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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Newsletter di Giulio Meotti Rassegna Stampa
12.08.2025 Perché in Italia c'è ancora una ripugnante compiacenza verso il terrorismo
Newsletter di Giulio Meotti

Testata: Newsletter di Giulio Meotti
Data: 12 agosto 2025
Pagina: 1
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Perché in Italia c'è ancora una ripugnante compiacenza verso il terrorismo»

Riprendiamo l'articolo di Giulio Meotti, dalla sua newsletter, dal titolo: "Perché in Italia c'è ancora una ripugnante compiacenza verso il terrorismo". 


Giulio Meotti

Nel 1979, un anno prima di essere ucciso, il povero Walter Tobagi, che vide la “risaia” in cui prosperava il terrorismo fatta di rispettabili intellettuali, scrisse sul Corriere della Sera:

“Se si vanno a rileggere documenti e giornali d’allora si vede che i germi del partito armato c’erano, espliciti. Solo i pregiudizi ideologici impedivano di rendersene conto. Uno dei tanti album di famiglia che bisogna sfogliare, se si vogliono capire le radici vere del terrorismo italiano è l’album di una certa borghesia e intellettualità sinistrese che non credeva alle parole scritte, s’illudeva che i reduci più arrabbiati del Sessantotto si accontentassero di giocare con gli slogan rivoluzionari. E nello stesso tempo si attribuivano covi e prigioni del popolo alla perfidia di un potere cinico”.

Qualche giorno fa Paolo Mieli in tv ha riaperto questo nervo scoperto dell’“intellettualità sinistrese”, chiedendo perché se le stragi nere sono definite “fasciste” nelle sentenze e nelle lapidi italiane, quelle dei rossi non sono mai definite “comuniste”.

Che scandalo! Ora le Brigate sono Multicolor.

Andate a vedere la lapide in via Fani o in via Caetani a Roma: non c’è scritto da nessuna parte “Aldo Moro ucciso dalle Brigate Rosse” o dai “terroristi rossi”, mentre a Bologna c’è scritto “vittime del terrorismo fascista”.

Aveva ragione Philippe Sollers, che si scandalizzò dell’inerzia dell’intellighenzia europea di fronte alle vittime delle Brigate rosse, come se “il cadavere italiano pesasse meno dei cadaveri dei vietnamiti”.

“Ricordiamo una cosa fondamentale, il terrorismo italiano gode sempre di una situazione particolare: l'acqua in cui il pesce può nuotare” diceva Lucio Colletti, il filosofo che da comunista divenne liberale.

“Le sedicenti Brigate rosse”, “chi si nasconde dietro i brigatisti”, “trame nere all’ombra delle Br”, “fascisti mascherati”. Si potrebbe andare avanti all’infinito, ma bastano questi pochi esempi per capire la stampa italiana lesse il fenomeno terrorista. Sfogliando L’Eskimo in redazione (Edizioni Ares, 1991), un ottimo libro scritto da Michele Brambilla, si può rileggere a mente fredda un articolo molto significativo pubblicato su Il Giorno a firma Giorgio Bocca. È datato 23 febbraio 1975. Scriveva Bocca: “A me queste Br fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti”.

Mentre Bocca scriveva quel pezzaccio, le Brigate Rosse avevano già ucciso tre persone (i missini Mazzola e Giralucci e il maresciallo dei carabinieri Maritano), rapito un giudice (Mario Sossi) e organizzato l’evasione di Renato Curcio.

Ne L’ombra del Kgb sulla politica italiana - una delle relazioni di minoranza depositata in commissione Stragi nel luglio 2000 e curata dal consulente Sandro Iacometti - c’è un capitolo di un certo interesse dal titolo “La disinformazione della stampa comunista”.

In Italia è ancora come se le Brigate Rosse fossero comparse all’improvviso e non siano nate e cresciute dentro il sistema ideologico della sinistra; come se prima del passamontagna molti di loro non avessero la tessera in tasca; come se nelle aule accademiche, nelle redazioni dei giornali e nelle fabbriche non ci fossero bacini immensi di simpatizzanti e sostenitori.

