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Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 23/08/2022 a pag.16 con il titolo 'Sei mesi di lotta per la libertà' l'analisi di Francesco Semprini.
Francesco Semprini Volodymir Zelensky Sei mesi fa l'Europa si svegliava in guerra. Sei mesi fa l'Occidente prendeva atto che molto sarebbe cambiato, dall'ordine mondiale alla quotidianità spicciola. Sei mesi fa Vladimir Putin pronunciava il suo primo discorso da leader belligerante, sancendo di fatto la sua irreversibile scelta geopolitica, mentre Volodymir Zelensky faceva un ultimo appello di pace, rivolgendosi in russo ai russi. Sei mesi fa il capo del Cremlino, dopo aver ammassato per mesi truppe ai confini con l'Ucraina, con l'aiuto del bielorusso Aleksandr Lukashenko, dava ordine alle forze armate di invadere l'Ucraina, non solo puntando sul Donbass, storica terra contesa, bensì marciando con foga e azzardo su Kiev, in quella che ha definito con toni imprudentemente trionfalistici «operazione speciale militare». Sei mesi fa iniziava la guerra in Ucraina, istantanea di una nuova cortina di ferro, sei mesi il cui compimento sancisce un'unica certezza, la fine del conflitto non è vicina. Sei mesi durante i quali sono state uccise oltre 50 mila persone, per lo più militari russi, ma anche 5 mila civili, di fatto tutti ucraini. A cui si somma il dramma degli sfollati: l'Unhcr (l'agenzia Onu per i rifugiati) ha registrato oltre undici milioni di valichi di frontiera in uscita dall'Ucraina verso il resto d'Europa, di questi 4,7 milioni sono rientrati nel Paese. La guerra è la prosecuzione fisiologica del conflitto iniziato nel 2014, quando le incursioni dei russi al fianco dei separatisti nell'Est del Paese portò all'annessione della Crimea e alla creazione delle Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk vicine al Cremlino. Le ostilità non sono mai realmente terminate proseguendo in un conflitto a bassa intensità (dimenticato dalla comunità internazionale) che ha covato sotto le ceneri il braciere dell'odio e della rabbia. Al punto tale da far riemergere il conflitto vivo, come un fiume carsico pronto a esondare nel cuore dell'Europa. Non accadeva da quasi ottant'anni. Un conflitto funzionale a un Risiko che si sta rivelando di portata assai più ampia, come mostrano le schermaglie nei Balcani, e forse è solo l'inizio. Putin era convinto che la sortita di febbraio sarebbe durata poco, che la Russia avrebbe non solo occupato il resto del Donbass, ma che l'Ucraina sarebbe stata azzerata, prima militarmente e poi politicamente, mettendo alla guida un uomo di fiducia, nell'ambito di quell'opera di "denazificazione" decantata per spiegare l'inevitabilità dell'invasione. La guerra lampo per la "liberazione" di Kiev è fallita. Il lacerante e drammatico assedio della capitale, culminato con le atrocità di Bucha, Irpin e Borodyanka si è chiuso con il ritiro e la riconversione delle truppe verso obiettivi a portata di un esercito, quello di Mosca, che ha mostrato segnali di obsolescenza, non solo negli armamenti, ma anche in tattica e strategia. Soprattutto, Putin e gran parte del mondo avevano sottovalutato la determinazione degli ucraini a combattere, le forze armate di Kiev non erano più quelle del 2014. Il Cremlino non si aspettava inoltre una risposta e un sostegno tanto granitico da parte dell'Occidente e della Nato. È stato infine determinante il "fattore Zelensky": Mosca lo dava in esilio già il primo giorno di guerra, esfiltrato dalla Cia o dall'Mi6, così come Ashraf Ghani aveva abbandonato l'Afghanistan con i taleban alle porte di Kabul. E invece così non è stato, Zelensky ha indossato (letteralmente) i panni del comandante in capo, è rimasto motivando uomini e donne, civili e militari a resistere, apparendo ogni giorno