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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Repubblica - Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
17.03.2015 Israele al voto: chi tifa contro Netanyahu?
Fabio Scuto, Bernardo Valli, Ugo Tramballi

Testata:La Repubblica - Il Sole 24 Ore
Autore: Fabio Scuto - Bernardo Valli - Ugo Tramballi
Titolo: «Netanyahu, l'ultima carta per rimontare: 'Con me mai uno Stato palestinese' - La sfida di Tzipi e Buji, la strana coppia che adesso sogna di conquistare Israele - Referendum su Netanyahu»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 17/03/2015, a pag. 18-19, con il titolo "Netanyahu, l'ultima carta per rimontare: 'Con me mai uno Stato palestinese' ", il commento di Fabio Scuto; con il titolo "La sfida di Tzipi e Buji, la strana coppia che adesso sogna di conquistare Israele", il commento di Bernardo Valli; dal SOLE 24 ORE, a pag. 1-10, con il titolo "Referendum su Netanyahu", il commento di Ugo Tramballi.

Ecco gli articoli, preceduti dai nostri commenti:


Oggi è il giorno delle elezioni in Israele

LA REPUBBLICA - Fabio Scuto: "Netanyahu, l'ultima carta per rimontare: 'Con me mai uno Stato palestinese' "

Questo articolo di Scuto e quello che segue, di Bernardo Valli, non contengono novità sulle ultime fasi della campagna elettorale in Israele. Entrambi, però, non perdono occasione per esprimere ancora una volta ostilità nei confronti di Netanyahu. Secondo Scuto, Netanyahu sarebbe alla ricerca dei voti "dell'ultradestra" (così viene usualmente definita la destra israeliana, mentre per quella di ogni altro Paese al mondo si utilizzerebbe la forma semplice di "destra").
Valli si scaglia - e anche in questo caso non è una novità - contro i "comportamenti eccessivi di Netanyahu".
I due giornalisti di Repubblica cercano di dipingere il leader di un partito di centro-destra moderato come il Likud come se si trattasse di un estremista. Il massimo della disinformazione.


Fabio Scuto

Le ultime carte per riconquistare il terreno perduto prima delle elezioni, Benjamin Netanyahu se le gioca nel pomeriggio con la visita a questo insediamento, uno dei più contestati fra quelli che da ogni collina ormai accerchiano la Città Santa. «Io e i miei amici del Likud, difenderemo a oltranza Gerusalemme da chi la vuol dividere con gli arabi, continueremo a costruire... costruiremo migliaia di case senza badare alle pressioni che ci vengono, noi continueremo a sviluppare la nostra capitale eterna», dice ispirato il leader del Likud davanti a un podietto approntato per l’occasione, con alle spalle un cantiere per le nuove case in questo insediamento a sud di Gerusalemme che fu proprio lui ad avviare nel 1997, durante il suo primo mandato. Da allora Har Homa ha visto i suoi confini allargarsi fino a lambire la collina di Betlemme e i suoi abitanti raggiungere quota 25.000.


Benjamin Netanyahu

Un allargamento “fisiologico”, a cui non sono serviti i moniti di Condoleezza Rice nel 2006 né quelli del Dipartimento di Stato Usa nel 2010, né quelli europei, considerati alla stregua di un fastidioso brusio di fondo. L’insediamento sorge su una collina chiamata in lingua araba Jabal Abu Ghneim che è parte della Cisgiordania occupata, annessa da Israele insieme a Gerusalemme Est dopo la guerra del 1967. «La scelta è tra me, che continuerò con fermezza a difendere gli interessi vitali di Israele, e il governo di sinistra, pronto ad accettare qualsiasi diktat», dice Netanyahu riferendosi al rivale Yitzhak Herzog dell’Unione sionista, l’alleanza di centro- sinistra che è in testa di diversi seggi negli ultimissimi sondaggi prima del voto. Abbandonati i toni apocalittici sull’Iran, nelle ultime febbrili ore di campagna elettorale il premier uscente punta tutto sulla “difesa” di Israele da chi vuole cedere terra ai palestinesi, da chi vuole dividere Gerusalemme, da chi – dirà più tardi - «vuole uno Stato palestinese». Sì, perché non appena lasciata questa collina battuta dal vento e soffocata dalle palazzine in pietra bianca, Netanyahu gioca l’ultima delle sue carte: «Finché sarò premier io non ci sarà nessuno Stato Palestinese». Con buona pace dei venti anni dagli accordi di Oslo, dell’impegno americano e europeo profuso in questi anni, dei balletti diplomatici – «non abbiamo un partner credibile con cui trattare» – con cui è stata beffata la diplomazia internazionale. Non c’è mai stata – lo dice lui stesso – nessuna intenzione di accettare la soluzione dei “due Stati”.