Lo ricordò Massimo Bordin: “Nella prima operazione giudiziaria contro le Brigate Rosse nel 1972, moltissimi fra le decine di indagati in Liguria e Piemonte risultarono iscritti al Pci e in diversi erano della sezione di Occhieppo, in provincia di Biella, paese natale di Pietro Secchia”.

Le Brigate rosse nacquero a Pecorile, in provincia di Reggio Emilia, nell’agosto 1970 in un convegno organizzato dal gruppo uscito dalla federazione giovanile del PCI: erano presenti Curcio, Cagol, Franceschini, Gallinari, Bonisoli, tutti i nomi del terrorismo rosso.

Un accademico inglese, John Foot, ha appena pubblicato un lungo saggio sulle Brigate Rosse recensito dal Financial Times e dove si legge: “Il gruppo poteva contare sull'aiuto di radical chic, medici, avvocati e ragazzi tormentati dai sensi di colpa”.

Un terrorismo che aveva la protezione dell’élite culturale.

Alberto Franceschini ricordava la volta che entrò in un salotto “perbene”: era già un clandestino, posò il revolver su un tavolo e per un attimo ebbe paura che gli astanti si inorridissero, invece lo guardarono inebetiti di ammirazione.

E quella protezione dura fino a oggi, non sotto forma di aperto sostegno, ma di oblio selettivo, come se una specie di invisibile Minculpop rosso (non di stato, ma creato dagli stessi giornalisti) fosse entrato in funzione, facendo rivivere, in una direzione rossa opposta, le veline del ventennio mussoliniano.

Un’Italia giudicata colpevole nei tribunali, ma assolta da un’industria mediatico-culturale, che in Francia considera ancora i brigatisti come eroi romantici e non come spietati assassini.

Anthony Glees ha rivelato la “zona grigia” della Baader-Meinhof, le BR tedesche: “Nel 1977, l'Ufficio federale della polizia criminale della Germania occidentale aveva una lista di terroristi con i nomi di 4,7 milioni di sospetti e simpatizzanti, molti dei quali studenti universitari”.

Per dirla con Giuliano Ferrara, “non erano agenti provocatori, eravamo di fronte a un fenomeno sociale e politico autentico, non erano ‘lupi impazziti’ ma figli di una deriva di cultura e di follia ideologica che si era dipanata sotto i nostri occhi in mezzo a indifferenza delle maggioranze in certi ceti e ambienti e aperto consenso di minoranze estese”.

Indro Montanelli le definì “prose assetate di sangue”. E quando il 2 giugno 1977 Montanelli fu ferito dalle Brigate Rosse, il Corriere della Sera di Piero Ottone riuscì nel miracolo giornalistico di non mettere nel titolo il nome di Montanelli.

L’Italia abbiente che esaltava il “sabotaggio”, il pestaggio “educativo”, l’“obiettivo strategico” e le “strategie di riappropriazione” (nel nucleo che uccise il povero Marco Biagi fuori dall’università c’era anche la figlia di una baronessa).

La vulgata dice che il terrorismo di sinistra non era comunista, ma è stato una “risposta” allo stragismo di destra.

Lanfranco Pace, l’ex dirigente di Potere Operaio, mi raccontò che il giorno in cui rapirono Aldo Moro sulle scalinate della Sapienza di Roma ci fu un “lungo applauso”.

Era il tempo in cui, alla notizia dell’agguato di via Fani, all’uscita delle grandi fabbriche le facce erano imbarazzate. Mi pare fosse stato Giampaolo Pansa a parlare con loro. Da quell’imbarazzo emergeva netto il retropensiero che uno come Aldo Moro “se l’era meritato” (lo dicono anche oggi di Israele). “Un giovane varca il cancello quasi di corsa, mostra il tesserino alle due guardie Fiat, poi si volta rapido verso di me: ‘Scrivi: uno, cento, mille Casalegno. A me vanno bene!’”.

