Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 01/07/2019, a pag. III il commento "Il Venezuela è diventato un inferno" tratto dal Washington Post.
Nicolas Maduro
Il viaggio di 350 miglia per Bogotá è allo stesso tempo una marcia forzata e un pellegrinaggio”, scrive Michael Gerson del Washington Post in un reportage dal confine tra Colombia e Venezuela: “Gli uomini e le donne sono spinti dalla fame e dalla disperazione in Venezuela e sperano in un nuovo inizio in Colombia, Ecuador, Perù o altrove. A questo punto della crisi venezuelana, molti uomini sono già partiti in cerca di lavoro e le famiglie ora li seguono percorrendo una enorme distanza in ciabatte e con dei vestiti poco adeguati alle temperature fredde della montagna. I bambini trascinano i propri bagagli, e le madri tengono in braccio i neonati che piangono. Alcune organizzazioni umanitarie hanno installato dei centri di assistenza lungo la strada che forniscono ristoro agli emigranti. ‘Non c’è lavoro e non c’è da mangiare (in Venezuela)’, mi dice una donna a El Diamante: ‘Non riesco a comprare il latte e i pannolini’. Il presidente dell’organizzazione umanitaria World Vision U.S., Edgar Sandoval, che ha vissuto in Venezuela da ragazzo, mi spiega che ‘un tempo molte persone emigravano in Venezuela alla ricerca di una vita migliore. Oggi sono ancora in contatto con alcune persone nel paese, e mi raccontano che l’accesso all’acqua è difficoltoso, alcuni svolgono vari viaggi al giorno con una carriola per prendere quanto basta per soddisfare i loro bisogni’. Il Venezuela è un leader mondiale nella produzione della disperazione. Nei primi anni Duemila il dittatore socialista Hugo Chávez aveva creato un sistema in cui il cibo, l’istruzione e la sanità erano gratis, e venivano finanziati dai proventi del petrolio. Il calo del prezzo del petrolio ha fatto precipitare il sistema di sussidi. I poveri e la classe media in Venezuela erano rimasti solo con i loro stipendi, il cui valore è diminuito con l’iperinflazione. La paga minima in Venezuela è pari a 6 dollari al mese, e un chilo di grano vale un quarto di quella cifra. Aggiungi i blackout, gli ospedali senza garza o antidolorifici, la mancanza di carta igienica e gas per cucinare… Inoltre c’è un regime che resta al potere attraverso oppressioni brutali, sostenute dalla violenza della guardia nazionale. Il risultato è un paese da cui oltre 4 milioni di persone hanno deciso di scappare. La maggior parte dei rifugiati venezuelani scappano dal ponte Simón Bolívar al confine con la Colombia. Coloro che hanno ricevuto dei bonifici dai parenti all’estero possono permettersi un viaggio in autobus verso la propria destinazione. Ai più poveri non resta che camminare tra le montagne, elemosinare o farsi trasportare oltre il confine. Al Colegio La Frontera, una scuola pubblica in Colombia frequentata perlopiù da ragazzi venezuelani, ho conosciuto una rifugiata di 13 anni chiamata Jhedye. Prima di fuggire, si arrangiava vendendo ananas abusivamente e pagando della mazzette alla polizia se colta in flagrante. Questo è ciò che è diventato l’esperimento chavista in Venezuela: l’impiego di energumeni armati per reprimere delle bambine impoverite. Un futuro migliore richiede la fine di un regime crudele, corrotto e incompetente. Ma nel frattempo l’emergenza umanitaria è acuta e in grande espansione. Le organizzazioni umanitarie lavorano ai limiti delle loro risorse. E i venezuelani proseguono il loro difficile viaggio”.
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