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Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 12/06/2014, a pag. 3 dell'inserto, l'articolo di Roberto Della Seta dal titolo "Un antisemitismo molto sociale".
Roberto Della Seta Il pacifismo è di sinistra? Per come si manifesta oggi sicuramente sì: la sua aspirazione etica fondativa, eliminare la guerra dalle "abitudini" sociali di Homo sapiens, risponde a un'idea solidale, egualitaria, cooperativa, non-violenta dei rapporti tra gli individui e tra i popoli che è squisitamente e immancabilmente di sinistra. Così, nel tempo attuale i movimenti pacifisti quasi sempre e quasi dovunque si percepiscono e sono percepiti come "di sinistra", tanto più che le logiche contro cui si battono - il militarismo, le concezioni che vedono nella guerra una via magari estrema ma accettabile per perseguire obiettivi politici ("la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi", sintetizzava von Clausewitz due secoli fa) - appartengono con altrettanta evidenza al novero delle idee "di destra". E però spesso in passato, nel corso del Novecento, la storia ha segnato vistosi rovesciamenti di questo schema. E' accaduto in parte nell'immediato dopoguerra con il movimento dei "partigiani della pace", promosso dai partiti comunisti nei paesi occidentali e che declinava il pacifismo come opposizione alla Nato, eretta a emblema dell'imperialismo occidentale, e sostanziale sostegno all'Unione sovietica, e negli anni della decolonizzazione e poi della guerra americana in Vietnam quando dichiararsi pacifisti voleva dire opporsi alle guerre dell'occidente nei paesi di quello che allora si chiamava "Terzo mondo", ma significava anche appoggiare attivamente le "lotte di liberazione" armate e poi, nel caso del Vietnam, la guerra antiamericana di vietnamiti del nord e vietcong. Qui come nel caso dei "partigiani della pace", la sinistra si professava pacifista ma il suo no alla guerra non scaturiva tanto da un ideale non-violento, quanto dalla convinzione che la guerra fosse lo strumento utilizzato dal mondo occidentale per riaffermare la propria egemonia globale e impedire l'indipendenza delle ex colonie. Pochi decenni indietro, tra i due conflitti mondiali, l'equazione tra pacifismo e sinistra era entrata in una crisi radicale.
La storia dell'idea pacifista nei primi quarant'anni del Novecento è fatta di due tempi tra loro inconfondibili. C'è un prima che negli anni della decolonizzazione dichiararsi pacifisti voleva dire opporsi alle guerre dell'occidente nei paesi del "Terzo mondo", ma significava anche appoggiare attivamente le "lotte di liberazione" armate riva fino alla Grande guerra, c'è un dopo che giunge al cuore della Seconda guerra mondiale. Per il movimento socialista europeo di inizio secolo, raccolto nell'Internazionale socialista, la guerra era sempre e comunque un regolamento di conti tutto interno al capitalismo. Il pacifismo socialista non nasceva da un principio etico, prepolitico, di rifiuto della violenza, anzi teorizzata dal marxismo come mezzo pressoché indispensabile per giungere al fine rivoluzionario, ma rifletteva la convinzione che la guerra tra capitalismi oscurasse, ritardasse la "guerra" di classe del proletariato alla borghesia. Lo scoppio del conflitto cancellò questa "unità pacifista" dei socialisti: in Francia, in Inghilterra, in Belgio, in Olanda, i partiti socialisti entrarono nei governi di "union sacrée" scegliendo di anteporre per il tempo eccezionale della guerra europea la "nazione" alla "classe" (altri partiti, come quello italiano e quello tedesco, e quasi dappertutto le correnti "massimaliste" nei diversi paesi, rimasero attestati su posizioni di "neutralità"). Nei primi anni del secolo, ancora, nel movimento socialista apparve e si sviluppò una seconda, seppure minoritaria, linea di tendenza negli atteggiamenti verso la guerra: in particolare nella sinistra socialista e soprattutto in Francia e in Italia prese corpo, alimentata dal pensiero di Sorel e del sindacalismo rivoluzionario e ulteriormente rafforzata dall"`esempio" della Rivoluzione d'ottobre, l'idea della guerra come evento "intrinsecamente" rivoluzionario, che avvicinerà molti dirigenti politici, sindacalisti, intellettuali socialisti ad approdi prima nazionalisti e poi interventisti. In Italia questo cammino "revisionista" condurrà in più di un caso ex socialisti a passare "dal rosso al nero" aderendo al fascismo. Fino alla Prima guerra mondiale il pacifismo rimane peraltro una delle più solide espressioni ideali, politiche, del "pensare di sinistra". Così pure lungo tutti gli anni Venti, durante i quali semmai il sentimento pacifista si allarga ben al di là della sinistra, reso tanto più intenso e pervasivo dalla memoria recente dei lutti e delle sofferenze portate all'Europa dalla Prima guerra mondiale. Poi cambia tutto. Con l'Italia e la Germania conquistate dai fascismi, con la Spagna dilaniata dalla guerra civile tra repubblicani e militari filofascisti, il pacifismo rimane fortemente in campo ma sempre di più si contrappone, nella sinistra che nel frattempo si è divisa tra socialisti e comunisti, non ad un generico rischio di nuova guerra, ma all'antifascismo: all'idea che fermare Mussolini, soprattutto fermare Hitler, fosse un obiettivo vitale per il movimento socialista e per l'Europa, un obiettivo che veniva prima anche dell'impegno per scongiurare un'altra guerra in Europa.
