per mesi in alberghi, poi in prefabbricati. Sette anni dopo, due terzi di loro non avevano ancora una casa definitiva. Molti, rimasti senza lavoro, erano ancora inattivi e senza prospettive concrete.
Circa un anno e mezzo dopo, Hamas prese il potere nella Striscia. I suoi oppositori furono eliminati brutalmente. Gaza divenne rapidamente una roccaforte del terrore. Razzi vennero lanciati contro le comunità nel sud di Israele. Israele, nonostante tutto, cercò di contenerli. Avviò operazioni militari limitate (2008, 2012, 2014, 2021), sempre interrotte da pressioni interne e internazionali. La convinzione prevalente era che Hamas volesse governare. Abbiamo sbagliato.
Il popolo d’Israele odia la guerra. Ha paura di perdere i suoi figli. Vuole vivere. Vuole solo la quiete. Il 7 ottobre, la realtà ci è esplosa in faccia. All’alba della festa di Simchat Torah (la Gioia della Torah, che conclude il ciclo annuale della lettura del Pentateuco), Hamas ha compiuto un massacro indicibile: circa 1.200 persone assassinate – uomini, donne, anziani e bambini. Alcuni bruciati vivi, altri violentati, decapitati. 251 persone rapite e portate a Gaza. Quella settimana tornai in Israele, per sostenere i bambini evacuati dalla città di Sderot, anch’essa traumatizzata. Stavolta non si trattava di evacuati da Gaza, ma da città israeliane. Uno dei villaggi colpiti fu proprio Kfar Aza. 72 dei suoi abitanti furono uccisi. 19 rapiti. Non potevo non pensare a Yankalle, l’uomo che mi aveva procurato gli animali per aiutare i bambini del Gush Katif. Mentre sistemavo il rifugio dell’edificio di mia madre, trovai un vecchio opuscolo della fattoria con il suo numero di telefono. Gli scrissi. Il giorno dopo mi rispose: era vivo, profugo, ma salvo. Pensai: un cerchio triste si è chiuso. La fattoria che aveva aiutato a guarire i traumi dell’evacuazione, nata per la pace, era stata essa stessa sradicata. Possiamo dirlo senza ambiguità: quell’esperimento, nato per la pace, si è rivelato un fallimento tragico. Fu tentato nel sud, con l’intenzione di ripeterlo in Giudea e Samaria. Ma il risultato fu catastrofico. Non solo per Israele, ma anche per i palestinesi di Gaza.
Oggi Hamas governa con crudeltà spietata, usando i civili come scudi umani in ospedali, scuole e moschee. Ruba gli aiuti umanitari, a volte sparando sulla folla. Sono troppi quelli che muoiono e soffrono. Ad Hamas non importa. Non potendo vincere militarmente contro Israele, Hamas spera che più palestinesi possibile muoiano e soffrano, per usare le immagini come arma di propaganda. Questa è la sua tattica. E il mondo ci casca, ancora e ancora. Se solo il mondo si fosse schierato dalla parte di Israele, è probabile che ora la guerra e la sofferenza sarebbero già finite. L’arma di Hamas è la pressione internazionale. Mentre Israele voleva – e vuole ancora – firmare il cessate il fuoco, Hamas indurisce le posizioni. Secondo diversi rapporti, Hamas, vicino a firmare un accordo, ha poi fatto marcia indietro a seguito della pressione internazionale sulla crisi umanitaria; e saccheggiando gli aiuti umanitari che Israele lascia entrare, ora riceve un ulteriore premio: il riconoscimento di uno Stato palestinese da parte della Francia e di altri Paesi europei. Tutto questo mentre 59 ostaggi israeliani sono ancora detenuti da Hamas.
Il fatto che proprio ora, in questo contesto, ci siano leader mondiali che chiedono la creazione di uno Stato palestinese, suscita stupore, se non orrore. È un atto di cecità. Un premio al terrorismo omicida. Un messaggio che incoraggia omicidi e rapimenti, e che può causare danni gravissimi non solo a Israele, ma al mondo intero. E poi: uno Stato palestinese, senza un cambiamento profondo e fondamentale nella società palestinese, porterà la pace? O porterà altri massacri, guerra e rapimenti? Ha senso creare uno Stato terrorista nel cuore di Israele? Per chiarire: immaginate un’organizzazione terroristica armata che controlla una provincia nel nord Italia, nel cuore del Veneto (regione che è quasi delle stesse dimensioni di Israele), tra Venezia, Verona e Trento, a pochi chilometri da queste città, con l’obiettivo dichiarato di sterminare la popolazione italiana. Dareste a questo gruppo uno Stato nel cuore del vostro Paese? Ecco, questa è la realtà d’Israele. A pochi chilometri da Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa, si trova la Giudea e Samaria. Il mondo deve svegliarsi. Capire che è Hamas, non Israele, il nemico della pace. E anche dell’umanità intera.
Bisogna schierarsi al fianco di Israele in questa guerra difficile. E capire che sostenere la creazione di uno Stato palestinese che molto probabilmente sarà controllato da un’organizzazione terroristica è un atto suicida, prima per Israele, ma anche per i palestinesi stessi. Basta guardare le condizioni di vita dei palestinesi a Gaza rispetto a quelle dei loro fratelli in Giudea e Samaria. Si possono davvero paragonare? Noi sogniamo la pace. Ma per fare la pace servono due parti.
E serve guardare in faccia la realtà. Chamberlain si rifiutò di guardare in faccia la realtà quando firmò l’accordo di Monaco con Hitler nel 1938. Barack Obama si rifiutò di guardare la realtà quando firmò l’accordo nucleare con Khamenei nel 2015. Ma il mondo non ha imparato nulla da quei tragici errori del passato? Anche oggi il mondo è confuso, e nel nome dell’utopia, perde il senso della ragione. Israele deve continuare a difendersi e a difendere il mondo intero, contro il terrorismo jihadista. Questa è la preghiera, quella che diciamo tre volte al giorno, ogni giorno: “Colui che fa la pace nei cieli, farà la pace su di noi e su tutto Israele. E diciamo: Amen.”
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