sui media o in streaming, rivolgendosi a leader e consessi internazionali, andando al fronte a visitare i combattenti, mentre Spetznatz e ceceni erano impegnati in una complessa quanto vacua caccia al presidente ucraino. Tramontato il sogno di vedere i carri armati con la Z sfilare a Maidan, i russi hanno virato verso Est e Sud nell'ambito di una strategia più praticabile che ha segnato l'inizio della seconda fase del conflitto. Caratterizzata dalla spinta di Mosca a conquistare buona parte del Donbass da cui rimangono escluse le aree di Sloviansk e Kramatorsk. Ma è anche stata la fase dell'invio di armi più potenti da parte dell'Occidente e dell'inizio di recuperi circoscritti da parte degli ucraini, specie sul fronte meridionale di Kherson. Il caldo torrido dei mesi estivi ha di fatto "congelato" il conflitto che, in attesa della insidiosa stagione delle piogge, potrebbe riprendere già dopo questo triste anniversario con una nuova fase, la terza, segnata da controffensive delle forze di Kiev nel Sud, ma anche da una nuova spallata russa ad Est. Il rischio è che la guerra di logoramento sulle due direttrici diventi estenuante e non produca vittorie, maturando compromessi confusi. La certezza è che, per ora, Mosca e Kiev (con l'avallo Usa) non hanno nessuna inclinazione al cessate il fuoco, "mancano i presupposti". A questo si sovrappone il terrore di un incidente nella centrale nucleare di Zaporizhzhia, da marzo sotto il controllo dei russi che vi hanno dispiegato truppe ed equipaggiamenti. Il sito è stato teatro di uno scambio di fuoco con tanto di missilistica e ciò ha amplificato il timore di un incidente radioattivo che possa contaminare una vasta porzione di territorio. È quanto ha sottolineato dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, nella sua visita della settimana scorsa proprio a Odessa durante la quale ha esortato i russi a collaborare con gli ispettori dell'Aiea (l'agenzia Onu del nucleare). La città portuale è tuttavia anche simbolo di speranza, teatro di uno dei rari successi diplomatici messi a segno in questi sei mesi di conflitto. Guterres ha mediato mesi interi per un accordo volto a riaprire i porti del Mar Nero chiusi a febbraio, e lo ha fatto con l'aiuto della Turchia di Recep Tayyip Erdogan che ha lavorato di sponda coi russi. È ripresa così l'esportazione dei prodotti agricoli ucraini (e anche russi), principalmente il grano, evitando una grave crisi alimentare che avrebbe travolto Africa e Medio Oriente. Ed è l'immagine delle navi cariche di derrate in partenza da Odessa il punto di partenza per nuovi accordi, si spera, presupposto di un cammino verso la tregua che proceda parallelamente al decorso militare del conflitto. È un azzardo dire quanto tempo serva, dipenderà dal reale stato di salute della Russia che sfugge ai più grazie alle operazioni di "make up" del Cremlino, ma anche da quanto sarà ancora granitico il supporto a Kiev da parte dell'Occidente. Negli Stati Uniti c'è un sostegno bipartisan, l'ipotesi però che con le elezioni di metà mandato sbarchi in Congresso il manipolo di candidati trumpisti vittoriosi alle primarie repubblicane, potrebbe tradursi in un cambio di passo in nome dell'America First. L'Unione Europea a sua volta è a favore di una politica piuttosto dura nei confronti di Mosca e a favore di Kiev. Alcuni dei grandi attori, come la Germania, sono tuttavia più divisi e nei prossimi mesi ci sarà un test importante per il cancelliere tedesco Olaf Scholz, in base alla scelte di Putin sulla fornitura di gas naturale alla Germania. Col rischio di un effetto contagio amplificato dalle vicende interne agli altri Paesi membri e, soprattutto, dall'imminente arrivo di un temibile alleato storico di Mosca, il "generale inverno".
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