La scansione tappa per tappa di questo confronto tra socialisti (nei partiti comunisti ogni dialettica interna era impedita dall'incondizionata fedeltà all'Unione sovietica) mostra un crescendo drammatico di contrapposizioni e reciproche scomuniche. Prima tappa la guerra di Spagna, con l'aspra discussione tra fautori e avversari di un sostegno diretto delle democrazie europee alla "resistenza" dei repubblicani spagnoli contro i ribelli guidati da Francisco Franco. Discussione quanto mai concreta in Francia dove nella primavera del `36 le sinistre avevano vinto le elezioni e dove il governo era guidato dal leader socialista Léon Blum. Blum diventerà poi tra i socialisti francesi il capofila dell'antifascismo "prima di tutto", ma nel `36 il suo governo sceglierà una politica di "non intervento" in Spagna sia pure affiancata da una dichiarata solidarietà con gli antifranchisti: "In un colpo solo - scriveva il segretario generale del partito Séverac -verrà scongiurato il pericolo che noi non abbiamo mai smesso di denunciare e che consisterebbe nel vedere la guerra civile in Spagna trasformarsi a poco a poco in guerra internazionale". Fino alla guerra la Francia rimarrà l'epicentro dello scontro politico e ideologico tra pacifismo e antifascismo. Nel rifiuto che i "pacifisti integrali" oppongono a qualunque scelta dei governi democratici che dia pretesti a Hitler per scatenare un nuovo conflitto in Europa, il pacifismo si mescola a un sempre più radicato anticomunismo: "Per lottare contro il pericolo che l'orgoglio dei paesi totalitari fa correre alla pace mondiale - così Séverac all'indomani dell'Accordo di Monaco -, si popone di unire gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia e di aggiungere la Russia, che tuttavia non è un paese meno totalitario della Germania e dell'Italia". Sempre in Francia lo scoppio della Seconda guerra mondiale trasformò la lotta politica tra pacifisti e antifascisti in una tragica resa dei conti. Il 4 maggio 1939 Marcel Dèat, capo dei socialisti "moderati" della Union socialiste républicaine nata anni prima da una scissione del Partito socialista e già ministro nel governo Blum, firma sul quotidiano L'OEuvre un articolo intitolato "Mourir pour Dantzig?", sostenendo che sarebbe inaccettabile sacrificare la pace in Europa per difendere i diritti della Polonia sulla città baltica rivendicata dai tedeschi: "Non si tratta di cedere alle mire di conquista di Hitler, ma lo dico con chiarezza: scatenare la guerra in Europa per Danzica è un'assoluta esagerazione, e i contadini francesi non hanno alcuna voglia di morire per i Poldevi". "Poldéves" era il nome di un popolo immaginario: la parola era stata inventata anni prima da un giornalista vicino alla destra nazionalista per prendersi gioco pubblicamente dell'abitudine della sinistra "cosmopolita" di farsi paladina anche del più sperduto e sconosciuto popolo del mondo. Per buona parte dei socialisti francesi "pacifisti integrali", la guerra e poi la quasi immediata disfatta della Francia furono la premessa di una scelta di campo irrevocabilmente filonazista. Itinerari analoghi, ma assai meno legati all'alternativa pace-guerra, seguiranno alcuni ex dirigenti comunisti francesi che avevano lasciato il Partito comunista nel corso degli anni Trenta, a cominciare da Jacques Doriot che nel 1936 aveva dato vita al Parti populaire français dichiaratamente fascista.
Il 10 luglio 1940, quando i tedeschi hanno già occupato Parigi, la Camera e il Senato francesi riuniti a Vichy votano i pieni poteri al maresciallo Pétain perché firmi un immediato armistizio con Berlino e dia vita a un governo "amico" della Germania. 569 i voti favorevoli su meno di 700, tra questi 90 parlamentari socialisti, quasi tutti già da anni "pacifisti integrali", che nel nome della pace con Hitler accettano la nascita - nella parte di territorio francese non direttamente occupata dai tedeschi, con capitale Vichy - di un regime "satellite" di Berlino. Molti di loro avranno ruoli di primo piano nella Francia "vichyssoise", non solo stato-vassallo della Germania ma organizzata su basi ideologiche fasciste e attivamente impegnata anche nella persecuzione antiebraica: così Déat, che sarà ministro del Lavoro con Pétain e capo del Rassemblement national populaire, uno dei principali partiti collaborazionisti; così Georges Dumoulin e René Belin che erano stati ai vertici del sindacato socialista; così Paul Faure che dal 1920 al 1940 aveva guidato da segretario generale il Partito socialista; così Charles Spinasse che era stato ministro dell'Economia nel governo delle sinistre guidato da Léon Blum; Per questi e per decine di altri collaborazionisti con un passato socialista e pacifista, l'adesione a Vichy sarà una via senza ritorno, Alla Liberazione saranno esclusi a vita dal Partito socialista, i più coinvolti nel pétainismo subiranno processi e severe condanne. Pacifista da sempre ed ex socialista era anche Pierre Laval, l'altro uomo-simbolo accanto a Pétain del regime collaborazionista di Vichy, che a cavallo della Prima guerra mondiale era stato parlamentare socialista e poi negli anni Venti e Trenta si era affermato come leader "moderato". Nel 1932, quando era primo ministro, il settimanale Time gli aveva dedicato una copertina proclamandolo "uomo dell'anno" per il suo impegno a favore della pace in Europa. Dieci anni dopo, nel `42, per lui una seconda copertina su Time: questa volta come "uomo di Hitler". Laval sarà fucilato per alto tradimento il 15 ottobre 1945.
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