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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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La Stampa Rassegna Stampa
03.08.2025 Per vedere cosa è un genocidio vero
Reportage di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Stampa
Data: 03 agosto 2025
Pagina: 12
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Sudan. I morti dimenticati»

Riprendiamo da LA STAMPA di oggi, 03/02/2025, a pag. 12, il reportage dal titolo "Sudan. I morti dimenticati" di Bernard-Henri Lévy.

Bernard-Henri Lévy - Concordia
Bernard-Henri Lévy
Il Sudan devastato da due anni di guerra all'ombra di alleanze locali e  internazionali - Vatican News
L’inferno della guerra civile in Sudan: 150.000 morti, 12 milioni di sfollati e atrocità sistematiche, tra cui stupri usati come arma di guerra. Il conflitto tra l’esercito regolare e le milizie di Hemetti ha devastato Khartoum e altre città, nel silenzio complice della comunità internazionale

Di tutte le guerre di cui ho scritto in cinquant'anni, questa è una delle più feroci e, senza dubbio, la più dimenticata. «Sa che questa guerra ha provocato dodici milioni di sfollati e 150 mila vittime civili?», mi chiede Suliman – ex attaché dell'ambasciata del Sudan in Francia che dallo scoppio della guerra nell'aprile 2023 si è arruolato nell'esercito e mi accompagna per la maggior parte di questo reportage. Ci troviamo nella sala degli arrivi dell'aeroporto internazionale di Port Sudan che di internazionale ha soltanto tre collegamenti teorici con Istanbul, Doha o Addis Abeba e che, per il resto, è completamente isolato dal mondo. Vi si aggirano, in un caldo irrespirabile, una moltitudine di uomini che indossano djellabe bianche immacolate, giovani ragazzi smilzi con magliette bucherellate come reti da pesca, e gatti che sbucano da sotto i nastri trasportatori dei bagagli. Chissà se sono fantasmi, come vuole una leggenda.

Del resto, che tutto questo funzioni è già un miracolo, a giudicare dai danni causati all'esterno dall'ultima grandinata di droni lanciati dal mare dall'esercito di Mohammed Dagalo, detto "Hemetti", ex cammelliere diventato generale e poi ribellatosi contro il presidente Al-Burhan. Bombe esplose contro le pareti crepate della sala delle partenze… La torre di controllo simile a un altoforno decapitato, che i governativi però hanno riparato immediatamente… E, tra i serbatoi del carburante, enormi crateri anneriti dall'incendio divampato per dieci giorni… «Centocinquantamila morti» ripete Suliman impassibile, molto british, mentre ci dirigiamo dal presidente. Si tratta di un numero superiore di almeno tre volte a quello dei morti di Gaza, penso, e nessuno – nei campus americani, tra gli amici di Greta Thunberg e altri "insoumis" – se ne è preoccupato.

Penso a queste «guerre di logica del tutto imprevista» annunciate da Rimbaud che, dopo Aden, passò da Port Sudan. Il presidente Abdel Fattah Al-Burhan mi riceve a notte fonda, in una residenza modesta e immersa nell'oscurità totale per il pericolo di droni. È alto. Indossa la mimetica. Ha il petto costellato di medaglie. E ha un profilo da condottiero del Nilo. Mi parla del presidente Macron, uno dei pochi occidentali che ha incontrato negli ultimi quattro anni e di cui non ha notizie recenti. Mi parla della difficoltà di continuare a combattere, da solo o quasi, contro un nemico che si abbandona a tutti i crimini di guerra e si scaglia contro la popolazione civile. Mi parla anche del mistero degli Emirati Arabi Uniti, un tempo uno Stato amico, così spesso dal lato giusto della Storia ma che oggi, passando dal Ciad, rifornisce invece gli assassini della maggior parte delle loro armi.

Gli contesto i rapporti con l'Iran che gli attribuiscono e che lui smentisce categoricamente: «L'Iran ha aperto un'ambasciata, nient'altro. Non ci sono esperti militari o forniture di armi, come sostiene la disinformazione degli aggressori». Gli contesto gli Accordi di Abramo che ha firmato, ma non ha ratificato: «È stata soltanto la guerra civile a rallentare il processo di ratifica e sono pronto a qualsiasi forma di cooperazione con lo Stato ebraico finalizzata alla sicurezza – contro il terrorismo, il nemico comune, che minaccia al di là del Sudan anche il Ciad, la Libia e la regione in generale». Quando mi stupisco che il ritorno alla «transizione democratica» promesso da quando è arrivato al potere nel 2019 si faccia ancora attendere, cade in un silenzio prolungato, poi si alza, mi fa segno di accompagnarlo in fondo al giardino arido e buio e, scortato da un manipolo di giovani militari armati, esce sulla corniche dove gli abitanti di Port Sudan vengono a cercare un po' di fresco. Alcuni giovani lo riconoscono. Sono decine. Ben presto centinaia. Si leva un concerto di applausi, di grida gioiose, di «Viva il Sudan!», e ha inizio un giro ininterrotto di selfie. «Eccola qui la democrazia», mi urla, con il pugno alzato. Poi, con un gesto solenne e benevolo ai presenti, dice: «Ricordate ai propagandisti, che parlano senza sapere, che Kamal Idriss, un illustre professore di diritto, è stato nominato Primo ministro e formerà un governo di civili al cento per cento!».