Fallita la possibilità di recuperare il gap nei sondaggi al centro, Netanyahu nelle ultime ore ha così puntato tutto sullo strappare consensi nell’ultradestra, perché il numero magico da raggiungere è 20. Se il Likud otterrà meno seggi difficilmente il premier uscente resterà alla testa del partito, ma se ne otterrà di più - anche perdendo la maggioranza relativa - tutto torna in gioco. Perché in Israele l’incarico non va al leader del partito più votato ma a quello che ha più possibilità per formare un esecutivo rapidamente. E’ già accaduto nel 2009, la signora Tzipi Livni arrivò in testa a quelle elezioni ma nessun partito volle allearsi con lei e la mano passò a Netanyahu che era arrivato secondo. Quando in dicembre Netanyahu decise di sciogliere il governo e andare alle elezioni anticipate sentiva già il profumo di una vittoria a mani basse.

Lo scenario si è rivelato però diverso, la sinistra è riuscita a mettere insieme un’alternativa credibile, compatta e convincente. Allo stesso tempo si è avviato un altro processo che ha non meno importanza in politica: gli israeliani sembrano stanchi di Netanyahu. Li ha esauriti. Dopo nove anni come premier e 22 anni sulla scena politica, la magia sembra ora dissolta. Può consolarsi sul fatto che questo fenomeno è accaduto ad altri nel passato, come David Ben Gurion per esempio, e in circostanze molto più difficili.

I tentativi di Netanyahu di reinventare se stesso come il “grande vecchio”, come il saggio, sono falliti perché non è nel suo personaggio. «Netanyahu non ha la semplicità istintiva dell’ultimo Sharon, gli manca la forza spirituale di Peres, un beneficio dell’età. Perché c’è qualcosa di rassicurante nei capelli grigi, ma certamente non in quel paté incollato chimicamente che il premier porta in testa», scriveva ieri mattina Naum Barnea su Yedioth Aaronoth, il giornale più pungente fra quelli di opposizione. Più che un giudizio una sentenza. L’ultima spetta oggi ai quasi sei milioni di israeliani che andranno alle urne. La settimana che si apre oggi col voto promette di essere una delle più movimentate e imprevedibili nella lunga e accidentata vita politica di Benjamin Netanyahu.

LA REPUBBLICA - Bernardo Valli: "La sfida di Tzipi e Buji, la strana coppia che adesso sogna di conquistare Israele"


Bernardo Valli

Tzipi e Buji formano la coppia politica che nelle prossime ore può sconfiggere l’uomo per nove anni al governo in Israele. Perlomeno lo sperano, confortati dai pronostici favorevoli, ma tutt’ altro che infallibili. Soltanto Ben Gurion, il fondatore dello Stato ebraico, è stato primo ministro più a lungo di Benyamin Netanyahu che adesso rischia di perdere il posto. Ma che, tenace come un mastino, si è dato da fare fino all’ultimo, con comizi e riunioni, per conquistare un quarto mandato. Insieme Tzipi Livni (Tzipi è diminutivo di Tzipora) e Isaac Herzog (detto Buji) hanno creato l’Unione sionista, formazione di centro sinistra in cui hanno riversato i loro rispettivi partiti: quello liberale di lei, Hatnua, e quello laburista di lui, Avoda. L’alleanza ha avuto una fortuna inaspettata sul piano virtuale dei sondaggi, che alla vigilia del voto le attribuivano almeno quattro seggi di più in Parlamento di quelli immaginati per il Likud, il partito di destra di Netanyhau. Chiamato Bibi.

