Un filmato recuperato dall’esercito israeliano durante le operazioni nella Striscia di Gaza mostra sei ostaggi israeliani mentre cercano di accendere le candele della festa di Hanukkah in un tunnel con scarso ossigeno. I sei ostaggi sono Hersh Goldberg-Polin, 23 anni, Eden Yerushalmi, 24 anni, Ori Danino, 25 anni, Alex Lobanov, 32 anni, Carmel Gat, 40 anni, e Almog Sarusi, 27 anni. Il filmato risale al dicembre 2023. Otto mesi dopo, il 29 agosto 2024, all’approssimarsi delle Forze di Difesa israeliane al tunnel sotto il quartiere di Tel Sultan, a Rafah (Striscia di Gaza meridionale), tutti e sei gli ostaggi furono assassinati con un colpo alla testa dai terroristi palestinesi.
Tradurre l’ebraico con Elena Loewenthal Recensione di Lucia Esposito
Testata: Libero Data: 21 gennaio 2024 Pagina: 24 Autore: Lucia Esposito Titolo: «Vi racconto la storia (d'amore) dell'ebraico»
Riprendiamo da LIBERO di oggi 21/01/2024, a pag.24, con il titolo "Vi racconto la storia (d'amore) dell'ebraico", la recensione di Lucia Esposito.
Lucia Esposito
S'intitola "Breve storia (d’amore) dell’ebraico" (Einaudi, pp.117, euro 12), ma non è né una grammatica dell’ebraico né un manuale di linguistica e non è neppure- come precisa la quarta di copertina- una «storia organica e filologicamente corretta di questa lingua antichissima». "Breve storia (d’amore) dell’ebraico" di Elena Loewenthal è il racconto di un’innamorata che lungo centodiciassette pagine svela i tesori di quest’idioma contagiando il lettore con la passione di chi, dopo più di quarant’anni, riesce ancora a stupirsi di fronte a certi suoni e a certi segni. È anche la confessione di come il lavoro di traduzione dall’ebraico all’italiano sia un corpo a corpo con ogni singola parola, una sfida estenuante e affascinante perché l’ebraico è essenziale eppure complesso, perché ogni volta spiazza il traduttore con un’accezione mai considerata in precedenza o una sfumatura sconosciuta, perché bisogna mettersi sempre in ascolto della eco che risuona oltre ciascuna lettera. Tradurre la lingua della Bibbia è come scavare a mani nude in una miniera e recuperare nuova materia viva e incandescente. «In questo libro», precisa l’autrice «racconto non una, ma due storie d’amore: quella per l’ebraico e quella per la traduzione».
Alla fine di questo viaggio non avrete imparato l’ebraico e forse non ricorderete neanche una delle tante parole di cui Elena Loewenthal- scrittrice, traduttrice e studiosa di storia e letteratura ebraica - racconta ma, come scrive lei stessa, saprete «qualcosa di più su come è possibile amare una lingua di un amore fatto di luce, senza tenebre».
E vi resterà il desiderio di rincorrere l’ebraico lungo i millenni e ritrovarlo proiettato nel futuro.
Per provare a raccontare questa lingua in poche righe partiamo da quello che non ha. Non ha le maiuscole e le minuscole («è democratica»), non ha la punteggiatura, i verbi così come li intendiamo e nemmeno le vocali nel testo scritto. «L’ebraico ha un sistema ingegnoso, codificato e flessibile al tempo stesso per combinare le lettere dell’alfabeto e dare senso al tutto.
L’universo semantico si fonda su delle radici formate da tre consonanti.
Ci sono cose in ebraico che lasciano talvolta a bocca aperta. Invitano a porsi davanti alla realà in un modo nuovo. Il silenzio, ad esempio, in italiano lo chiamiamo soltanto così, mentre l’ebraico conosce tre radici che dicono silenzio Wee •M*o,n SHQT, SHTQ e DWN. Sheqet è il silenzio di pace, shetiqah è il silenzio imposto, quando diciamo: zitti! Dom è il silenzio abissale. Quello del cosmo e talvolta di Dio. Come nella frase che è la più bella di tutto il racconto biblico, la voce del silenzio – qol demamah daqah. Questo è il silenzio che esprime la rivelazione divina perché Dio non è nel tuono o nella tempesta, ma lì, in quella “voce che è silenzio sottile”, in cui sta forse racchiusa tutta la poesia di sempre, in ogni lingua...». L’ebraico si legge e si scrive da destra verso sinistra. «Per chi non è mancino questo significa trovarsi davanti alla pagina bianca. Il Talmud dice che il testo va esplorato non solo nei capitoli, nelle frasi, nelle parole, nelle lettere e nei pezzi delle lettere ma anche - e forse soprattutto - negli spazi bianchi tra una lettera e l’altra. Lì, non meno che nel nero dell’inchiostro, si nasconde il senso. Questo si esercita in ebraico sia nell’infra-righe del testo, ma anche nel corsivo che stacca una lettera dall’altra. La scrittura non è mai un continuum ma un intercalare di segno scritto e di silenzio della pagina bianca», spiega Loewenthal.
Elena Loewenthal
È una lingua antichissima che è rinata un secolo e mezzo fa senza essere mai morta (il libro ripercorre la storia della sua «rinascita») ma è costantemente aperta al futuro. «È formidabile nella sua capacità di creare neologismi. Quando si è dovuto creare la parola per dire “treno” dopo millenni in cui l’ebraico era una lingua usata per la liturgia e la letteratura, si è applicato un suffisso nuovo alla radice che nella bibbia indica “carro”, “cavaliere”. Per noi è difficile da pensare, ma non esistono tempi del verbo. C’è un imperfetto che viene comunemente usato come futuro perché è un’azione in fieri e poi c’è un tempo perfetto che viene chiamato tempo passato. Il presente è solo in forma participiale: è una condizione, non è un’azione. Non dici “io mangio” ma “io mangiante”. L’ebraico dà molte sfide traduttive. L’italiano è una lingua così articolata nei modi e nei tempi di verbi che, a volte, bisogna anche prendersi delle libertà. Quando traduco un autore come Amos Oz, per esempio, non posso negargli tutte le potenzialità dell’italiano. Allora mi metto nei panni dello scrittore e faccio questo esercizio, se vuoi di incoscienza, immaginando cosa avrebbe usato dell’italiano se avesse scritto in italiano. Più un autore è grande, più è facile da tradurre perché la grande letteratura ti avvolge, ti conduce in qualche modo. L’esperienza più travolgente è stata certamente la traduzione di Una storia d’amore e di tenebra di Oz. L’ebraico è una lingua spiazzante e strabiliante in cui il significato sta solo in minima parte in ciò che è nel testo, il resto è tutto da esplorare». E alla fine del libro non conoscerete l’ebraico ma avrete voglia di mettervi sulle sue tracce.
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