Il Sudan è un Paese grande. Prima della secessione del Sud, era effettivamente il Paese più grande di tutta l'Africa. Ed è nei suoi cieli – prima con un volo interno e poi a bordo di un elicottero militare che vola radente, quasi sfiorando il terreno, per evitare i missili di Hemetti quando ci si avvicina alle sue zone – che raggiungiamo Omdurman, la capitale amministrativa del Sudan e poi, sull'altra riva del Nilo, Khartoum. Come posso descrivere lo spettacolo di desolazione assoluta che si presenta ai nostri occhi? È come Bakhmut, in Ucraina, ma grande come la megalopoli che prima della guerra contava sette milioni di abitanti e di cui non si vedono ormai che donne in fila, rese scheletriche dalla carestia, che dalle prime luci dell'alba aspettano in coda aiuti umanitari che non arrivano. È come Mogadiscio, nella zona di Nubawi, dove un fiume di fuoco ha imperversato nel labirinto di strade e travolto tutto al suo passaggio, non lasciando altro che facciate di edifici e tetti di lamiera carbonizzati che scricchiolano nel vento rovente e secco. È come Phnom Penh (capitale della Cambogia), per quella sua aria di città fantasma e per il silenzio di morte che permea le zone disabitate, dove si aggirano soltanto cani pelle e ossa che ci guardano con terrificante voracità. È come la barbarie dei taliban che, nel museo nazionale, non ha fatto a pezzi statue del Buddha, bensì mummie, affreschi secolari, sculture risalenti ai regni di Kush, Kerma e Meroe. È, come a Sarajevo, la Biblioteca nazionale dove sono stati accesi falò e si è cucinato alimentando il fuoco con i documenti degli archivi catastali, testimoni del 

passato pluricentenario della città. È, come a Mosul, la Grande Moschea al Shahid, contro la quale si sono accanite le bande di Hemetti prima di indietreggiare e scappare. Khartoum è la sintesi di tutti gli "urbicidi", le devastazioni sistematiche di città di cui sono stato testimone negli anni. Probabilmente, ne è il culmine.

Nel quartiere di Ombada, ci imbattiamo in uno di quei tumuli, innumerevoli in città, che segnalano una fossa comune. Tutto attorno si è riunita una trentina di uomini. «Lì sotto», racconta uno di loro che ci ha invitato a entrare in cerchio con i presenti, «ci sono 244 corpi». Una mattina sono venuti ad arrestare delle persone, direttamente nelle loro case o nelle immediate vicinanze, dove erano uscite a cercare qualcosa da mangiare, sfinite dalla fame. Le hanno radunate qui, in questa strada dove la guerra ha lasciato soltanto macerie crivellate dai mitra e resti di torchis in paglia e argilla, gialli e neri di sangue secco. «Non dovete preoccuparvi», hanno detto loro. «Non si può vivere qui. Hemetti è qui per aiutarvi, per assegnarvi nuovi alloggi». A quel punto, sono arrivati i pick-up della sua "Force de Soutien Rapide". I chebab hanno sparato nel mucchio, come forsennati, senza dubbio sotto l'effetto di stupefacenti, urlando «Allah Akbar». Poi se ne sono andati, lasciando i corpi a marcire e a seccare sotto il sole impietoso di Khartoum, fino alla liberazione della zona, parecchi mesi dopo. Soltanto allora i vicini hanno potuto accostarsi a spargere terra e calce viva su quelle ossa diventate indistinguibili… I presenti riuniti intorno al tumulo sono loro, i vicini di casa. Indossano djellabe bianche e sciarpe colorate, le più belle che sono riusciti a trovare per rendere un misero e tardivo omaggio alle anime dei defunti. Notando per la prima volta degli stranieri, istintivamente alzano le loro djellabe sulla schiena, mostrano le cicatrici lasciate dalle frustate uno, dalle gocce incandescenti di plastica fatta colare da una bottiglia ardente un altro, dai morsi di cani un terzo. Poi si ricompongono, si rimettono in cerchio attorno al tumulo, alzano i palmi delle mani al cielo e, diretti dal più anziano, recitano la preghiera dei defunti.

