Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Soda Stream, una fabbrica che non fa discriminazioni fra chi ci lavora commenti di Fiamma Nirenstein, Fabio Scuto
Testata:Il Giornale - La Repubblica Autore: Fiamma Nirenstein - Fabio Scuto Titolo: «fabbrica della vera pace che infastidisce chi odia Israele - Nella fabbrica di Scarlett che rischia il boicottaggio»
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 04/02/2014, a pag. 13, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " La fabbrica della vera pace che infastidisce chi odia Israele ". Da REPUBBLICA, a pag. 42, l'articolo di Fabio Scuto dal titolo " Nella fabbrica di Scarlett che rischia il boicottaggio ".
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " La fabbrica della vera pace che infastidisce chi odia Israele "
Fiamma Nirenstein Scarlett Johansson per Soda Stream
Gerusalemme Sabbia e pietre, una fila di palme al vento e là nel mezzo la domanda (i territori occupati) e la risposta (il rispetto e l’amicizia fra israeliani e palestinesi) che insieme si presentano sotto forma di una fabbrica di macchinette per l’acqua gassata, arricchita di sapori da bambini: fragola, arancia, mela. Ma la storia non è per bambini: nasce infatti da«un’ossessione antisraeliana », come ha detto il ministro canadese Jason Kenney, che è venuta in piena luce perché l'attrice Scarlett Johansson ha rifiutato di cedere all’aggressione al vetriolo per aver fatto la reclame a questa fabbrica, Soda Stream, nei Territori occupati. Scarlett ha spiegato che in quella fabbrica si fanno passi verso una vera pace perché vi lavorano alla pari, nel rispetto, palestinesi e israeliani. Un gran coraggio che l’ha portata alle dimissioni da Oxfam, l’organizzazione «per i diritti umani» che ora si dimostra un centro di boicottaggio antisraeliano, di cui per otto anni è stata ambasciatrice. L’attacco a Soda Stream ci insegna molte cose sul boicottaggio contro Israele, sul suo cinismo. Il suo nemico non sembra essere l’occupazione quanto il buon rapporto fra palestinesi e israeliani, il suo obiettivo non la pace ma l’incitamento, e se ci vanno di mezzo i lavoratori palestinesi, che importa. In fabbrica a Mishor Adumim l’ambiente è vasto e pulito, popolato di operai in tuta che avvitano, spostano, caricano. A un certo punto li trovi tutti a un tavolone a montare pezzi, il brusio è fitto, in arabo, in ebraico. Il miracolo della fabbrica del demonio: là, nei territori, l’uno a due centimetri dall’altro, ebrei e palestinesi si passanoi pezzi da controllare e chiacchierano contenti. Stesso guadagno, stessa mensa, la mattina tutti in pulmino, tutti con l’assicurazione e la pensione. Il rifiuto di Scarlett Johansson di attenersi alla versione codina e conformista della campagna di boicottaggio, ha fatto emergere una realtà insopportabile per chi punta tutto sulla malvagità dell’occupazione: al di là della diplomazia, dell’aggressione politica,dell’incitamento palestinese, quando i lavoratori sono rispettati, pagati, assicurati, accuditi fanno una cosa incredibile: la pace. In questa fabbrica (ne ha 8 in Israele) Soda Stream ha 1200 lavoratori di cui 500 arabi israeliani, 450 palestinesi, 150 vari, 300 israeliani.Parlano animatamente l’uno con l’altro, fanno un po’ di scena per la stampa e per la delegazione di parlamentari italiani in visita? Può darsi, ma esistono molte situazioni analoghe, per esempio nella zona industriale di Barkan. Ventimila palestinesi lavorano nei Territori e se a causa del boicottaggio anche solo Soda Stream chiudesse, a patire la fame sarebbero 5000 persone. Nel ’67 (quando questa zona era giordana) qui c’era una vecchia fabbrica di armi. «Soda Stream»che è una compagnia quotata al Nasdaq e che esiste da 107 anni, mentre costruiva altri 8 siti, mise in piedi la struttura secondo una visione logica e invisa a chi odia Israele: siamo