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Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 09/01/2018, a pag. 21, con il titolo "Il segreto di 'Lale' tatuatore dei nazisti", il commento di Andrea Tarquini.
Era il tatuatore di Auschwitz, l’uomo selezionato per caso dai nazisti tra tanti prigionieri per incidere loro il numero di matricola sull’avambraccio. Per anni trasformò in numeri persone destinate alla morte. Poi s’innamorò di una giovane prigioniera che aveva tatuato. Nel dopoguerra si ritrovarono e si sposarono. Visse una vita nel rimorso e nel senso di colpa, e solo dopo la morte della moglie, nel 2003 si decise a parlare prima di morire tre anni dopo. Ora la drammaturga neozelandese Heather Morris, che dal 2003 al 2006 ha raccolto le sue memorie, narra tutto in un libro. Una vita tranquilla da coppia che invecchia bene insieme in un sobborgo della metropoli australiana Melbourne, e insieme per lui una vita col senso di colpa come un macigno sul cuore. Alla nascita nel 1916 in Slovacchia si chiamava Ludwig “ Lale” Eisenberg, era ebreo. Dopo la guerra cambiò nome in Lale Sokolov. Gita, la ragazza che conobbe ad Auschwitz tatuandola, fu la compagna della sua vita. « L’orrore del campo, l’orrore di essere sopravvissuto, gli dettero una vita di rimorso paura e paranoia » , dice Heather alla Bbc.
Rimorso per aver degradato persone in numeri con quei dolorosissimi tatuaggi che impresse a centinaia di migliaia, paura di essere scoperto e perseguito come criminale nazista. Solo alla fine, si decise a vuotare il sacco. Lale aveva 26 anni quando fu deportato ad Auschwitz. Giovane e prestante, si offrì per i lavori più duri sperando di salvare dalla morte i suoi genitori: sapeva che erano anche loro deportati da qualche parte. Era già divenuto un numero egli stesso: 32407. Si ammalò di tifo, fu curato da un tale Papen, medico francese allora tatuatore nel campo della morte. Papen lo prese sotto la sua protezione, gli insegnò il “ mestiere”, ne fece il suo assistente, gli insegnò a tacere sempre. Un giorno Papen sparì misteriosamente, allora i nazisti scelsero Lale — anche perché parlava slovacco, tedesco, russo, francese, ungherese e polacco — come tatuatore capo di Auschwitz- Birkenau, dipendente del “ dipartimento politico delle SS”. Sempre sorvegliato, sempre vivendo nel terrore. Mengele, il medico della morte, veniva spesso a vedere quali tatuati poteva scegliere per i suoi esperimenti, e più volte gli disse «un giorno toccherà anche a te». Lale visse anni nel terrore che l’indomani fosse l’ultimo giorno, ma aveva privilegi. Pranzava nell’edificio dell’amministrazione, aveva razioni extra e tempo libero. I tatuaggi, dolorossimi quanto umilianti — esseri umani ridotti a numero come bestiame da macello — prima venivano eseguiti con timbri metallici, poi con aghi a punta doppia, narrò Lale a Heather. Nel luglio 1942, i nazisti gli portarono una ragazza, Gita Hurmannova, cui toccava il tatuaggio 34902. Lui non dimenticò mai gli occhi di lei imploranti di dolore. Negli anni di Auschwitz, faceva di tutto per aiutarla a sopravvivere. Potendo uscire dal campo, vendeva gioielli tolti ai deportati in cambio di cibo per quella ragazza e altri deportati. Nel 1945,coi nazisti in fuga davanti all’Armata rossa, Lale perse le tracce di Gita. A lungo la cercò invano. Dopo la liberazione, tornò fortunosamente in treno a Bratislava. E alla stazione, riconobbe quegli occhi sorridenti: era lei, ritrovata per caso. Si sposarono, aprirono un negozietto ma il regime comunista al potere dal 1948 li espropriò, arrestò ed espulse perché Lale raccoglieva collette in sostegno al neonato Stato d’Israele. Vienna, Parigi, infine l’Australia furono le tappe del loro esodo. Vissero a Melbourne tutta la vita, Gita a volte tornò in Europa, Lale mai. Dopo la morte di lei, Lale trovò in Heather Morris la persona che raccolse i suoi ricordi. Avrebbero dovuto diventare anche un film. Film Victoria, un ente pubblico australiano, finanziò ricerche sul caso. E così si scoprì che i genitori di Lale erano stati assassinati ad Auschwitz un mese prima della deportazione del figlio. Lale non lo apprese mai. Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante rubrica.lettere@repubblica.it |
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