In ogni caso, a quanto sembra, una delle armi preferite dagli uomini di Hemetti è lo stupro. Nana Tahir, direttrice di Planning familial, in Bader Street, ha riunito un gruppo di donne seviziate per farcele conoscere. Una alla volta – alcune a voce molto bassa, quasi con un sussurro, altre con lo sguardo vuoto e le labbra inespressive, ma in ogni caso tutte con grande dignità – ci raccontano il loro calvario come se parlassero di quello di un'altra. Ci sono madri che sono state stuprate davanti alle figlie. Figlie stuprate davanti alle madri. Stupri di gruppo, uno dopo l'altro, a ciclo continuo, sotto lo sguardo inorridito delle sorelle. Ci sono donne che sono state stuprate a casa loro. Donne trasferite in un centro 

di tortura e stuprate fino a farle impazzire. Ci sono donne alle quali è stata data la possibilità di consegnare il denaro che la famiglia avrebbe nascosto e, poiché il denaro non c'era, sono state portate via. C'è quella che urlava troppo e a cui hanno dovuto riempire la bocca prima di sabbia e poi di terra perché aveva inghiottito la sabbia. C'è quella che non si ricorda nulla e quella che ricorderà per sempre, fino alla fine dei suoi giorni, la mano viscida dell'uomo che la teneva ferma mentre un altro la violentava. E poi ci sono i figli degli stupri. «Che cosa intendete fare?», chiede tutte le volte la dottoressa Tahir. Alcune vogliono abortire perché sono sposate e non desiderano che il marito sappia, altre vogliono abortire perché non sono ancora sposate e pensano che altrimenti non troveranno mai marito. Altre ancora pensano che quella sia la volontà di Dio ma, di nascosto e contando sul fatto che la famiglia è rifugiata in un'altra zona, irraggiungibile, senza telefono, senza contatti, considerano che ci sarà sempre tempo per trovare al neonato una nuova mamma, senza che nessuno venga a saperlo. E poi c'è una coppia meravigliosa che arriva con un bebè di quindici giorni in braccio e spiega, all'unisono, che tutti e tre sono vittime di questa guerra e che insieme daranno vita a un Sudan pacificato.

La testimonianza più agghiacciante, però, deve ancora arrivare. Ci troviamo a qualche decina di chilometri a ovest di Khartoum, sulla strada di El Obeid, ultima roccaforte in mano ai governativi, nella "casa di accoglienza" al centro del villaggio. Scoppia un temporale da fine del mondo. In pieno giorno cala la notte, trafitta da sporadici lampi fosforescenti. I Saggi dei dintorni, vestiti interamente di bianco e riuniti su un diwan improvvisato, hanno convocato una decina di uomini, vittime ma anche carnefici, che hanno accettato di testimoniare. Ne illuminano il viso, uno alla volta, con il cellulare. Uno è un commerciante di metalli preziosi che, sotto minaccia, si è arruolato nella milizia di Hemetti. Un altro è entrato a farne parte di sua iniziativa, ma se ne è dissociato quando ha saputo che una sua cugina era stata portata in Darfur come schiava dopo essere stata stuprata. Un terzo è stato catturato, insieme ad alcuni amici, in un punto di accesso a Starlink, è stato arruolato a forza, è scappato in piena notte scavalcando una finestrella dell'edificio in cui era tenuto prigioniero. Tutti sono stati giudicati e reintegrati, estinta la pena, nella comunità. Ma ecco che si alza un uomo, indossa una maglietta unta, ha gli occhi privi di vita e un debito mai saldato con la giustizia umana. Ha diciassette anni. Hanno catturato anche lui. L'hanno portato in un edificio dove avevano rinchiuso 24 donne. L'hanno drogato con il Captagon e un altro stupefacente rosso di cui non sa il nome, ma che doveva essere una specie di Viagra. L'hanno lasciato lì, tre giorni e tre notti, da solo con quelle donne e un secondino che due volte al giorno portava da mangiare miglio e sorgo e, per lui, la dose delle sostanze che lo aiutavano a violentare quelle donne a ripetizione, fino a perdere il senno. Questo è il contrario di quello che dice Sartre ne I dannati della Terra: con un sasso un colpo doppio. In questo caso, ci sono 24 donne annientate e un uomo dannato per l'eternità.

