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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Riformista Rassegna Stampa
30.05.2025 L’ebraismo diventa peccato originale. Una rappresaglia contro gli israeliani
Commento di Joseph di Porto

Testata: Il Riformista
Data: 30 maggio 2025
Pagina: 4
Autore: Joseph di Porto
Titolo: «L’ebraismo diventa peccato originale. Una rappresaglia contro gli israeliani»

Riprendiamo dal RIFORMISTA di oggi, 30/05/2025, a pagina 4, il commento di Joseph di Porto  dal titolo: "L’ebraismo diventa peccato originale. Una rappresaglia contro gli israeliani".

Joseph di Porto
L'antisemitismo è come un fiume carsico, sembra passato, ma in realtà riemerge ogni volta che scoppia un conflitto in Medio Oriente. Bisogna vigilare e stare attenti ai suoi simboli e al suo linguaggio. Palestina "Dal fiume al mare" vuol dire che si vuole distruggere Israele. E accusare Israele di "genocidio" (che non c'è!) è un altro modo di istigare alla violenza contro gli ebrei.

L’antisemitismo è come un fiume carsico. La storia ci dimostra che quel fiume continua a scorrere, nascosto, pronto a riaffiorare nei momenti di crisi. Ci eravamo illusi che la costruzione di una memoria condivisa dopo la Shoah lo avesse prosciugato. Purtroppo la violenza di questo fiume in piena ci ha travolto, a partire dal brutale attacco del 7 ottobre contro civili israeliani da parte di Hamas, fino alla risposta militare a Gaza e alle sue tragiche conseguenze.

Ogni conflitto che coinvolge Israele diventa, puntualmente, il pretesto per il riemergere di sentimenti antiebraici. Non si tratta più – o non solo – di critiche legittime al governo israeliano: ciò che riemerge è una pretesa insidiosa e inaccettabile che vuole che ogni ebreo della diaspora prenda posizione, si dissoci, giustifichi o condanni, quasi che la sua identità personale fosse una variabile politica. Si tratta di un meccanismo collettivo che trasforma l’ebraismo da religione o cultura a categoria di colpa, legittimando e rafforzando una retorica collettiva che non distingue tra individuo e Stato, tra cittadino e governo, tanto più se quell’individuo non è neanche un cittadino israeliano. In questo contesto, assistiamo non solo a un ritorno dell’antisemitismo, ma a una sua normalizzazione. I fatti di cronaca di queste ultime settimane, dal rappresentante dell’Unione dei Giovani Ebrei a cui è stato impedito con la forza di parlare in un’università italiana, sino al duplice omicidio di una coppia di giovani ebrei a Washington, non sono tragici incidenti ma un campanello d’allarme. Sono sintomi di un clima sempre più tossico, dove la legittima critica si è trasformata in linciaggio morale, e dove la memoria è divenuta uno strumento da piegare a esigenze ideologiche.

Nella narrazione pubblica, la strage del 7 ottobre sembra essere già stata archiviata, sostituita da una rappresentazione del conflitto dove le responsabilità di Hamas vengono spesso taciute o minimizzate. Si parla – giustamente – delle sofferenze dei civili palestinesi, ma troppo spesso senza tenere conto della strumentalizzazione che Hamas fa della propria popolazione, né del suo ruolo diretto nella perpetuazione del conflitto. La memoria del 7 ottobre non può essere rimossa dal discorso pubblico solo perché complica le narrazioni semplificate. In gioco non c’è solo la verità storica, ma anche la sicurezza e la dignità di milioni di ebrei nel mondo. Ogni rimozione è una distorsione. Ogni silenzio è una forma di complicità.

Criticare il governo israeliano è legittimo. Tuttavia, occorre saper distinguere tra critica e demonizzazione, tra opposizione politica e delegittimazione esistenziale non solo di una nazione (Israele) ma di un intero popolo, quello ebraico. Occorre vigilare sul linguaggio, sui simboli, sulle narrazioni. Le parole hanno un peso, e quando il dissenso si esprime con termini assoluti – “genocidio”, “apartheid”, “colonialismo” – senza sfumature né contesto, si alimenta un clima che legittima l’odio. Ogni volta che un politico o un docente paragona Israele al nazismo, non solo tradisce la verità storica, ma avvicina di un passo il prossimo atto d’odio, legittimando qualsivoglia gesto, anche violento, perché ritenuto necessario alla lotta contro l’oppressore sionista/nazista.

In questo scenario, non basta più invocare la memoria della Shoah, soprattutto se questa memoria viene usata in modo selettivo o parziale. Non possiamo permetterci che l’antisemitismo continui a scorrere indisturbato sotto la superficie. La memoria non è un esercizio formale, ma una responsabilità attiva, che chiede di essere esercitata ogni giorno, anche – e soprattutto – nei momenti più difficili.


redazione@ilriformista.it

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