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Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 04/01/2023, a pag.1, con il titolo "Il fattore Corea del Nord" l'analisi di Giulia Pompili.
Il Pyongyang pub, aperto in uno dei vicoli del popolare quartiere universitario di Hongdae, a Seul, tra una escape room e un posto per fare foto ottimizzate per Instagram, un paio di anni fa era diventato molto popolare. Al suo posto, oggi, c’è un pub dai colori pastello che si chiama Battery 88. Ma del Pyongyang pub ne aveva parlato perfino la Cnn: per la prima volta, nella capitale sudcoreana, apriva un ristorante-bar che ricordava lo stile nordcoreano, non solo per il cibo ma anche per i poster attaccati alle pareti, l’insegna con le figure classiche della propaganda del Nord. Niente di apologetico, ma un’esperienza di avvicinamento a una realtà che per molti ragazzi sudcoreani è distante e incomprensibile – nonostante quasi tutti al Sud abbiano almeno un lontano parente al Nord. Il Pyongyang pub ha aperto nell’estate del 2019, quando il vecchio proprietario del locale, il signor Kim, ha capito che il ristorante giapponese non avrebbe attirato molti clienti, ma nel 2019 al governo c’era ancora il presidente Moon Jae-in, l’uomo della Sunshine policy, della politica d’apertura verso il Nord, e quindi tutto sembrava possibile: “La mia idea è promuovere il business, non il regime”, aveva detto al Korea Times il gestore del locale. Ma il primo avvertimento gli era arrivato dalla polizia pochi mesi dopo l’inaugurazione: il signor Kim era stato costretto a rimuovere bandiere rosse e blu nordcoreane dal locale, così come i ritratti dei defunti leader Kim Il Sung e Kim Jong Il. Poi, nell’aprile del 2021, è stato costretto a chiudere il locale per violazione della Legge sulla sicurezza nazionale, una legge che mette al bando, di fatto, qualsiasi rilancio o promozione degli ideali nordcoreani. Da qualche mese, per entrare in Corea del sud, si deve firmare un documento in cui si assicura di non avere con sé nessun materiale di propaganda nordcoreana – una voce che è nella lista dove sono menzionate anche le armi da fuoco e le sostanze radioattive: può essere considerato materiale sensibile sia una t-shirt con la faccia di Kim sia un libro sulla cultura nordcoreana. Finita l’èra di tentativi diplomatici e di dialogo dell’ex presidente sudcoreano Moon Jae-in, con l’arrivo alla presidenza del conservatore populista Yoon Suk-yeol i controlli e la reazione contro chi mostra un atteggiamento amichevole nei confronti della Corea del nord si sono ulteriormente inaspriti. La Corea del sud sembra di nuovo divisa tra chi vorrebbe più dialogo – senza ottenere mai, però, dei veri progressi sull’apertura di Pyongyang – e chi vorrebbe un atteggiamento più duro, che punisca il regime e lo costringa a cedere – gli osservatori internazionali aspettano e prevedono la fine del regime dei Kim periodicamente da più di settant’anni: non ci sono mai andati nemmeno vicini. L’incomunicabilità tra Nord e Sud, la cortina di ferro che dalla fine della Seconda guerra mondiale divide ancora questa penisola, negli ultimi mesi è tornata a essere un problema internazionale. Pyongyang e Seul, che sono ancora tecnicamente in guerra dato che il conflitto del 1950-1953 finì soltanto con un armistizio e non con un trattato di pace, stanno aumentando gli atti e le parole ostili. Già da qualche tempo è ricominciata un’escalation – per via della quale il Pyongyang pub è solo un danno collaterale – che rischia, nel corso dell’anno che verrà, di far tornare la tensione nel Pacifico di nuovo ai livelli del 2017, l’anno del “fire and fury” dell’allora presidente americano Donald Trump, e la situazione potrebbe precipitare all’improvviso se Kim decidesse di portare a termine il suo settimo test nucleare, pronto ormai già da mesi. Il problema è che la comunità internazionale dimentica spesso la Corea del nord, e il suo ruolo cruciale negli equilibri asiatici. I suoi missili non fanno più nemmeno notizia. Eppure, nel corso del 2022, Pyongyang e il suo leader, Kim Jong Un, hanno effettuato un numero record di test missilistici: oltre novanta. Un salto di qualità rispetto all’anno precedente, quando erano stati soltanto otto. In realtà non si parla più nemmeno di test, perché la Corea del nord non ha più bisogno di sperimentare il suo arsenale con quella frequenza, dicono gli esperti. Quelle nordcoreane, soprattutto negli ultimi mesi, sono state prove di guerra e di operabilità dell’arsenale missilistico. Solo sabato scorso il Nord ha lanciato tre missili balistici a corto raggio, poi ha sparato da un lanciarazzi mobile alcuni proiettili dal calibro “super grande” (così li ha definiti l’agenzia di stampa ufficiale nordcoreana, la Kcna). Secondo la Difesa sudcoreana sarebbero una nuova arma simile a lancia missili