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Riprendiamo da SETTE di oggi, 09/10/2015, a pag. 34-39, con il titolo "Auschwitz a Trieste", l'intervista di Antonio D'Orrico a Claudio Magris.
Professor Magris, anche questo suo nuovo romanzo, Non luogo a procedere, l'ha scritto, com'è sua abitudine, su fogli protocollo uso bollo? E l'ha scritto a mano? «Come sempre». Che penna ha usato? «Questa qua (la sfila dalla tasca interna della giacca), una Tratto Clip». È la stessa che usava Carlo Fruttero. «Davvero? Non lo sapevo». Ne scrisse anche un elogio, molto divertente. Non tutte le penne possono vantare due testimonial d'eccezione come lei e Fruttero. Sarebbe una bellissima pagina di pubblicità (intelligente veramente, una volta tanto). «Però ho una bruttissima grafia, aggravata ora dall'artrosi, e scrivendo ho molti ripensamenti e, alla fine, viene fuori una pagina illeggibile a un estraneo. Perciò devo dettarla al registratore. Uso le cassette grandi, ne ho fatto incetta perché ormai stanno sparendo. Ne ho messe da parte un centinaio. Ho 76 anni e mezzo, penso che mi basteranno. Però non mi faccia passare per un passatista, nemico della tecnologia. Non penso che il fatto di scrivere a penna mi renda più vicino a Dio o che il computer sia uno strumento del diavolo. Semplicemente in queste faccende sono imbranato. Le racconto una cosa. II mio forse più caro amico (eravamo stati compagni di classe) si ammalò gravemente di tumore. Andavo a trovarlo in ospedale. Una sera, alla fine della mia visita, mi pregò di spegnergli la televisione. Dopo due o tre minuti che armeggiavo inutilmente con il telecomando, l'amico mi ha detto, con una voce in cui c'era la sessantacinquennale rassegnata consapevolezza della mia irrimediabile maldestrezza: "Dame qua, dame qua, fazo mi. Vedi, xe 'sto boton bianco, mona". Questo è stato il suo ultimo saluto, le ultime parole che mi disse, poche ore dopo morì... L'amicizia è la cosa più grande». Anche il nuovo romanzo l'ha scritto seduto al tavolini del Caffe San Marco a Trieste? «In buona parte». Lavorare al caffè è un vezzo, una civetteria? «Per niente. È una necessità. Scrivere è un lavoro di estrema solitudine e essere circondato da un paesaggio umano mi conforta. E poi c'è un'altra cosa. Uno scrittore, mentre scrive, è sempre convinto di scrivere la Divina Commedia. Ecco, scrivendo al caffè, uno vede che il mondo intorno se ne frega della presunta Divina Commedia che stai scrivendo. L'effetto è molto salutare». II nuovo romanzo comincia con un'inserzione su un giornale: «Sottomarini usati — compro e vendo». «Una persona che comprava e vendeva sottomarini usati è esistita veramente. Si chiamava Diego de Henriquez ed è morto nel 1974. Commerciava in armi perché voleva allestire un Museo della Guerra che dissuadesse per sempre dall'idea di fare le guerre. La mia invenzione è liberamente ispirata alla sua storia. Tra l'altro, il Museo esiste a Trieste ma è ben lontano al momento dalle ambizioni che nutriva de Henriquez». Un museo del genere uno se lo immagina come una specie di Vittoriale di d'Annunzio. Nel romanzo le cose non stanno così. Lei non descrive un Vittoriale bensì, mi passi ll neologismo, uno Sconfittale. «Glielo passo volentieri iI neologismo. Anche perché mi fa venire in mente il brano della Marcia di Radetzky in cui Joseph Roth racconta che Francesco Giuseppe non amava le guerre perché sapeva che si perdono. Il primo traduttore italiano del libro sbagliò e scrisse che non le amava perché sapeva che le perdeva. Ma Francesco Giuseppe non pensava alle sconfitte personali, parlava in assoluto». Ha mai creduto nel corso della sua esistenza che il tempo delle guerre fosse ormai finito? «Purtroppo no. E penso che coltivare Illusioni, in materia, sia pericoloso. Avevo un amico, un bravissimo storico, Adam Wandruszka. Venne a Trieste e mi chiese di aiutarlo a trovare la tomba del padre, ufficiale austroungarico, caduto sul Carso nella Grande Guerra. Si chiamava Adam perché il padre, partendo per il fronte, disse