Gli israeliani amano usare i nomignoli. Danno un tocco di familiarità a una società politica dura, litigiosa. Le indagini d’opinione possono non riflettere i risultati reali, capita spesso, e quindi Netanyahu non si è dato per vinto. Non è nella sua natura. La partita resta aperta anche perché ottenere più seggi in Parlamento e quindi essere incaricato dal capo dello Stato non dà la garanzia di diventare primo ministro. Per formare il governo bisogna tro- vare una maggioranza, vale a dire almeno 61 dei 120 deputati che conta la Knesset. Proprio a Tzipi Livni, allora capo del partito Kadima, accadde nel 2009 di conquistare un seggio in più di tutti gli altri ma di non riuscire poi a costruire una coalizione. La media degli ultimi sondaggi dava 26 seggi al centro sinistra di Tzipi e Budji.

Tutto può dunque accadere. Compresa la formazione di un governo di unione nazionale nel caso nessun partito raccogliesse attorno a sé una maggioranza. L’avere gettato un forte dubbio sulla rielezione di Benyamin Netanyahu è comunque un successo per Tzipi Livni e Isaac Herzog. Quando ha sciolto in anticipo il Parlamento, il primo ministro era convinto che il quarto mandato gli fosse assicurato. Non aveva calcolato gli strascichi dell’ultimo conflitto di Gaza, che aveva intaccato il mito della stabilità garantita dai suoi governi, e le difficoltà economiche createsi nel Paese. I vizi e le debolezze dell’impavido Bibi, coperti fino allora da una condotta impetuosa e spesso spavalda, sono apparsi evidenti e hanno suscitato tante incertezze. Netanyahu esaltava meno e ha cominciato a stancare. La voglia di cambiare si è accentuata via via, ma non è facile smuovere un macigno.

Tzipi e Buji hanno provato. Lui, Herzog, appartiene a una grande famiglia israeliana. Il nonno grande rabbino, il padre presidente della Repubblica, lo zio famoso ministro degli esteri. Sono i nostri Kennedy, dicono senza sorridere troppo i suoi amici. Lui non è un generale, non è un eroe di guerra, non ha neppure la figura del macho, che qui non stona se è quella di un uomo cui è affidato la sicurezza del Paese. Non è molto alto. Non è un grande oratore. Ma tutte queste mancanze nel curriculum e nell’aspetto hanno finito col fare di lui un personaggio singolare, sempre più degno di attenzione per le dichiarazioni misurate, sensate, per lo stile da intellettuale che sa quel che dice, per la compostezza che è l’esatto contrario dei comportamenti eccessivi di Netanyahu, facile da identificare come l’esatto contrario.

I cronisti politici che lo frequentano lo definiscono «un uomo di centro del centrosinistra». Il partito laburista di cui è il segretario ha subito nell’ultimo decennio una forte disaffezione. Essenzialmente sostenuto dagli askenaziti, di origine centro e nord europea, élite intellettuale fondatrice dello Stato ebraico, è stato abbandonato dalle classi medie spostatesi al centro e a destra, perché il partito non esprimeva più i suoi valori originari e navigava in un’ambiguità ideologica senza interesse. Isaac Herzog, di professione avvocato, 54 anni, ha recuperato il termine sionista che era stato scippato dalla destra. Non sono pochi coloro che gli rimproverano di avere cosi respinto quella parte della popolazione araba israeliana che votava per il vecchio partito. Ma ha però rispolverato i valori sociali che il sionismo aveva perduto, quando è stato recuperato dalle masse sefardite, gli ebrei orientali, sull’onda delle quali il sionismo di destra (riformista) è arrivato al potere. Da allora è diventato sinonimo di nazionalismo. Sul problema essenziale, quello palestinese, Herzog si op- pone alle drastiche posizioni dei partiti di destra che rifiutano ogni concessione: è in favore di uno Stato palestinese, a condizione che le autorità dell’Olp si dimostrino moderate; non è contrario a una condivisione di Gerusalemme come capitale, riservando a Israele i luoghi tradizionali dell’ebraismo. Si ripropone in caso di una vittoria elettorale di compiere una prima visita a Washington per incontrare Barack Obama e riallacciare i rapporti con l’America sfidata da Netanyahu. Poi si recherà in Egitto per tentare di creare un’intesa con gli arabi moderati in cui comprendere i palestinesi.

