Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 04/01/2023, a pag.1, con il titolo "Ansia di guerra in Iran", l'analisi di Cecilia Sala.
Cecilia Sala
Roma. Ieri era il terzo anniversario dell’uccisione del generale Qasem Soleimani con un drone americano e per l’occasione le città iraniane erano state tappezzate con la sua immagine: l’allestimento non è rimasto integro per molto perché, nella notte, piccoli gruppi di manifestanti con il volto coperto da foulard o passamontagna le hanno imbrattate con lo spry nero o le hanno strappate dalle pareti per poi bruciarle con l’accendino. Tre anni fa, nella città conservatrice di Mashhad, quella della Guida suprema Ali Khamenei e del presidente della Repubblica isalmica Ebrahim Raisi, le donne appendevano pezzi di lenzuola rosse al posto di quelle nere ai davanzali delle finestre: segnalavano che la voglia di vendetta aveva la priorità anche sul senso del lutto. Ieri a Mashhad un ragazzo ha appeso un lenzuolo con scritto: celebriamo il giorno in cui sei diventato “kotlet”. “Kotlet” significa polpetta, è il soprannome che i manifestanti hanno dato al generale. La Repubblica islamica oggi è più isolata di quanto sia mai stata negli ultimi decenni e, allo stesso tempo, più vicina che mai a ottenere un’arma atomica. Le relazioni diplomatiche con l’occidente si sono rarefatte o sono state sospese quando, a settembre, i droni suicidi iraniani Shahed sono comparsi in Ucraina dalla parte dei russi e Mahsa Amini è morta nelle mani della polizia religiosa. Le minacce implicite che Vladimir Putin ha pronunciato ripetutamente, a partire dal 21 settembre, come reazione ai fallimenti del suo esercito, hanno incrinato un tabù condiviso sulle armi atomiche. Il programma nucleare iraniano ha subìto un’accelerazione nell’ultimo anno ed è la terza dopo quella di gennaio 2020 (quando è stato ucciso Soleimani) e novembre 2020 (quando è stato assassinato lo scienziato pasdaran padre del programma nucleare Moshen Fakhrizadeh): per gli esperti il dossier potrebbe trasformarsi in una crisi internazionale in qualsiasi momento. In Israele si è appena insediato il governo più a destra della storia del paese ed è tornato Bibi Netanyahu. Da primo ministro aveva già provato attivamente a impedire un accordo sul programma atomico di Teheran a cui partecipasse Washington e la decisione di Donald Trump, nel 2018, di abbandonare quello firmato da Barack Obama era avvenuta su suo consiglio e richiesta. In questo momento Bibi non ha bisogno di sforzarsi: la posizione internazionale dell’Iran si è deteriorata così rapidamente che nessun paese occidentale sembra avere voglia nel prossimo futuro di stringere patti con gli ayatollah. Gli Stati Uniti si ritrovano di fronte a un dilemma che hanno a lungo cercato di evitare: stare a guardare davanti ai progressi sul nucleare di Teheran che hanno già raggiunto soglie utili solo per l’impiego militare e inutili a quello civile, o accettare la possibilità (che Israele si incarichi) dell’opzione militare. Alla fine di dicembre il capo delle Forze armate israeliane Aviv Kohavi ha detto: “Il nostro livello di preparazione per un’operazione in Iran è migliorato notevolmente. Vi dirò di più: siamo pronti per il giorno in cui verrà dato l’ordine di agire e adempiremo alla missione assegnata”. L’ex ministro di Bibi, Tzachi Hanegbi, ha pubblicato un editoriale su Yedioth Ahronoth in cui scrive che: “Il fuoco interiore di Netanyahu è la sua spinta a contrastare l’immenso pericolo posto all’esistenza di Israele dal programma nucleare iraniano. E’ concentrato su questa missione da oltre 20 anni e ora il momento della verità per lui si avvicina”. E poi: “In assenza di azione da parte del leader del mondo libero, il leader del popolo ebraico dovrà scegliere tra resa e deterrenza. Deterrenza significa usare qualsiasi mezzo a nostra disposizione per rimuovere questo male”. Il giorno dopo, in un’intervista al canale Channel 12 News, Hanegbi ha detto che Netanyahu avrebbe agito contro i siti nucleari in Iran durante questo mandato. Per alcuni analisti politici israeliani quello che Bibi comincia a 73 anni d’età potrebbe essere il suo ultimo mandato e quindi l’ultima l’occasione da sfruttare per passare alla storia come l’uomo che ha demolito con la forza la minaccia iraniana. La previsione tiene conto anche del fatto che la Repubblica islamica non è mai stata così debole e sola. La Russia, il primo paese a cui Teheran in tempi normali chiederebbe protezione, è impelagata nei suoi problemi economici in casa e in quelli militari in Ucraina, e con la guerra ha perso influenza internazionale anche se l’obiettivo era guadagnarne. La Cina stringe accordi sul petrolio con i sauditi (mentre l’Iran avrebbe disperato bisogno di vendergli molti più barili del proprio) nel momento in cui la Repubblica islamica dice che i manifestanti sono scesi in piazza perché hanno subito “il lavaggio del cervello” dai media della dissidenza in lingua persiana di proprietà saudita. Fino a quattro mesi fa l’Amministrazione Biden poteva dire a Israele: accantona l’opzione militare, lascia fare a me con quella diplomatica. E a Gerusalemme aveva un governo più disponibile ad ascoltare questo ragionamento rispetto a quello che si è appena insediato. Oggi che anche la Casa Bianca dice che il Jcpoa (il nome dell’accordo in gergo tecnico) non è più sul tavolo, gli argomenti da controbattere a Bibi sono meno. In realtà gli esperti militari che credono che l’aviazione israeliana sia pronta da subito a bombardare i siti nucleari d’Iran, che sono tanti, disseminati in punti lontani gli uni dagli altri su tutto il territorio e ben protetti dai missili della contraerea e dalle fortificazioni sotterranee in cui sono custodite le centrifughe, sono pochi. Ma i militari ci stanno lavorando in velocità e accelereranno ancora con il governo Netanyahu. Nel discorso di fine anno ai cadetti dell’Aeronautica il ministro della Difesa uscente Benny Gantz aveva detto di stare pronti perché potrebbe toccare a loro bombardare l’Iran in un paio di anni. Anche la Repubblica islamica, pur potendo in qualsiasi momento raggiungere il livello di arricchimento dell’uranio che serve alla bomba atomica, avrebbe bisogno – se ci fosse la volontà politica di farlo – di almeno due anni per ottenere il prodotto finito, montato sulla testata di un missile balistico. Alcuni think tank internazionali e la rivista Foreign Policy mettono l’Iran tra i paesi in cui aspettarsi un possibile conflitto già quest’anno. Lo scenario temuto per il 2023 è che qualcuno dei partecipanti al Jcpoa chieda l’attivazione della clausola snapback, ad esempio in reazione alla vendita illegittima di droni suicidi a Mosca da parte dell’Iran. Lo snapback è stato creato nel 2015 con la risoluzione 2231 votata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e utilizzarlo significa che l’Iran non vivrebbe più solo sotto sanzioni occidentali ma sarebbe punito con quelle dell’Onu. Teheran abbandonerebbe di conseguenza il trattato internazionale di non proliferazione: quella sarebbe l’occasione di Israele per agire.
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