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Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 10/06/2018, a pag.2 con il titolo "In Tunisia nella città dei morti 'Reclutati dai boss per affogare'" il reportage di Niccolò Zancan Finalmente un servizio che aiuta a capire chi si nasconde dietro al tanto sbandierato 'aiuto umanitario' usato per coprire la mafia dei mercanti di uomini in Europa. Dopo questa indagine, sarà difficile continuare a scrivere -come è avvenuto finora - le menzogne che hanno coperto la verità sulle migliaia di morti in mare. Ce lo auguriamo, ma non ne siamo sicuri, le Ong che li proteggono godono di protezioni altissime.
Dalla piccola città di Al-Hammah sono partiti in settantaquattro e sono affogati in quarantuno, tutti ragazzi. Amici. Disoccupati. «Avrebbero dovuto almeno organizzare un funerale di Stato», dice il signor Ben Farah Adouni seduto su una sedia di plastica davanti al muro di casa. «Ma per il governo tunisino i nostri figli non valgono niente da vivi e niente neppure da morti. I trafficanti vengono a cercarli qui. Entrano nei caffè. Raccolgono i soldi. Sono come un’azienda. L’unico sbaglio di Tarek è stata la sua voglia di scappare da questa vita catastrofica». La notte è veramente buia se non la illumini. Davanti a casa della famiglia Adouni c’è un vecchio motorino scassato. Le donne stanno sedute sul pavimento al piano terra, escluse da qualsiasi conversazione. Al primo piano, la stanza del figlio. Tarek Adouni la divideva con i fratelli maggiori Mohammad e Kaissar. Sul letto di destra, hanno steso un paio di jeans tagliati al ginocchio, una maglietta grigia e un cappellino del Barcellona come una specie di simulacro. Il suo è uno dei tredici cadaveri già restituiti a questa città, l’ultimo l’hanno trovato ieri mattina davanti alla spiaggia di Mahdia. «Tarek mi aiutava a vendere abiti usati al mercato», dice il padre circondato dai parenti. «Potevo dargli al massimo 15 dinari al giorno, 5 euro. Mio figlio ha sbagliato. Non doveva andare. Ma capisco perché è partito. Abbiamo mangiato insieme durante il Ramadan e in pochi giorni è cambiato tutto». Il naufragio della notte del 2 giugno continua a restituire altre vittime: 80 morti in totale, per adesso. Qui ad Al-Hammah, ovunque ti giri incontri un amico, un parente o uno scampato. Si erano pigiati in 190 su un barca di sette metri. Lo scafo si è spezzato dopo due ore di navigazione quando l’Italia sembrava vicina. La maggior parte dei ragazzi affogati era partita da questo reticolato di case senza intonaco, da questa città satura di preghiere e rabbia. L’elenco è provvisorio: Ridha Adouni, Tarek Adouni, Ammar Adouni, Rafik Sboui, Hamza Khriji, Mohamed Zemzmi, Aymen Zemzmi, Anis Chniba, Ahmed Hfidhi, Ibrahim Hadaji, Oussama Daghsni, Riadh Khlifi, Akil Meddeb. Non ci sono più. Il nulla di Al-Hammah Per arrivare dall’aeroporto di Tunisi bisogna percorrere cinque ore di autostrada in direzione Sud. Da un lato il mare, dall’altra un nulla piatto e infinito dietro cui va a cadere il sole. All’altezza di Gabes, dopo i silos di un cementificio: un bivio. Quaranta chilometri verso l’interno, direzione Algeria. All’improvviso, c’è una grande porta decorata che indica l’ingresso. Ma dietro quella porta, è difficile vedere la città. Al-Hammah ha 52 mila abitanti. A parte la fabbrica di mattoni e le taniche di benzina di contrabbando che arrivano dalla Libia, a parte il succo di palma ricavato con delle cannucce conficcate nei tronchi e l’hammam da cui discende il nome, non c’è altro. Ragazzi. Motorini scassati. Sedie di plastica. «Non importa», dice il signor Kamel Adouni davanti a un altro muro senza intonaco. «Mio figlio Ammar doveva restare qui. Doveva fare qualsiasi lavoro. Anche andare a spaccare pietre. Almeno sarebbe ancora vivo. Ma quei mafiosi sono venuti a portarlo via. Dicono che l’Europa è il paradiso, e poi li fanno affogare. E il nostro governo? Non ha fatto nulla. Sono partiti in 190 e non se ne sono nemmeno accorti. Mio figlio mi ha telefonato dall’isola di Kerkennah. Gli ho ordinato di non farlo, e lui sembrava convinto. Se