da terra a corto raggio – con una potenziale gittata che coprirebbe l’intera penisola. Qualche ora dopo, domenica 1° gennaio, la Corea del nord ha lanciato un missile balistico a corto raggio nel Mare orientale. I missili sono serviti a dare concretezza alle parole pronunciate dal leader Kim Jong Un sabato scorso, alla fine di una riunione del Partito del lavoratori di Corea di fine anno. Kim ha detto che la Corea del sud resta “di sicuro il nemico”, e ha chiesto a difesa del Nord un “aumento esponenziale” nella produzione di armi e testate nucleari tattiche. “La nostra forza nucleare ha come prima missione quella di dissuadere dalla guerra e di salvaguardare la pace e la stabilità e, tuttavia, se non riesce a dissuadere, svolgerà la seconda missione, che non sarà di difesa”. La linea vitale che tiene in piedi il regime di Kim – che guida il paese più sanzionato del mondo – arriva dalla Russia e dalla Cina. E la guerra del Cremlino contro l’Ucraina, l’asse di sostegno ideologico tra Mosca e Pechino, non ha fatto altro che avvicinare Kim Jong Un a Vladimir Putin e Xi Jinping. Non ci sono soltanto le armi che secondo gli Stati Uniti Pyongyang starebbe vendendo alla Russia, ma anche la retorica bellicista inizia a essere collegata: la minaccia nucleare, più volte evocata da Putin contro l’Ucraina (e l’occidente) inizia a essere sempre meno credibile ma più provocatoria per il regime di Kim. Per questo si parla sempre di più di una deterrenza di pari livello da parte della Corea del sud e del suo principale alleato, l’America: ieri Seul ha fatto circolare l’ipotesi di esercitazioni militari congiunte con Washington che coinvolgano anche armi nucleari, ipotesi smentita subito dopo dal Pentagono. Ma il problema di come fermare l’aggressività nordcoreana e l’eventuale escalation resta. Dopo la chiusura del Pyongyang pub, a Seul restano aperti diversi ristoranti nordcoreani, la maggior parte locande anonime e con prezzi particolarmente bassi, i cui clienti sono per lo più rifugiati nordcoreani in cerca di un piatto di noodle freddi tipici di Pyongyang. Sin dal 1998, quando la Corea del sud ha iniziato a tenere traccia di chi scappava dal Nord, sarebbero almeno 33.800 i nordcoreani rifugiati al Sud della penisola. Ogni volta che la tensione aumenta tra le due Coree, per loro la vita si fa più difficile: oltre alla quotidiana discriminazione, c’è chi vuole togliergli i sussidi, chi li considera buoni a nulla, parassiti. Non è difficile sentire storie di insegnanti o genitori che raccontano leggende mostrificanti sui nordcoreani. Uno dei ristoranti del Nord più famosi al Sud è il Neungra Bapsang: alle pareti ci sono le fotografie di Hillary Clinton e di Michelle Obama con Lee Ae-ran, fondatrice e proprietaria del locale. Cinquantanove anni, Lee è arrivata dalla Corea del nord a Seul nel 1997 con una figlia di quattro mesi, dopo anni trascorsi in un campo di lavoro a causa dei suoi nonni, considerati dal regime del Nord dei traditori. “Quando sono arrivata qui ho capito che non c’era gente cattiva che moriva di fame, come mi avevano detto”, aveva raccontato al Foglio Lee durante una conversazione nel suo ristorante a novembre. “Lentamente ho iniziato a realizzare che il governo sudcoreano non era così cattivo”. Lee è la prima nordcoreana ad aver preso un dottorato in Corea del sud, alla prestigiosa università Ewha in Scienze dell’alimentazione: ha iniziato lavorando nelle assicurazioni, e poi nel 2009 è riuscita ad aprire il suo ristorante. Oggi assume soltanto rifugiate nordcoreane, per dargli una possibilità – la maggior parte dei fuggitivi dal Nord sono donne, perché sono meno controllate nella quotidianità. Lee è una conservatrice, vuole la riunificazione soprattutto in senso politico, cioè “quando la Corea del nord sarà pronta ad abbracciare un sistema democratico di libero mercato”, ma conosce alla perfezione il meccanismo di propaganda che permea le menti, e sa quanto in una guerra – anche in una guerra di propaganda e di mostrificazione – alla fine a rimetterci siano sempre e soltanto le persone. “Per questo dico sempre ai nordcoreani che arrivano qui: lavorate sodo. Anche se vi discriminano, anche se la situazione politica cambia, voi lavorate sodo e soltanto così potrete avere successo”. Nel ristorante di Lee Ae-ran, dopo i noodles e i bindaetteok, la frittella di fagioli mungo, si beve il “caffè Obama”, di cui Lee è molto orgogliosa: “E’ quello che servimmo quando Obama venne qui, al Seoul Nuclear Security Summit”. Era il 2012, e la leadership di Kim Jong Un, salito al potere dopo la morte del padre pochi mesi prima, agli analisti americani sembrava prossima al fallimento. Sbagliavano. A più di dieci anni di distanza, Kim Jong Un è uno dei più grandi e pericolosi enigmi della politica internazionale.
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