Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/07/2017, a pag. 25, con il titolo "Eichmann: la non banalità del male" la recensione di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
La copertina (LUISS ed.)
La Shoah è oggi un capitolo di storia comune: magari negato, male interpretato o strumentalizzato, ma certamente non ignorato. Per quanto possa sembrare strano, non è sempre stato così: per molti anni dopo la fine della guerra di Shoah non si parlava e men che meno se ne parlava in Israele. Era una ferita troppo aperta, la memoria di quel passato così recente bruciava troppo e per riprendere a vivere non restava che provare a precipitarlo giù, in fondo alla coscienza, relegarlo agli incubi che urlavano la notte. Senza contare quel sentimento tanto assurdo quanto vero che era la vergogna dei sopravvissuti: vergogna perché si erano salvati, vergogna perché erano andati come pecore al macello.
Furono il processo Eichmann e prima ancora la sua strepitosa cattura in Argentina dopo anni di ricerche e pedinamenti a cambiare tutto, tra il 1960 e il 1961. Primo processo mediatico della storia - molte sedute venivano trasmesse in Israele -, fece udire al mondo per la prima volta la viva voce dei sopravvissuti, dei testimoni. A tratti, durante le deposizioni e il dibattimento, la macchina da presa o l’obiettivo fotografico inquadravano una figuretta grigia, meschina, dall’aria sottomessa: quell’imputato accusato dell’uccisione di sei milioni di persone che forse - solo forse - non aveva mai ammazzato nessuno con le sue stesse mani. Quell’imputato che ispirò a Hannah Arendt, filosofa nei panni della reporter, il suo libro più famoso, La banalità del male: siamo tutti fatti un po’ così, a immagine e somiglianza di quell’omuncolo capace di tanto obbrobrio. Lui non è tanto più colpevole di noi.
Come un giallo
La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme di un’altra filosofa tedesca, Betti Stangneth, che esce in italiano nella puntuale traduzione di Antonella Salzano per la Luiss University Press, prende le mosse di qui ma va in una direzione ben diversa. E lo fa con oltre 600 pagine di analisi tanto minuziosa quanto avvincente, che si legge come un giallo ma che ti precipita nei meandri delle evidenze storiche, seguendo passo a passo quell’uomo dalla fine della guerra sino alla cattura.
Di Eichmann non aveva capito nulla, come con Heidegger
Ne emerge una figura tutta diversa da quella che ha ispirato Arendt e tanto dibattito storico e filosofico. Né un supereroe e nemmeno una nullità, non il genio del male e nemmeno l’impiegato capace solo di obbedire agli ordini superiori. Stangneth affonda nella documentazione, che certo non manca, anzi si domanda come mai questa mole immensa di dati non sia ancora stata affrontata a dovere: Eichmann ha infatti lasciato nelle Carte argentine una grande quantità di appunti che seguono passo a passo il suo cammino nella clandestinità, in una sequenza di diverse identità degne di Zelig, perché «gli pesa l’anonimato». E poi ci sono le cosiddette «Interviste di Sassen» raccolte nel 1957 da un giornalista olandese ex nazista residente a Buenos Aires.
Eichmann a Gerusalemme durante il processo
Dopo la guerra Eichmann diventa prima un solitario allevatore di polli di nome Ricardo Klement e poi un non troppo fortunato amministratore di aziende (tedesche) in Sud America sotto il nome di Otto Heninger. Conduce una vita ritirata solo per intervalli più brevi possibili, perché, a dispetto dell’aria dimessa che si costruisce per il processo, è un uomo ansioso di emergere, soprattutto molto scaltro. Camaleontico. Che aveva fatto carriera nei ranghi nazisti grazie a una straordinaria capacità di auto-costruzione. Ad esempio in merito alla presunta competenza in fatto di «cose ebraiche». Circolava persino la voce che fosse nato a Sarona, un sobborgo di Tel Aviv fondato dai Templari moderni, contadini tedeschi messianici che nell’800 si erano insediati nella Terra Santa ad attendere la seconda venuta del Cristo, e coltivavano la terra, allevavano bestiame, facevano il vino.
Una rete di connivenze
Proprio a Sarona, del resto, venne fondata la prima sezione del partito nazista fuori dalla Germania (e i profughi ebrei tedeschi ci andavano a comprare il gelato fatto con il latte fresco…). In sostanza, Eichmann sa poco o nulla di ebraismo ed ebrei, eppure si accredita come esperto e viene incaricato del loro sterminio.
Nel costruirsi e ricostruirsi più di una vita dopo la guerra, il responsabile della Soluzione Finale conta non solo sul suo talento nel bluffare ma anche sulla complicità di ex colleghi e semplici nostalgici del nazismo. Stangneth spiega che non esisteva nessuna fantomatica Odessa, l’organizzazione preposta al salvataggio dei nazisti dopo la guerra, ma certo esisteva una rete capillare di connivenze che si costruiva all’occasione, come quando Eichmann si imbarcò da Genova alla volta dell’Argentina, nel 1950, grazie all’aiuto di qualche talpa nelle file della Chiesa.
Dieci anni esatti più tardi, alla fine del 1960, Zvi Aharoni si mette in viaggio alla volta del Sud America per predisporre il rapimento del criminale nazista più ricercato. Per uno strano caso della storia, in quelle settimane si stava costruendo una missione assai delicata: il primo incontro da Adenauer e Ben Gurion, «nell’ottica delle relazioni successive tra Israele e la Germania». Dopo il Natale 1959 si era registrata in Germania una inquietante ondata di azioni antisemite: svastiche sulle sinagoghe, cimiteri ebraici devastati. Un anno dopo s’iniziò il processo Eichmann, che urlò al mondo quel che era successo.
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