Soltanto le Brigate Rosse uccisero più di 80 persone. Tra le vittime delle BR, se non sbaglio, ci fu un solo comunista (il sindacalista Guido Rossa perché denunciò un brigatista), mentre la maggioranza era composta da poliziotti, carabinieri, professori, giornalisti, dirigenti aziendali, politici della DC e missini.

Eppure, si sono inventati la storia che “le vittime delle BR erano i comunisti”.

Ed è ancora tutto molto attuale.

Negli “anni di piombo” dicevano “né con lo stato democratico né con le Brigate Rosse”. Oggi i loro eredi dicono “né con Israele né con Hamas”. E come c’è chi diceva che i brigatisti erano “compagni che sbagliano”, oggi i loro emuli giustificano Hamas.

Erri De Luca ancora oggi nega che i brigatisti fossero “terroristi”, un po’ come i decapitatori di Hamas non sanno come chiamarli. Ecco, sì: li chiamano “resistenti”.

A Milano ora ci sono le manifestazioni col passamontagna e le bandiere dei terroristi.

L’ultimo episodio, scrive la Welt, è avvenuto nel quartiere berlinese di Neukölln, dove una festa di strada organizzata dal partito di sinistra Die Linke vedrà esponenti del partito condividere il palco con fiancheggiatori espliciti del terrorismo palestinese.

E quanti applausi raccolgono, i terroristi vecchi e nuovi. Ora li invitiamo anche in Parlamento e consegniamo loro le chiavi delle nostre città.

E quanta omertà nel dire “terrorismo islamico”, nel denunciare i loro crimini, nel dire che vengono dall’album di famiglia dell’Islam in mezzo a noi. Come le “sedicenti” Brigate Rosse erano rosse, il “sedicente” Stato Islamico di cui parla il Corriere della Sera è islamico.

Che senso ha riparlare di questa storia, a distanza di mezzo secolo?

Certo, siamo molto lontani (anche se non lontanissimi), da quegli orridi anni in cui due o tremila terroristi nuotarono nel mare di una compiacenza, un’affinità sentimentale e una protezione offerta da centinaia di migliaia di italiani. Certo, siamo molto lontani (anche se non lontanissimi), da quando era di gran moda la parola d’ordine “uccidere un fascista non è reato”.

Certo, siamo molto lontani da quando i giovani comunisti di Reggio Emilia ebbero in dono dai vecchi partigiani (lo ha raccontato Alberto Franceschini nella sua autobiografia) delle armi per “finire la Resistenza”.

Certo, siamo molto lontani dai tempi in cui se andavi a una cena organizzata in una delle terrazze della sinistra era immancabile che il commensale che ti stava accanto prima o poi lo dicesse, che le “Brigate Rosse” erano “compagni che sbagliano”, che sbagliavano il tempo dell’azione non il criterio e il ragionamento che la guidava.

Certo, siamo lontani da quando leggevamo qualche opuscoletto feltrinelliano rosso rosso come di roba di cui si potesse fare una traduzione simultanea e nell’oggi e in Europa.

Ho detto siamo lontani. Ma se penso a quanta comprensione riscuota oggi il terrorismo, forse mi sono sbagliato.

E sicuramente mi sarò sbagliato leggendo uno straordinario articolo di Eli Lake sulla Free Press: “L’alleanza fra progressisti e islamisti”. Le Brigate Rosse avevano già annunciato “l’alleanza naturale con arabi e islamici”.

Il comunismo per fortuna non tornerà; ma un certo terrore rosso-verde è già tornato. Manca solo che qualcuno scriva un libro dal titolo Il Corano in redazione.

La newsletter di Giulio Meotti è uno spazio vivo curato ogni giorno da un giornalista che, in solitaria, prova a raccontarci cosa sia diventato e dove stia andando il nostro Occidente. Uno spazio unico dove tenere in allenamento lo spirito critico e garantire diritto di cittadinanza a informazioni “vietate” ai lettori italiani (per codardia e paura editoriale).

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