alla moglie incinta: "Se sarà un maschio, chiamalo Adam come il primo uomo. Perché questa sarà l'ultima guerra dopo di che nascerà un mondo di pace". Nell'illusione che si trattasse dell'ultima guerra, si consumò una delle stragi più sanguinose della storia. Le guerre non sono finite. C'è stata la Terza Guerra Mondiale, la cosiddetta Guerra Fredda (1945-1989: 45 milioni di morti). E ora è in corso la Quarta Guerra Mondiale e l'aspetto più tragico è che non si sa chi sta combattendo contro chi. Dal punto di vista dell'Occidente, il presidente della Siria Assad è un nostro alleato o un nostro nemico?». Preparando questa intervista ho letto una bella monografia, appena uscita, a lei dedicata (autore Simone Rebora, editore Cadmo). Lì lei pronuncia la frase: "Odio le biblioteche!". Parole che uno non si aspetterebbe da un professore. Che cosa intende? «Odio le biblioteche ma amo tantissimo i libri. Sarà l'atmosfera ovattata, sarà il silenzio, ma quando mi trovo in biblioteca mi sembra di essere in chiesa. La letteratura diventa una specie di rito, come un matrimonio, un funerale (cose che rispetto ovviamente) invece di essere un gesto anarchico, diventa un dovere invece che un piacere. Mi ricordo che quando giocavo a calcio...». Come giocava a calcio? «Malissimo. Ma non è questo il punto. Ricordo che durante una partita (avrò avuto 12-14 anni) mi arrivò il pallone ed ebbi una rivelazione. Mi dissi: io sono un bravissimo ragazzo, faccio i compiti, rispetto le regole ma sono qui per divertirmi. Quale Dio mi impone di tirare il pallone là e non là?". Allora ho tirato verso la nostra porta. Venni espulso con ignominia e fu la fine della mia carriera calcistica». Professore, lei merita di passare alla storia per molte cose (ne dico velocemente alcune e con il beneficio dell'inventario: Lontano da dove, Illazioni su una sciabola, Danubio, Microcrosmi e quest'ultimo romanzo ultimatum), caso mai tutto questo non bastasse, lei merita di passare alla storia per l'elogio dell'autogol che ha appena fatto. E' la sesta poesia sul calcio di Umberto Saba, quella che non scrisse dopo avere scritto le celebri cinque ("Il portiere caduto alla difesa / ultima vana" eccetera eccetera). Torniamo al romanzo che ha, come centro di gravità, la Risiera di San Sabba, l'unico forno crematorio nazista italiano. La sua storia resta circondata da un mistero che il protagonista del libro cerca disperatamente di svelare. «Della Risiera di San Sabba si è cominciato a parlare tardi, agli inizi degli anni Settanta. Una cosa stranissima, un'incomprensibile rimozione collettiva (anche negli ambienti antifascisti). Da ragazzo sapevo tutto dei torturatori della banda Collotti. Nulla però sapevo della Risiera. Nel 1954 gli inglesi portarono via molti documenti dagli archivi di San Sabba. Furono secretati e restano tuttora inaccessibili. Nel romanzo ho cercato di trovare il motivo di questa omertà. Si cercava di proteggere qualcuno? E chi? Ho passeggiato a lungo tra le celle e i cortili della Risiera, come faccio sempre sui luoghi teatro dei miei romanzi, cercando di immaginare le atrocità commesse, i volti delle vittime, dei delatori (i triestini che tradivano sé stessi), dei carnefici. E i testimoni superstiti perché tacquero? Forse perché (come successe ai sopravvissuti alla Shoah) temevano di non essere creduti tale era l'orrore dell'accaduto? la verità è più strana della finzione, come diceva Twain». La frase di Twain è quasi un comandamento della sua narrativa. Lo osserva anche in Non luogo a procedere il podestà ebreo di Trieste che diventa persecutore dei suoi correligionari, che si fa battezzare e applica le leggi razziali, sembra un personaggio di fantasia, invece... «Invece è realmente esistito. Non fu il solo. Molti ebrei a Trieste furono fascisti all'inizio. Le racconto un'altra storia. Avevo un amico, più vecchio di me, che era presidente della comunità ebraica. Verso la fine degli anni Venti, la sua famiglia viveva in Polonia, in un ambiente abbastanza antisemita. Suo padre, che