Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Su Repubblica, Luigi Manconi accusa Israele di genocidio Commento faziosissimo di Luigi Manconi su La Repubblica
Testata: La Repubblica Data: 28 maggio 2025 Pagina: 1/17 Autore: Luigi Manconi Titolo: «Una voce contro il massacro»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA, del 27/05/2025 a pag. 1/17, con il titolo "Una voce contro il massacro" il commento di Luigi Manconi.
"Sudari per Gaza", per Luigi Manconi, di Repubblica, manifestare contro Israele è un dovere morale. Un articolo di commento pieno zeppo di retorica antisionista, a partire dal titolo "una voce contro il massacro" (di Israele, si intende, di Hamas manco si parla). "Gaza è la vergogna di ciò che chiamiamo Occidente" esordisce Manconi, riprendendo un tema tipico del terzomondismo. E prosegue con la solita scusa: "Trovo insopportabile che qualsiasi critica intransigente verso la politica militare del governo di Benjamin Netanyahu nel teatro di Gaza e Cisgiordania possa essere definita come espressione di antisemitismo". Qualsiasi critica a Netanyahu, magari no, ma accusare il governo israeliano di genocidio (accusa falsa come le Pasque di sangue) è antisemitismo. E poche righe sotto è lo stesso Manconi a dire: "È certo che la guerra di Netanyahu si avvicini pericolosamente a un progetto genocidario". E per oggi è tutto da La Repubblica, secondo quotidiano d'Italia (e quanto ci manca Maurizio Molinari alla sua direzione!)
Una manifestazione non può fermare il massacro, ma se il massacro continuerà nel silenzio e nell’ignavia di tanti non potrà che riprodurre all’infinito nuove stragi. Gaza è la vergogna di ciò che chiamiamo Occidente, ma se non saremo in grado di far sentire la nostra voce per «limitare il disonore» (Piergiorgio Bellocchio) non sarà una sconfitta, ma una disfatta morale senza scampo. Una manifestazione è un segno, un grido, un gesto collettivo che lancia l’allarme, richiama l’attenzione, fa risuonare “l’ira dei mansueti”. Va raccolto e al più presto — davvero non c’è tempo da perdere — quel sentimento di angoscia che da mesi cresce nel cuore e nella mente dei tantissimi che l’orrore rischia di annichilire in una postura di impotenza: e va tradotto, quel sentimento, in mobilitazione, cortei, sit-in, mani che si stringono, striscioni e bandiere che si alzano, slogan ma anche preghiere, canti ma anche meditazione. E che possa incentivare una riflessione radicale che faccia chiarezza e consenta di chiamare le cose con il proprio nome e di restituire alle parole la loro verità profonda, contribuendo con ciò a «disarmarle» (Leone XIV). Provo a farlo, a mia volta, con il massimo di umiltà.
Per capirci, disarmare le parole, non significa semplicemente stigmatizzare gli insulti indirizzati a Giorgia Meloni o a Elly Schlein, che altro non sono che l’ordinaria efferatezza del lessico politico, adeguato a tempi ancor più efferati e al linguaggio primitivo e smandrappato delle reti sociali. E c’è poco da fare per porvi rimedio. Solo l’usura alla quale il tempo condanna questa lingua violenta potrà forse attenuarne la brutalità. Ma qui, ci si riferisce ad altro.
A qualcosa, cioè, di ancora più potentemente micidiale, capace di alterare il senso delle idee e di rovesciarne il significato.
E allora consideriamo due categorie oggi quanto mai diffuse. Trovo insopportabile che qualsiasi critica intransigente verso la politica militare del governo di Benjamin Netanyahu nel teatro di Gaza e Cisgiordania possa essere definita come espressione di antisemitismo. Con questa logica nefasta dovremmo considerare antisemita Liliana Segre quando dice di «provare repulsione» verso l’esecutivo che governa attualmente Israele. La netta distinzione tra un popolo e le sue istituzioni e, tanto più, il suo governo, è un fondamento della cultura democratica e della concezione liberale dello Stato di diritto.
Anche solo limitare questo essenziale diritto di critica, compresa la più aspra, significa far propria una concezione autoritaria dei sistemi democratici. È invece proprio delle democrazie mature tutelare lapiù ampia libertà di espressione, così come è dovere irrinunciabile della dialettica democratica circoscrivere il giudizio politico ai fatti e alla responsabilità dei fatti, senza mai estenderlo e generalizzarlo: ovvero farne uno stigma per un popolo o per una etnia o per un ceto sociale. Ma da questo punto di vista anche altre parole e altri concetti vanno manovrati con la massima delicatezza. Di conseguenza ritengo che ricorrere alla categoria di genocidio per quanto viene perpetrato a Gaza è un grave errore: o meglio, ancor più che un errore è una scelta superflua. E non è affatto una questione nominalistica. Non c’è dubbio alcuno che il governo e l’esercito di Israele continuino a compiere crimini di guerra e crimini contro l’umanità. E la forma ultima di questa sciagurata politica — l’uso della carestia come strumento di guerra — segnala un salto in avanti, e una rottura etica, difficilmente rintracciabili nella storia del secondo dopoguerra.
Mi spiego: credo di essere tra i pochi che hanno avuto modo di visitare tutti i centri italiani di detenzione per migranti irregolari; e di aver denunciato le condizioni disumane in cui vivono le persone lì trattenute. Tuttavia non ho mai voluto utilizzare per quei luoghi ignobili il termine lager.
L’intero linguaggio che fa riferimento alla strategia nazista contro gli ebrei, i dissidenti politici, i comunisti, gli omosessuali, i rom e i sinti, i testimoni di Geova e altri gruppi va riservato a quella immane tragedia (e ad altre come quelle dell’Armenia, del Ruanda, della Bosnia e della Cambogia). È certo che la guerra di Netanyahu si avvicini pericolosamente a un progetto genocidario, ma ancora non si registrano tutti quei requisiti che la rendano inequivocabilmente tale. E su questo mi conforta l’autorevolezza scientifica dello storico Marcello Flores. Ma soprattutto penso che utilizzare, ribaltandola, la lingua della Shoah per meglio condannare il governo di Israele corrisponda a banalizzare l’enormità della Shoah stessa e ciò che essa rappresenta nella storia millenaria della persecuzione degli ebrei. E soprattutto perché mai non ritenere sufficienti, per esprimere la massima riprovazione, le categorie e i capi di imputazione che rientrano nei reati previsti dal diritto internazionale di crimini di guerra e crimini contro l’umanità?
Accusare il governo di Israele di simili empi misfatti non mi sembra in alcun modo una attenuante per le sue imperdonabili responsabilità. Mi sembra, piuttosto, attribuirgli una colpa terribile e incancellabile, senza minimamente ridurre la portata dell’immenso dolore che gli ebrei hanno patito nei secoli e che ha avuto nella Shoah il suo passaggio più crudele. E significa, appunto, ridare alle parole la loro verità: in assenza della quale non c’è morale e non c’è politica.
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