Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Il primo problema della Palestina sono gli stessi palestinesi che non accettano lo Stato ebraico Commento di Andrea Molle
Testata: Il Riformista Data: 12 agosto 2025 Pagina: 4 Autore: Andrea Molle Titolo: «Il primo problema della Palestina sono gli stessi palestinesi che non accettano lo Stato ebraico»
Riprendiamo da IL RIFORMISTA di oggi, 12/08/2025, a pag. 4, con il titolo "Il primo problema della Palestina sono gli stessi palestinesi che non accettano lo Stato ebraico", il commento di Andrea Molle.
Dal Gran Muftì di Gerusalemme Hajj al Amin al Husseini, alleato di Hitler, in poi, i palestinesi non hanno mai accettato l'esistenza stessa dello Stato di Israele. Questo è il principale ostacolo alla pace. Sbagliano quei politici che pensano di risolvere il conflitto dando uno Stato ai palestinesi. Non vogliono l'indipendenza, vogliono la distruzione dello Stato ebraico.
La maggioranza dei leader europei si sbaglia.
Il vero ostacolo del conflitto non è l’assenza di uno Stato palestinese, ma il rifiuto di troppi palestinesi ad accettare l’esistenza stessa dello Stato ebraico.
Decenni di diplomazia, dal Piano di Partizione dell’ONU del 1947 alle offerte di Camp David e di Annapolis, hanno mostrato un pattern costante: di fronte alla scelta tra costruire il proprio Stato o proseguire la campagna per smantellare Israele, la maggioranza dei palestinesi ha sempre scelto la seconda opzione.
Finché l’obiettivo non passerà dalla distruzione alla convivenza, nessuna negoziazione, nessuna mappa e nessuna quantità di aiuti internazionali potranno produrre la pace.
Questa dinamica affonda le radici nella stessa nascita del movimento nazionale palestinese, che fin dagli anni Venti e Trenta del Novecento si è definito più in opposizione al progetto sionista che attorno a una visione statuale autonoma.
Per le correnti islamiste radicali, in particolare Hamas, l’intero territorio tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, e in particolare la città di Gerusalemme, è considerato waqf (patrimonio sacro islamico) e quindi non negoziabile.
Accettare Israele significherebbe tradire un obbligo religioso e nazionale.
Lo statuto del 1988 descrive la lotta come jihad e respinge ogni coesistenza con Israele; nel documento del 2017 il linguaggio è meno esplicito, ma resta l’obiettivo della “liberazione completa della Palestina” e l’assenza di un riconoscimento formale di Israele.
Anche l’idea di uno Stato nei confini del 1967 è presentata come tappa tattica, non come fine del conflitto.
Persino la questione dei rifugiati alimenta questa logica.
Mantenere la rivendicazione al “diritto al ritorno” di milioni di discendenti dei profughi del 1948 è infatti incompatibile con il riconoscimento di Israele come Stato ebraico.
In tutti i negoziati sostanziali, da Oslo a Camp David e Annapolis, quando si entra nel merito di Gerusalemme e dei rifugiati, la distanza si allarga fino a far naufragare ogni accordo.
Rinunciarvi significherebbe per un leader palestinese perdere legittimità interna; mantenerlo rende impossibile il compromesso.
A complicare il quadro c’è la competizione interna.
Nell’arena frammentata fra Fatah a Ramallah e Hamas a Gaza, mostrarsi troppo concilianti verso Israele è percepito come una debolezza.
Dopo il fallimento di Camp David nel 2000, i sondaggi premiarono Arafat per non aver ceduto, inviando un messaggio chiaro alla classe politica: l’intransigenza paga alla faccia di chi sostiene che la maggioranza dei palestinesi vorrebbe la pace.
A questo si aggiunge il ruolo degli sponsor esterni, dall’Iran a settori ampi del mondo arabo, che sostengono politicamente, finanziariamente e militarmente le correnti più radicali, mantenendo vivo il conflitto come strumento geopolitico.
Anche quando Hamas parla di tregue o di aperture, la mancanza di un riconoscimento di Israele e di una rinuncia credibile alla violenza alimenta lo scetticismo internazionale e israeliano, impedendo ogni trasformazione reale della strategia.
Infine, va aggiunto che gran parte del dibattito internazionale sul conflitto si arena su una distorsione concettuale: la riduzione del sionismo a un’ideologia suprematista, anziché riconoscerlo per ciò che storicamente è stato, cioè un movimento di autodeterminazione e decolonizzazione del popolo ebraico.
Questa narrazione, alimentata da decenni di propaganda e amplificata in contesti accademici e mediatici, priva i palestinesi e il mondo arabo di uno strumento fondamentale per un cambiamento strategico e cioè la possibilità di accettare Israele senza percepirlo come una sconfitta morale.
Se il sionismo è visto come un progetto intrinsecamente oppressivo, riconoscerlo equivale a legittimare l’oppressione; se invece viene compreso come una forma di emancipazione nazionale, allora accettarlo diventa compatibile con la propria dignità e con la ricerca di un compromesso.
Il problema è che questa demonizzazione non resta confinata al piano retorico, ma si traduce in un blocco psicologico e politico che rende praticamente impossibile il passaggio dall’opposizione totale alla convivenza negoziata.
Nella misura in cui l’opinione pubblica palestinese e internazionale viene educata a considerare Israele come il prodotto di un’ideologia “coloniale” priva di legittimità, qualunque leader che tenti la via del riconoscimento si condanna a essere bollato come traditore.
Così, la critica al sionismo — nella sua versione deformata — diventa un ostacolo strutturale alla pace, cristallizzando il rifiuto invece di aprire spazi per la transizione verso l’accettazione reciproca.
In questo contesto, il problema non è tanto convincere i palestinesi ad accettare uno Stato proprio, ma persuadere le loro leadership dominanti a sostituire la logica della negazione con quella della costruzione.
Finché la priorità resterà l’erosione di Israele, ogni road map negoziale rischierà di diventare un binario morto.
Non si tratta di negare che esistano palestinesi pronti al compromesso, ma di riconoscere che il potere decisionale è ancora saldamente nelle mani di chi vede la fine di Israele come condizione per la pace.
E finché sarà così, la pace resterà fuori portata.
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