È mezzanotte. Siamo tornati a Khartoum, al primo piano di una safe house senza elettricità. Fa un caldo asfissiante. Cerco di prendere sonno. Bussano alla mia porta. Nell'alone di luce del cellulare, appare un volto che riconosco subito, malgrado il suo imamah bianco annodato alto sulla testa: è un generale dell'esercito sudanese che avevo visto a Port Sudan in doppiopetto. Di lui il presidente Burhan mi aveva detto (alludendo vagamente a Mao Zedong, a cui il Sudan post-coloniale è stato vicino?) che 

era uno dei suoi «commilitoni più stretti». Non senza malizia, mi dice che «passava di là» e si offre di «riprendere la nostra conversazione». Chiede se mi sono convinto del fatto che questo conflitto – di cui è corretto dire come minimo che non «ci si capisce niente» – in fondo è assai chiaro… Se mi rendo conto che non si tratta di una «guerra tra generali rivali», come dicono gli indolenti che per questioni di principio non vogliono schierarsi… Se posso far sapere a chi di dovere che ormai sono passati molti anni (ben 32!) da quando il Sudan ha accolto Bin Laden e che oggi il Paese combatte una battaglia accanita contro Daesh e al-Qaeda che, invece, proteggono Hemetti… Più di ogni altra cosa, però, è venuto per regalarmi una visita "esclusiva" a una base segreta delle forze speciali lungo la strada di Al Fashir. All'alba siamo lì. Nella sabbia, ai piedi di una collina completamente spoglia, ci sono truppe d'assalto specializzate nella lotta ai terroristi. Sono commando di una dozzina di uomini – quelli dell'avanguardia, gli assalitori, i puntatori, i tiratori scelti, i tecnici radio, i paramedici, tutti suddivisi in modo impeccabile. Sono uomini ricoperti dalla testa ai piedi da mimetiche con foglie verdi di plastica. Sono addestrati per le operazioni di liberazione degli ostaggi, su modello dei Sas britannici, nelle foreste come nel deserto. E, a regnare in questi scenari, c'è un ufficiale elegante che usa il suo bastone come in un romanzo di Kipling: il comandante Hafiz El-Tag. «L'esercito sudanese avrà la meglio nella guerra contro le orde di Hemetti», dice. «Restano però i terroristi, che questi bastardi hanno fatto uscire di prigione quando hanno occupato Khartoum e che, alleati con gli islamisti del Sahel, farebbero di questa grande distesa che va dal Mar Rosso alla Libia e al Ciad una temibile zona burrascosa. Sono loro che noi combattiamo».

Viene segnalata un'infiltrazione, a pochi chilometri di distanza, in un piccolo borgo di cui non farò il nome. Il generale Hafiz El-Tag, che riceve il messaggio forte e chiaro, invia immediatamente uno dei suoi commando. E là, ad accoglierci, c'è un'unità locale di questa "forza congiunta" di cui sento parlare dal mio arrivo, senza capire di che cosa si tratta. Poi, all'improvviso, capisco. Sono membri delle tribù Zaghawa, Masalit e Fur, identificabili dal turbante che indossano al posto del berretto regolamentare. In passato, appartenevano ai gruppi secessionisti del Darfur. C'è il generale Ali Mokhtar, con il cappello da boscaglia a tesa dritta e rialzata che continua a usare dagli anni in cui combatteva nella guerriglia. Insomma, sono i sopravvissuti, o i figli, dei gruppi ribelli di cui mi sono occupato nel 2001 e nel 2007, quando per Le Monde seguivo la guerra dei Monti Nuba e poi del Darfur. Riconoscendo nelle colonne di Hemetti gli eredi dei Cavaliers à cheval e dei Janjawid – che già all'epoca non sapevano fare altro che uccidere a colpi di machete, incenerire, saccheggiare –, si sono uniti all'esercito governativo. Osservo Ali Mokhtar e i tre commando salire le scale dell'edificio dove si sospetta che si sia infiltrato un tiratore scelto. Guardo questi uomini che, calata la sera, fuori dal centro abitato, fraternizzano sedendo attorno a uno spiedo di agnello, in un uadi secco simile a un'arena di ciottoli, rovi e sabbia indurita. Li ascolto evocare le storie del passato, quando alcuni erano guerriglieri che portavano grandi cartuccere in vita e al collo, altri erano soldati regolari. A vent'anni di distanza, è come se qui dialogassero e confluissero le due stagioni che ho trascorso in Sudan. Ma, più di ogni altra cosa, qui i due Sudan si riconciliano a fronte di un nemico comune che non conosce altra politica al di fuori della terra bruciata. Il mio viaggio è concluso, rientro in Europa. Questa terra intrisa di sangue e di sofferenze, questo Sudan dalle mura e dalla civiltà più antiche di quelle dei faraoni, questo popolo alleato e amico, meritano di meglio 

del silenzio assordante che circonda la loro tragedia. Rifiutarsi di capire è vergognoso. Aprire gli occhi è doveroso.

Traduzione di Anna Bissanti

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