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Ugo Volli
Cartoline
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Ripetizioni e novità – un'analisi strategica delle implicazioni del conflitto a Gaza 20/07/2014
Ripetizioni e novità – un'analisi strategica delle implicazioni del conflitto a Gaza
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli


A destra, l'evacuazione di Gush Katif nel 2005

Cari amici,

vale comunque la pena di fermarsi a riflettere con una certa prospettiva sulla guerra di Gaza, anche se non si fosse coinvolti profondamente come lo siamo noi. Gaza è infatti la prova e in un certo senso il simbolo più evidente di una trasformazione strategica che coinvolge tutti; ed è anche il tentativo di non arrendersi ai rischi che essa implica. Proprio il fatto che dal ritiro unilaterale israeliano del 2005,  lo stesso scenario (razzi di Hamas sulle città israeliane, reazione aerea israeliana, minaccia e qualche volta messa in opera di combattimenti terrestri) si sia ripetuto in molte occasioni, fra cui almeno tre episodi principali nel 2009, 2012 e oggi, mostra che non si tratta di vicende individuali, di malintesi, di errori tattici, ma che vi è un meccanismo politico fondamentale che porta al conflitto e insieme ne impedisce la soluzione definitiva. 
L'analisi fattuale è molto semplice. Nel 2005 Sharon ha creduto di doversi liberare di Gaza perché riteneva che Israele non potesse governare un milione e mezzo di arabi ostili. Vincendo un  conflitto molto grave dentro Israele ha scelto di staccarsene completamente, lasciando agli arabi e le strutture agricole e industriali costruite dagli israeliani in quarant'anni di lavoro. Inizialmente non vi era nessun blocco, nessun intervento sulla striscia, il progetto era la fine di ogni legame, la sperimentazione di un'indipendenza completa dei palestinesi e dunque di una convivenza magari fredda,  ma pacifica. Israele se ne andava sperando che Gaza funzionasse per conto suo come un luogo produttivo, fornito di un porto sul Mediterraneo, di potenzialità produttive agricole, di aiuti internazionali. Hamas però non la pensava così. Vedeva quel territorio come la base per conquistare tutto lo stato di Israele, la roccaforte da cui “liberare la Palestina” dagli ebrei. Nessuna convivenza pacifica, nessuno sviluppo economico e civile. L'esperimento dell'indipendenza palestinese ha portato solo alla guerra. Di conseguenza dopo aver cacciato l'Autorità Palestinese, Hamas ha fatto di Gaza un'immensa caserma, un luogo la cui sola vocazione è militare. Tutti quelli che si lamentano delle vittime del conflitto, della condizione infelice dei gazawi devono capire che tutti i problemi derivano da questa scelta. L'esperimento di Sharon è tristemente fallito. Bisogna fare i conti con la prospettiva ovvia che uno stato palestinese in Giudea e Samaria probabilmente seguirebbe lo stesso destino di una militarizzazione integrale, dell'uso come base per danneggiare il più possibile “gli ebrei”, della rappresaglia o autodifesa e dei danni e dei lutti che ne seguirebbero.