Nell’Unione sionista occupa un posto di rilievo Tzipi Livni. Il suo è un piccolo partito liberale, ma lei ha una storia politica di rilievo. Ha 56 anni, è avvocato come Herzog, ma non proviene da una celebre famiglia di tradizione progressista. Il padre era dell’Irgun, l’organizzazione militare della destra sionista, e lei ha militato da ragazza nel Betar, il movimento giovanile con la stessa tendenza. Da studente, a Parigi, ha lavorato per il Mossad, i servizi segreti. E in Israele ha aderito al Likud, il partito di destra. Ha poi seguito il generale Sharon quando il campione della destra nazionalista con un’improvvisa svolta al centro ha fondato il partito Kadima. Tzipi Livni è stato più volte ministro, in particolare degli esteri. Prima di essere licenziata dal governo Netanyahu era ministro della giustizia. In tutti i ruoli e in tutti i partiti si è distinta per le posizioni di “colomba”, vale a dire favorevoli a uno Stato palestinese. Se sul piano economico Tzipi Livni si distingue dall’alleato Isaac Herzog per le idee liberiste, su quello politico si dimostra più decisa di lui nel sostenere il processo di pace con i palestinesi.

IL SOLE 24 ORE - Ugo Tramballi: "Referendum su Netanyahu"

Anche Ugo Tramballi partecipa al coro contro Netanyahu. Ancora una volta, inoltre, parla di concetti assenti dal dibattito politico israeliano come quello di "Grande Israele": un modo come un altro per tacciare di militarismo e aggressività lo Stato ebraico, ignorando la realtà dei fatti.

Ecco il pezzo:


Ugo Tramballi

Ecco il pezzo:

Il manifesto ufficiale nel quale Isaac Herzog e Tzipi Livni posano con la sobria e convenzionale eleganza di tutti i politici che vogliono governare, dalla California alla Cina, dice: «Leadership responsabile». Una didascalia per indicare ciò che sembra mancare oggi a Israele e che domattina, dopo un martedì elettorale, il Paese forse avrà. Ma quello che rappresenta di più le ambizioni di Sionismo Unito e forse coglie il vero punto delle elezioni 2015, è un altro poster, appeso nei corridoi del quartier generale della lista, al 53 di Yigal Allon, davanti al palazzetto dove gioca il Maccabi. Un giovane dal corpo scolpito - l'ideale del sionismo contemporaneo che non ara più la terra dei kibbutz ma apre startup, si fa i muscoli in palestra e mangia sushi - sta per togliersi la maglietta sanitaria: «Il governo è come una canottiera. Se non lo cambi, puzza».

La canottiera è Bibi Netanyahu, primo ministro da sei anni ininterrotti, un record per le tradizioni politiche israeliane. C'è l'economia e la sicurezza; ci sono i poveri, in fondo non così sventurati come in altre parti del mondo, ma insopportabilmente poveri in un Paese ormai ricco come Israele; c'è da decidere se ultimare le conquiste territoriali della Grande Israele o ritirare gli insediamenti per fare spazio a uno Stato palestinese.

