Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 13/05/2017, a pag.22, con il titolo "L'antisemitismo rimosso della DDR" l'analisi di Roberto Festonazzi.
Roberto Festonazzi
Walter Ulbricht
Mezzo secolo fa, nel giugno del 1967, durante la Guerra dei Sei giorni Israele attaccò e mise al tappeto i Paesi arabi situati ai suoi confini. E poco noto, al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti, che la propaganda della Germania comunista, la Ddr, bollò il protagonista del conflitto, il ministro della Difesa israeliano, Moshe Dayan, e il libero Stato ebraico, con i più disgustosi epiteti tratti dal repertorio semantico del Terzo Reich nazista. Questo episodio resta uno dei più significativi esempi dell'inquietante continuità totalitaria che contrassegnò il passaggio dalla Germania di Hitler al regime nato nel dopoguerra nella zona di influenza sovietica. Simon Wiesenthal, il celebre cacciatore di criminali nazisti, il 6 settembre 1968, presentò, a Vienna, un dossier che documentava l'ampio ricorso al vocabolario antisemita, in occasione della Guerra dei Sei giorni, da parte della macchina di disinformacija della Ddr, una nazione che pure si presentava come baluardo dell'antifascismo, in area germanica. Il significativo titolo della pubblicazione di Wiesenthal era: Lo stesso linguaggio: prima nella bocca di Hitler, ora in quella di Ulbricht. Walter Ulbricht era il leader del regime filosovietico di Berlino Est. La denuncia era basata su una campionatura di seicento persone attive nel settore dell'informazione, nella Germania comunista. Ne scaturiva la lista di trentanove esponenti della nomenclatura mediatica, i quali avevano militato non soltanto nella Nsdap, il Partito nazista, ma pure nella Gestapo, nelle Ss, e nelle squadre d'assalto Sa. Nell'imbarazzante elenco degli ex nazi, riverniciati di rosso, figuravano, tra gli altri, il portavoce del governo della Ddr, Kurt Blecha, il caporedattore di "Deutsche Aussenpolitik", osservatorio di politica estera, Hans Walter Aust, ma anche parecchi membri dello staff di direzione di "Neues Deutschland", l'organo ufficiale della Sed, il Partito comunista del regime di Berlino Est. Erano uomini di questo genere, gli ispiratori del velenoso crescendo di toni antisemiti, che dilagò, non soltanto sulla stampa, ma anche alla radio e alla televisione di Stato. Basti pensare che, il 14 luglio 1967, un mese dopo la conclusione della Guerra dei sei giorni, sul "Berliner Zeitung", tra i più diffusi quotidiani nella Germania che aveva eretto il Muro, apparve una vignetta che illustrava Moshe Dayan, con le mani protese verso Gerusalemme e Gaza. Accanto a lui, un Hitler in avanzato stato di decomposizione, lo incoraggiava: «Vai avanti, collega Dayan!». Non si trattava, come si può osservare, di sobrie critiche alle esigenze di sicurezza di Israele, e neppure di razionali argomenti di disapprovazione degli eccessi del sionismo: si era in presenza di una vera e propria isteria degna dei peggiori megafoni di propaganda razzista del nazismo, come il "Völkischer Beobachter", il giornale ufficiale della Nsdap hitleriana, o lo "Sturmer" il fogliaccio di Julius Streicher, fautore di un antisemitismo condito di oscenità e pornografia. Questa pagina, tra le più vergognose della storia della Ddr, evidenzia uno dei tratti peraltro comuni a molti dei sistemi comunisti dell'Est europeo: il rigurgito di odio razziale contro gli ebrei. I cittadini di religione israelita della Germania Orientale furono oggetto, nei primi anni Cinquanta, di vessazioni e discriminazioni che rappresentarono una vera e propria forma di persecuzione. Tanto che gli esponenti delle piccole comunità ebraiche esistenti nella Ddr invitarono i loro membri a lasciare il Paese: suggerimento cui aderirono, fino al 1953, oltre cinquecento individui.
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