Soldati israeliani in uno dei tunnel costruiti da Hamas

Vediamo concretamente che cosa Hamas ha fatto a Gaza. In questi giorni stanno emergendo le migliaia di tunnel che conducono non solo fuori dai confini (per il contrabbando in Egitto e per gli attentati in territorio israeliano) ma servono da centri di comando, depositi e fabbriche di armi, luoghi di sparo dei missili, strutture di comunicazione: una città sotterranea grande come la Striscia, ha detto qualcuno. Per costruirla Hamas ha impiegato centinaia di migliaia di tonnellate di cemento e di acciaio, milioni di ore di lavoro, una quantità di denaro strabiliante. Ogni tunnel costa da due a quattro milioni di euro, e ce n'è migliaia. Aggiungeteci le armi, non solo le armi personali (che sono certamente centinaia di migliaia se non milioni, al prezzo di centinaia o migliaia di euro l'una), ma i 10 mila razzi di cui si parla, i mortai, i droni. Se valutate il prezzo medio di un missile intorno ai 10mila euro, più i costi esorbitanti del trasporto di contrabbando Hamas ha investito qualche centinaio di milioni solo in questo. Un'economia di guerra degna della Germania hitleriana, senza però altra base industriale o economica. Naturalmente questo significa fornitori (l'Iran, più lontano Corea del Nord, Cina e Russia) e soldi: finanziamenti diretti (dall'Iran, dal Qatar e dalla Turchia, soprattutto) e indiretti (ci sono molti soldi europei e americani che sotto vari pretesti finiscono a Gaza). Questi materiali vengono distrutti in parte dalle guerre, ma subito ricostruiti; il che significa che le fonti non si inaridiscono. Il blocco nasce dal tentativo di rendere difficile questo passaggio; se si allentasse, le guerre sarebbero più frequenti e sanguinose.
Israele vince ogni conflitto, ma non riesce a liberarsi dalla sfida e concretamente dalla minaccia alla sicurezza dei suoi cittadini che viene da Gaza. Sono sempre vittorie militari incomplete, spesso controbilanciate da sconfitte propagandistiche, ottenute da Hamas sfruttando i danni provocati dalla difesa israeliana nella popolazione di Gaza. La ragione dell'incompletezza sta nell'esistenza delle  fonti esterne di armi e denaro, che ricostituiscono l'arsenale di Hamas dopo ogni sconfitta, facilitate fino a tempi recenti dalla complicità egiziana rispetto al contrabbando. 
Ma vi è anche in qualcosa di più fondamentale, un cambiamento degli equilibri militari. Fino a una dozzina d'anni fa la differenza d'armamento fra le bande irregolari e gli eserciti statali era enorme, rendendo i guerriglieri sostanzialmente impotenti salvo che in situazioni estremamente periferiche e difficili, come l'Afghanistan o la selva cubana. Il destino di Guevara in Bolivia è un esempio chiarissimo; lo stesso vale in Medio Oriente per la sconfitta di Fatah nel “settembre nero” in Giordania. Soprattutto era molto difficile agli irregolari difendere un territorio. Potevano solo attaccare i punti deboli delle società avanzate Di qui forme di terrorismo come gli attentati suicidi nei centri commerciali e negli autobus, i dirottamenti aerei, gli omicidi casuali di passanti: crimini particolarmente odiosi, che non sono affatto finiti, come mostra il caso dei tre studenti rapiti e uccisi, o tutti gli atti di terrorismo che vanno sotto il nome di “resistenza popolare”. Ma anche delitti non decisivi sul piano militare, che servivano soprattutto a danneggiare il morale dell'avversario.
 Ma da qualche tempo accade che i movimenti terroristi possono avvalersi di armi sofisticate e però non difficilissime da usare. E quel che è accaduto in Ucraina, dove i separatisti probabilmente aiutati e istruiti dai russi, hanno abbattuto un aereo civile “per sbaglio” o forse per segnalare al mondo la loro forza. Fra l'altro, va detto che l'arma antiaerea che hanno usato è la stessa fornita dai russi ad Assad e che Israele ha dovuto bombardare per impedirne il trasferimento a Hezbollah, non si sa se riuscendovi del tutto. Il caso di Hezbollah e quello dell'Isis mostrano altri due casi in cui milizie irregolari diventano rapidamente abbastanza potenti per poter reggere il confronto con eserciti veri e magari batterli. Anche perché l'Occidente e in primo luogo l'America ha subito una sconfitta strategica del morale, è stanco di pagare dei prezzi per difendere il proprio predominio ed è preso dall'illusione (la stessa di Sharon) che i barbari alle porte possano essere pacificati lasciandoli a se stessi – col risultato di renderli invece più aggressivi e pericolosi. 