era molto ortodosso, parlava solo yiddish e vestiva sempre con il caffetano, decise di trasferire moglie e figlio a Trieste dove si integrarono benissimo. Il mio amico diventò balilla ed era fierissimo della sua divisa. In seguito, il padre raggiunse la famiglia a Trieste e fu entusiasta dell'accoglienza che i suoi avevano ricevuto. Soprattutto era felice dell'uniforme di balilla, un onore militare impensabile nella Polonia nazionalista. Così costringeva il figlio a girare in divisa anche quando non c'erano adunate. Lui lo accompagnava indossando il caffetano. Se incrociavano i gerarchi fascisti, il padre diceva in yiddish al figlio: "Hejb, die Hand, meschugge!" (traduzione: "Saluta, mona"). E il ragazzo si esibiva nel saluto fascista. Poi vennero le leggi razziali. Fortunatamente, riuscirono a scappare. La frase in yiddish che pronunciava il padre del mio amico è diventata per me il simbolo di tutte le illusioni e ogni tanto, facendo la barba la mattina, mi dico: "Hejb, die Hand, meschuggee!". E mi faccio il saluto fascista».
II protagonista del romanzo si chiede quale sia l'arma più potente. Le V2? II Napalm? Poi trova la risposta giusta: «II banchiere Soros muove molti zeri e fa crollare un intero paese asiatico, più di quanto farebbero mille bombardieri». È il denaro l'arma invincibile. Ma allora aveva ragione il vecchio Ezra Pound nel suo delirio contro la finanza? «L'errore di Pound fu di aver cercato di trasformare una lancinante intuizione in una specie di progetto politico. Sono sempre stato molto attirato da certi grandi scrittori "maledetti" come Pound, come Hamsun, come Céline. Gente che ha certamente sentito la miseria di tutti gli uomini. Solo che Céline e Hamsun si sono fatti abbagliare da questa rivelazione. Respinsero giustamente la retorica del bene ma finirono per credere che il male fosse la verità. Pound intuì la forza prorompente del denaro nel mondo moderno (molto più che nell'antichità, così come è successo con le armi: i romani non avevano la bomba atomica). Però con stupida ingenuità se la prese con gli ebrei. Una stupidità simile a quella di Pirandello che mandò il telegramma di solidarietà a Mussolini dopo il delitto Matteotti. Certo che va denunciato l'aspetto parolaio della democrazia ma anche le cose nate con le migliori intenzioni hanno la loro retorica. Anche la Croce rossa». II suo eroe ricorda che i maestri dell'arte della guerra nei loro trattati non dicono mai io bensì: «II Maestro Sun disse...». A me è venuto in mente la celebre invettiva di Gadda: «l'io, io!... il più lurido di tutti i pronomi!... I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando II pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi... e nelle unghie, allora... cl ritrovai pronomi: i pronomi di persona». Anche lei ce l'ha con l'io? «In ogni identità c'è qualche cosa di cui diffido. E non parlo dell'egoismo. Essere egoisti è umano. Anche io preferirei, se giocassi al lotto, vincere il primo premio al posto di un atro. È l'egocentrismo, giunto ormai a livelli quasi peccaminosi, che non va bene. Il mondo attuale è rovinato da questa identità ipertrofica dell'io. Da un lato è stato un vantaggio perché ha liberato molti io bloccati, bollati. Grazie a Dio è meglio essere una ragazza incinta oggi che ottant'anni fa, e questo è impagabile. Però c'è una esagerazione nel fatto di dire la propria... Non ogni opinione è uguale a un'altra. Io ho ricevuto una lezione indimenticabile dal professore di tedesco del ginnasio. Una volta mi fece una domanda sulla Guerra dei Trent'anni. E io cominciai a rispondere: "Ecco, io penso...". E lui: "Cosa vuoi pensare tu, miserabile". E si lanciò in una bellissima lezione all'impronta sulla Guerra dei Trent'anni. Raccontò che due terzi della popolazione erano morti in maniera atroce. Poi di colpo si rivolse di nuovo a me: "E intanto Magris pensa e sarà così generoso di metterci a parte dei suoi pensieri. Impara piuttosto a memoria il numero delle vittime, il dove e il come e il quando...". Oggi di