solo avessi capito che non mi stava dicendo la verità, sarei andato a tirarlo fuori con le mie mani da quella barca». «Tornerò in mare, ancora» Le donne separate degli uomini, i vecchi dai giovani. Al Caffè Al-Quds, che in arabo significa Gerusalemme, due televisori trasmettono una serie sul Ramadan. Un ragazzo ha la maglietta dell’Inghilterra. Un altro quella con la scritta: «One way hope». Puoi bere caffè, acqua o aranciata. Puoi incontrare due sopravvissuti allo stesso tavolino. Uno si chiama Wael Ferjani, 22 anni, per quattro ore è rimasto abbracciato a una tanica vuota che fluttuava alla deriva. «Tornerò in mare, tornerò ancora», dice adesso con un sorriso assurdo. Ha i capelli rasati di lato e la faccia da calciatore. «La barca era troppo piccola. Si è spezzata a metà. Si è salvato solo chi ha trovato qualcosa per galleggiare, oppure è riuscito a rimanere sul relitto. Il comandante è stato salvato da un gommone. L’abbiamo visto andare via, mentre urlavamo di aiutarci». L’altro sopravvissuto ha 32 anni, il suo nome è Mahfoudh Lassoid: «Il boss aveva già portato altre sessanta persone in Italia. Erano salve. Allora abbiamo pensato che potevamo farlo anche noi. Ha mandato qui uno dei suoi uomini. Ha girato tutti i caffè per la raccolta. Ha preso i telefoni di quelli che volevano partire». Mahfoudh Lassoid parla infervorato con gli occhi fuori dalle orbite, e si scusa in continuazione. «Non riesco più a dormire. Non riesco più a mangiare. Scusa. Non puoi vivere quando hai visto morire tutte quelle persone». Portano altri caffè al tavolo, altre aranciate. È l’una di notte, ci saranno cento persone ad ascoltarlo. «Quando abbiamo avuto l’ok, siamo andati al porto di Sfax sui pulmini statali, un po’ alla volta per non attirare l’attenzione. Di notte, ci hanno caricato sulle barche dei pescatori, schiacciandoci sotto, vicino al motore. Dopo un’ora siamo arrivati sull’isola di Kerkennah. Ci hanno raggruppati tutti in una casa, dove siamo rimasti per quattordici giorni, i vivi e quelli che sarebbero morti. Io ero con loro. Capisci? Scusa. Scusa tanto. Duecento persone nascoste in una casa. E se volevi una maglietta dovevi pagarla 10 euro. Se volevi dell’acqua dovevi pagare il triplo. Ti offrivano tutto. Anche la droga». L’attesa serviva per raccogliere i soldi del viaggio. «Non puoi portarli con te. Se la polizia ti ferma, capisce le tue intenzioni e ti arresta. Da Kerkehnnah, abbiamo chiamato casa. Devi farli arrivare con Manda Manut, una specie di money transfer. Io avevo lasciato 3700 dinari esatti a mio padre, 1200 euro. È andato lui a spedirli». Nessuna notizia dei trafficanti Dopo il naufragio, il ministro dell’Interno tunisino Lotfi Brahem è stato rimosso dall’incarico. Licenziato il capo della polizia del distretto di Sfax, rimossi per negligenza alcuni poliziotti sospettati di corruzione. Ma dei trafficanti non si hanno notizie. Al-Hammah è lontana eppure vicina a tutto. La Primavera Araba era nata da questi parti. Nella Tunisia interna. Dove c’è solo la grande compagnia dei fosfati di Gafsa, con gli operai che hanno appena organizzato l’ennesimo sciopero. Chiedono l’aumento del salario perché il loro potere d’acquisto è sempre più basso. Il prezzo di un pacchetto di sigarette Roayale è triplicato. Ma sono triplicati anche i dipendenti della compagnia, a fronte di un crollo della produzione. Quei posti di lavoro servono per contenere la rabbia. I ragazzi di Al-Hammah sono tagliati fuori anche da questo. Vivono nella città dove il futuro vengono a vendertelo i trafficanti di uomini o i terroristi. «Tornerò anche io in mezzo al mare», dice Mahfoudh Lassoid. «Lo faccio per una ragazza tedesca conosciuta a Djerba, sono innamorato di lei, si chiama Julie. Lo faccio per me. Perché non ne posso più di questa città dove non c’è niente. Tu ci staresti qui?». Alle due di notte sono ancora tutti fuori. Senti una preghiera lontana e il pianto di una donna nel buio, da una casa in disgrazia vicino al nuovo supermercato. È una delle madri dei ragazzi perduti di Al-Hammah. 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