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Riprendiamo da LIBERO di oggi, 20/06/2017, a pag. 25, con il titolo "Il ritorno delle tribù", il commento di Andrea Morigi.
L'autore, direttore della Stampa dopo esserne stato a lungo corrispondente da Bruxelles, da New York e dal Medio Oriente e, come ricorda Vittorio Feltri, «uno che non sbagliava mai» quando era capo della redazione romana dell'Indipendente, ha conoscenza profonda e diretta dei fenomeni che descrive, dalle rivolte arabe alle insurrezioni anti-establishment rappresentate in Europa dalla Brexit e negli Stati Uniti dall'elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Con il tramonto degli Imperi prima e delle ideologie poi, i nazionalismi sembravano aver preso il sopravvento su ogni altra appartenenza. Tranne quella etnico-religiosa, trattata per secoli come residuo del passato, ma tornata a riaffermarsi soprattutto in ambito islamico. Nel mentre, negli Stati Uniti vanno sfaldandosi i legami fra i popoli e la solidarietà fra cittadini, come testimoniano le violenze interrazziali. Neppure con Barack Obama alla Casa Bianca si è riusciti a porvi rimedio. La risposta più istintiva è l'emergere dei cosiddetti populismi. Ma il mondo è interconnesso e i conflitti in Siria, nello Yemen, in Libia e in Iraq si riversano insorabilmente sulla sponda settentrionale del Mediterraneo. Nonostante i muri eretti in Ungheria e il rifiuto crescente dell'immigrazione selvaggia in numerosi Paesi dell'Unione europea, «l'onda umana», come la definisce Molinari, sembra destinata ad aumentare. E, con essa, anche l'intolleranza, benché le reazioni estreme rimangano pur sempre minoritarie. Lo sforzo di trovare una soluzione che consenta di governare una società multiculturale consiste nello sfuggire alla polarizzazione, ma per rispondere alla sfida esterna «le democrazie hanno bisogno di una dottrina di sicurezza che indichi nei jihadisti il maggior pericolo esterno, assegnando il compito della difesa alla Nato e siglando intese strategiche con ogni altra nazione - dal Marocco alla Giordania, dalla Russia a Israele, dal Giappone all'Australia - impegnata a combatterlo», suggerisce l'autore.
Magari è proprio la soluzione per superare l'obsolescenza dell'Alleanza Atlantica, messa in luce da Trump. Sul versante interno, va affrontato il disagio delle diseguaglianze con «politiche di crescita e di sviluppo», ma il metodo suggerito è «combattere il jihadismo come se il populismo non esistesse e rispondere al populismo come se il jihadismo non ci fosse». Non è una strada impraticabile. O quanto meno qualcuno ci sta già provando con alterni successi. Affrontare l'emergenza è anche il fardello quotidiano di Israele, da ormai 70 anni sottoposto alla sfida della convivenza con la popolazione palestinese ostile, il terrorismo e un costante pericolo esterno. Ultimamente, il presidente dello Stato ebraico Reuven Rivlin «ha fatto frequenti accenni all'eredità di Ze'ev labotinsky, il padre politico del sionismo revisionista rivale di quello socialista di David Ben Gurion e Shimon Peres» e la cui aspirazione «era proprio riuscire ad armonizzare la nascita del nuovo Stato con la permanenza degli abitanti arabi». Siamo abituati a guardare a Gerusalemme come al modello più efficace di lotta al terrorismo. In realtà, «Jabotinsky sosteneva: "Dobbiamo vivere assieme ai palestinesi, non dobbiamo dominarli, bisogna vivere assieme con entità differenti owero in una confederazione"». Anche «l'isola degli ebrei», ricorda Molinari, è una tribù. Ma, si può aggiungere, è anche un laboratorio di convivenza e potrebbe anticiparci qualcosa sul nostro futuro. Per inviare la propria opinione a Libero, telefonare 02/999666, oppure cliccare sulla e-mail sottostante lettere@liberoquotidiano.it |
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