Ieri Bibi ha annunciato che se sarà eletto, uno Stato palestinese non nascerà mai. Ma il cuore, il punto di queste elezioni, è Benjamin Netanyahu: il voto per la Knesset nasconde un referendum su di lui. Non si tratta solo degli ultimi sei anni: Bibi aveva già governato dal 1996 al 99. Ma anche all'opposizione o nel breve oblio nel quale cadono tutti i politici d'Israele per poi risorgere, quella di Netanyahu è sempre stata una figura vistosa.

"A Wonderful Land", la satira che Channel 2 trasmette dal 2003, rappresenta Bibi Netanyahu esattamente come Maurizio Crozza interpreta Berlusconi: un mattatore, un politico dall'ego e dagli appetiti debordanti. «Tre mesi fa, quando ha annunciato le elezioni anticipate, nessuno pensava che potesse essere battuto. Per la gente Bibi era una forza della natura contro la quale non c'era niente da fare, votava per lui anche chi lo temeva o lo detestava», racconta Polly Bronstein, vicepresidente del movimento pacifista OneVoice. Poi lei e un gruppo di altri giovani hanno creato V-15 in un appartamento di Tel Aviv, vicino ai boulevard. Una star-tup politica, nata per convincere gli elettori ad andare a votare, battere Netanyahu «perché non è possibile avere un primo ministro che ha cattive relazioni con tutti i governi del mondo», e sciogliersi una volta raggiunti gli obiettivi. Molti dei giovani che hanno aderito ora sono sotto pressione, perché V-15, Vittoria 2015, non è un partito e dunque non ha l'obbligo di interrompere la sua campagna, sono creatori di startup tecnologiche.

E' un passaggio naturale perché il metodo è lo stesso: pensare e inventare. «Noi non diciamo alla gente per chi votare ma di andare a votare», spiega Polly. «Il nostro campo va dai centristi moderati all'estrema sinistra: alle ultime elezioni ha votato solo il 71%. Nei feudi del centrosinistra, a Tel Aviv ha votato solo il 62%, a Haifa il 58. Anche nel movimento dei kibbutz ha votato poco più del 60. Abbiamo creato una app con i nomi e gli indirizzi di tutti gli elettori di quest'area. Poi siamo andati a bussare porta a porta; siamo tornati una seconda volta, e lo stiamo facendo una terza con chi ancora è incerto». Chi crea una startup ha l'obbligo di essere pragmatico. Così a V-15.

«Se aumentiamo la partecipazione del 5% nel nostro campo, 180mila elettori in più, conquistiamo altri quattro seggi. Oggi bastano per mandare a casa Netanyahu. Ma non è un miracolo, è metodo». Forse Polly Brainstein esagera quando dice che «Bibi e le destre sono nel panico». Ma la reazione del premier contro V-15, diffusa sul suo profilo Facebook, è piuttosto putiniana: «Elementi dei giornali di sinistra in Israele e all'estero, hanno cospirato per portare Sionismo Unito illegittimamente al potere, con aiuti in denaro senza precedenti dall'estero». Un'oscura lobby ebraica contro Netanyahu: una contraddizione in termini, dopo il turbo-comizio al Congresso che i repubblicani americani gli avevano organizzato due settimane fa.

C'è aria di vittoria nei corridoi al 53 di Yigal Allon e a V-15, dove centinaia di volontari, giovani formiche determinate, stanno compiendo l'ultimo sforzo elettorale. E' dal 1999 che non accade. Il laburista moderato Herzog più Tzipi Livni, la pacifista venuta dalla destra più profonda (i suoi genitori erano militanti dell'Irgun, il sionismo più reazionario), sembrano la miscela giusta per vincere. Lo dicono tutti i sondaggi. Ma nessuno si sbilancia fino a sostenere che vinceranno tanto da formare un governo. L'ombra di Bibi, ai limiti di un'immortalità politica sconosciuta a Ben Gurion, Dayan e perfino a Shimon Peres, è ancora presente: potrebbe perdere le elezioni ma, con l'aiuto dei partiti minori della destra, vincere la coalizione per il suo quarto mandato.

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