A questo si aggiungono i requisiti di correttezza nel comportamento bellico, che sono applicati solo agli eserciti regolari e non ai gruppi guerriglieri o terroristi che dir si voglia. L'ideologia legalista/progressista/terzomondista che prevale nelle organizzazioni internazionali e anche nei giornali e nell'opinione pubblica non bada agli abusi commessi dai ribelli ma si concentra su quelli degli eserciti regolari, cercando di paralizzarne l'azione, col risultato che larghe zone del mondo sono in condizione di anarchia: nel Medio Oriente innanzitutto, ma anche in nel Sinai, in Somalia, in Libia, in Afghanistan e Pakistan. Gli eserciti europei e americani quando possono si ritirano, illudendosi di sottrarsi così ai colpi del nemico (che prima o poi arriveranno anche sul loro territorio metropolitano, come è già accaduto soprattutto in Europa e l'11 settembre in America). Restano coloro che si trovano queste forze irregolari accanto a casa, come Israele e che devono comunque resistere, con la mani legate da un'assurda pretesa di “proporzionalità”. La proporzionalità nella difesa è esattamente il contrario della regola fondamentale della guerra, che impone per vincere il dispiegamento di una potenza almeno localmente del tutto sovrastante la violenza del nemico. La giuridificazione della politica e della guerra è un potente alleato di quelli che non la rispettano e non sono per questo incriminati, col pretesto che non sono Stati, ma in realtà a causa di un'ideologia razista all'incontrario, della favola del buon selvaggio rivisitata 250 anni dopo Rouseau dagli ideologi del politically correct. 
Hamas infatti sopravvive per questa doppia circostanza, di essere protetto da una simpatia internazionale che gli permette di commettere indisturbato i suoi crimini, ma protesta per ogni intervento che cerchi di contenerlo; e inoltre di riuscire a difendere il controllo del suo territorio con mezzi moderni, attaccando coi missili, nascondendosi in estese costruzioni sotterranee, usando senza dubbio un sistema avanzato di comando comunicazione e controllo. Chiunque sostenga che Hamas è stato tirato nella guerra senza volere, magari perché Israele ha rifiutato di appoggiare il governo di coalizione con l'Autità Palestinese, dovrebbe chiedersi come mai Gaza era in un livello di preparazione bellica, aveva una quantità di rifornimenti di armi e di ridondanza nei sistemi di comunicazione e di comando che gli sta permettendo di non cedere nonostante dieci giorni di attacco di un esercito evoluto ed efficiente come quello israeliano.
Nella situazione di Gaza bisogna però leggere anche degli altri elementi di segno contrario e sempre di interesse generale: il successo di “Iron Dome” (che sarà, ricordiamolo, solo un elemento di un sistema di difesa antimissile costruito da uno strato intermedio la “Fionda di Davide” contro i missili a lungo raggio e dagli Arrows già in servizio ma in via di perfezionamento, contro quelli intercontinentali ) depotenzia le possibilità aggressive delle forze medie e piccole, per esempio toglie credibilità alle minacce siriane, di Hezbollah e anche in prospettiva dell'Iran, che prima o poi avrà l'armamento atomico data la remissività se non la complicità di Obama, ma non è detto riesca mai a farlo arrivare a destinazione, almeno non coi missili – ma qui si riaprirà uno spazio pericolosissimo per il terrorismo. Bisogna notare infatti che da Gaza e dall'Ucraina si vede l'assoluta mancanza di scrupoli e perfino di buon senso dei terroristi attuali, capaci di cercare di bombardare una centrale nucleare a quaranta chilometri da casa o di abbattere una aereo passeggeri di una nazionalità estranea al conflitto – cose che non si erano mai viste prima.
L'ultimo elemento da considerare, in questa rassegna di novità, è il re-allineamento delle alleanze in atto. E' chiaro che per l'Egitto – e dietro di lui per l'Arabia Saudita – in questo momento Israele è un avversario meno pericoloso di Hamas (e dietro di lui il Qatar e la Turchia). In questa situazione l'Europa è completamente impotente, parolaia, ideologica, incapace di assumersi le sue responsabilità e gli Stati Uniti sotto la guida di Obama sembrano avviati sulla stessa strada. Il fallimento dei tentativi di cessate il fuoco indica questa situazione molto complessa e nuova. Che non è necessariamente negativa, in questo caso, perché rende Israele meno vulnerabile di un tempo alla pressione internazionale e nella condizione, se riuscirà a cogliere l'occasione, di infliggere seri danni a Hamas e magari anche di chiudere una partita che, come dicevo all'inizio, sembra incantata e ripetitiva all'infinito proprio perché non gli è stato permesso in passato di andare aventi nella sua azione fino alla vittoria.



Ugo Volli

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