fronte a una scena del genere insorgerebbero i comitati dei genitori e farebbero male perché quella lezione non l'ho più dimenticata e mi è servita molto nella vita». Non luogo a procedere è una summa, un romanzo totale dove lei fa a pezzi la Storia. Scrive che se la Storia fosse sottoposta a una risonanza magnetica, il referto sarebbe: "Per la sua estensione il tumore è giudicato inoperabile". Aggiunge che la Storia "ha l'alito cattivo". Ricorda che Hitler puzzava e non metaforicamente. «Premetto che non direi cose di questo tipo se scrivessi un saggio. Nei romanzi si portano all'estremo le sensazioni. Uno può dire che la vita è invivibile perché c'è bisogno di dirlo in quel momento però poi può (deve) cercare di amarla lo stesso. Per quanto riguarda Hitler è vero che soffriva di intestino, di flatulenze. Sembra la trovata di uno scrittore a caccia di facili effetti e invece era così nella realtà (sempre la legge di Twain). C'è una splendida scena girata da quella geniale canaglia di Leni Riefenstahl dove si vede Hitler che si asciuga il sudore dalle mani strofinandole contro i pantaloni. La regista inquadra per un attimo quelle macchioline di sudore. Un fotogramma repellente». Ma c'è anche dell'umorismo nero nel libro. A un certo punto si ragiona sarcasticamente sulla relazione tra impiccagione e orgasmo maschile. Prima di morire l'impiccato prova, per una questione puramente meccanica, l'ultimo piacere sessuale. Il fenomeno potrebbe rientrare nelle cosiddette discriminazioni di genere. Perché gli uomini impiccati hanno l'orgasmo e le donne no? Nel romanzo si giunge a una conclusione salomonica: "Anche le donne destinate al patibolo per la loro fedeltà al Reich hanno diritto a questo estremo vibratore". Professore, in questo momento ci vuole coraggio a scrivere una cosa così e mi permetta (sia chiaro, non la lascio certo solo) di condividerla, come si usa fare su Facebook. «In quel brano faccio dell'ironia, una tragica ironia, su certe manie della cultura contemporanea (pare che i generi da tenere in considerazione siano ormai ben sedici). Bisogna stare attenti a non esagerare: concedo che gli obelischi siano simboli fallici (magari li hanno costruiti degli architetti maschilisti), ma non si può arrivare a sostenere, come è stato sostenuto, che simboli fallici siano anche gli abeti. Anche gli abeti sarebbero frutto di bieco maschilismo? E' quasi ovvio aggiungere che la cultura maschile ne ha altrettante di pecche». Una volta le chiesi se c'erano degli scrittori che sentiva dietro le sue spalle mentre scriveva. Mi rispose, pregandomi di non fraintenderla (non voleva certo paragonarsi minimamente a loro), che sentiva, come si sente un'aria musicale, la presenza di Tolstoj (per la dimensione epica e la possibilità di un'armonia finale) e di Kafka (per la dimensione notturna, il fantasma della negatività assoluta). Mi sembra che in questo nuovo romanzo lei abbia compiuto una scelta definitiva. Qui la musica che prevale mi sembra quella kafkiana. «Non so. Penso che nel mio modo di vivere il mondo Tolstoj predomini alla fine su Kafka. L'esperienza del negativo è fondamentale però non esaurisce il paesaggio. La negatività è un po' un vaccino, un condimento. Per me resta decisiva la scena raccontata da Marisa Madieri, la mia prima moglie, in Verde acqua, quando leggendo Guerra e pace rinchiusa in un campo profughi si rende conto che la vita fuori esisteva, grande, sacra, una e un giorno l'avrebbe raggiunta. Nel mio romanzo ho cercato di dare quel senso del mondo tolstojano con il personaggio di Luisa, la protagonista femminile. Un'armonia è possibile. Anche se alla fine, nella storia della Risiera, ci fu una sola condanna e in contumacia tanto che il condannato non la scontò e fece felicemente il birraio tutta la vita. Per tutti gli altri la sentenza fu di non luogo a procedere». Per inviare la propria opinione a Sette, telefonare 02/6339, oppure cliccare sulla e-mail sottostante sette@corriere.it |
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