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Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 24/08/2022, a pag. 14, con il titolo "I russi mi hanno torturato e hanno ucciso il mio vicino. Voglio che il mondo veda" la cronaca di Marta Serafini.
«Non mi piace stare qui dentro. Vi ci ho portato solo perché voglio che il mondo veda cosa hanno fatto. A noi e a questa povera città». Poco più di 20 mila anime, a Trostyanets tutto ruota intorno alla fabbrica di cioccolato che dà lavoro alla maggior parte della popolazione. Oblast di Sumy, uno dei più colpiti dalla guerra. A soli 40 chilometri dal confine con la Russia. È qui che i soldati di Putin sono entrati il 1° marzo. Ed è qui, in un sotterraneo sotto la stazione che, dal 16 al 25 marzo, Sasha F. è stato detenuto e torturato dai militari di Mosca. «Sono venuti a cercarmi a casa», racconta, con il sole di fine agosto che gli tramonta dietro le spalle. «Sono un meccanico, aggiusto ogni cosa, tutti mi conoscono in città perché sono bravo a smanettare. Cosi mi hanno accusato di aver dato le loro posizioni ai nostri militari. Ed era vero, lo facevo e lo rifarei cento volte». Sasha viene trascinato in una cella di 2 metri per 3 proprio sotto la stazione. Ed è qui che ci chiede di accompagnarlo. «Ve la mostro». Nella stanzetta buia l’aria è ancora irrespirabile per l’odore di urina. La luce non funziona. Grazie alla torcia del cellulare Sasha illumina una serie di macchie marroni sul muro. «Sono le tracce di sangue lasciate dalle nostre teste quando ce le sbattevano sul muro». Sasha non sa dire con esattezza quanti erano i detenuti nella sua cella. «Ero sempre bendato, mi tenevano così in quest’angolo». Si siede e mostra la posizione in cui è stato per nove lunghi giorni. «Era così», chiude gli occhi. Si dondola per un po’. Poi salta in piedi. «Voglio andare via». Sasha ha bevuto. Chiede una sigaretta. Ha parlato con gli investigatori di quanto è accaduto. «Ho già detto all’Sbu (i servizi ucraini, ndr) e alla polizia». All’aria aperta affiorano altri ricordi. «I russi che passavano di qui erano almeno un centinaio. C’era anche una donna, lo capivo dal rumore dei passi. Lo so perché ho un buon udito, ho fatto il deejay da ragazzo proprio lì». «Lì» è un edificio a un piano, completamente distrutto, dall’altra parte della piazza. «Un giorno ci hanno trascinato fuori, vicino a questa inferriata». Indica. «Ci sparavano vicino alle orecchie per divertirsi poi ci riportavano in cella». Il racconto si ferma. Sasha si accende un’altra sigaretta. «Il ragazzo di fianco a me lo hanno ucciso. Ha cercato di reagire e così lo hanno picchiato a morte. Lo conoscevo, ho scoperto dopo. Era un atleta, per quello forse ha cercato di usare la forza. Sentivo il suo respiro affievolirsi con il passare dei giorni. Poi è morto». Il sole ormai è ormai tramontato. Nella officina di Sasha, tra la carta moschicida e pezzi di metallo giocano due piccoli mici rossi. «Vi presento Biba e Boba». È da loro che Sasha è tornato quando i russi se sono andati il 25 marzo. «Ero legato mani e piedi con un cavo come questo», mostra mentre si lega da solo con una spessa fascetta metallica. «Ma piano piano sono riuscito a sfilare una mano e a liberarmi, poi ho aiutato gli altri a fare altrettanto», spiega mentre mostra ancora i segni sui polsi. Da quel giorno sono passati cinque mesi. «La nostra città è ancora distrutta, vedete. Non c’è lavoro, hanno bombardato anche la fabbrica di cioccolato perché i russi ci tenevano dentro i mezzi militari». Il buio ormai ha avvolto tutta Trostyanets. «Sasha stai bene?». Una donna si affaccia nell’officina. Sul volto la preoccupazione di una madre. Sul tavolo, un paio di vasi di sottaceti. La bottiglia vuota, solo le ciotole di Biba e Boba sono piene. «Ti porto da mangiare». E per un attimo gli occhi di Sasha, prigioniero dei russi per nove giorni, la smettono di inseguire le ombre sul muro.
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