fra palestinesi e israeliani, lavoriamo insieme. Qui non ci sono minacce né violenza, dicono i capireparto che sono sia arabi che israeliani. «La politica resta fuori - dice Ahmad Nasser, 28 anni, 2 bambini- questo è un ponte di pace. Lavorando qui mantengo al mio villaggio, Jabaar, 8 persone, molti miei colleghi ne mantengono 10. Quante ne vuole mettere per la strada Oxfam?». Durante il pranzo alla mensa quando il direttore Daniel Birnbaum ha ricordato che Scarlett ha preferito dimettersi da Oxfam piuttosto che abbandonare Soda Stream, fra gli operai è scoppiato un grande applauso. Gli Ahmad e i Muhammad qui guadagnano fra tre e quattro volte di più dei loro compatrioti, cioè fra i 2200 e i 1200 dollari. «E da noi c’è il 30 per cento di disoccupazione ». Ahmad spiega che gli ebrei sono suoi amici, che sono venuti al suo matrimonio, che il quarantenne dirigente è arabo, un mondo nuovo. Ma la battaglia per la vita contro le campagne di boicottaggio è continua: avvocati, ricorsi, perdite di tempo, anche se la stazza internazionale di Soda Stream ( ha succursali in tutto il mondo) la protegge. Ma c’è voluta santa Scarlett per spalancare la grande domanda: i gruppi di boicottaggio sono contro o a favore dei palestinesi? www.fiammanirenstein.com
La REPUBBLICA - Fabio Scuto : " Nella fabbrica di Scarlett che rischia il boicottaggio"
Fabio Scuto Operai di SodaStream
MISHOR ADUMIM - La fabbrica della discordia è appoggiata sopra una collina arida e desolata. Sull’altura a fianco svettano le villette a schiera di Ma’ale Adumim — l’insediamento più grande attorno a Gerusalemme con oltre 30 mila abitanti — tirate su in questi ultimi dieci anni dai muratori palestinesi ingaggiati a giornata da piccoli costruttori israeliani. È una zona riarsa dal sole e battuta dal vento caldo, percorsa dai pastori beduini che con le loro greggi ancora attraversano queste alture che annunciano il deserto. Siamo nella cosiddetta “zona C” della Cisgiordania, sui cui destini da anni è bloccato il negoziato di pace e che provoca le scintille nei rapporti fra Israele, Anp, Stati Uniti e Europa. Non ci sono insegne, ma l’impianto della SodaStream è ben visibile. La fabbrica è qui da 22 anni, ma dopo l’accattivante spot pubblicitario con Scarlett Johansson, si è attirata gli strali del movimento globale pro palestinese “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni” che ha chiesto all’attrice di fermare subito la sua collaborazione con un’azienda dalle “bollicine insanguinate”. Prova a sorridere Maurice Silber, l’advisor del presidente di questa multinazionale, facendo strada nell’impianto che lavora a pieno ritmo perché il “prodotto” è un successo internazionale dalla Cina all’Europa, dal Sudafrica agli Stati Uniti. «È basato su un’idea semplice: con l’acqua del rubinetto chiunque a casa si può fare la sua minerale con le bollicine e 156 altre bevande, al gusto di cola, arancia, tamarindo, menta...» a un prezzo irrisorio. Senza fare nomi c’è di che far tremare diversi colossi mondiali delle bibite, che seguono con qualche ansia il rapido sviluppo di SodaStream e la sua ascesa al Nasdaq di New York. «Venga, entriamo nel reparto di assemblaggio del prodotto», dice Silber aprendo l’ingresso di una delle quattro-cinque differenti installazioni. All’interno un centinaio di operai, in tuta con logo dell’azienda, lavorano al montaggio. «In questa fabbrica lavorano 1.300 persone, ed è una composizione mista, di cui 900 musulmani e di questi circa 500 con carte di identità dell’Autorità nazionale palestinese e altri 400 arabi israeliani. Ma ci sono anche israeliani, russi, etiopi e altre provenienze». Tutti, sottolineano dalla direzione dell’impianto, ricevono prestazioni sociali in conformità con le leggi israeliane; «inclusi contributi pensionistici e assicurativi, e poi anche altri benefit lavorativi: pasti caldi, abbigliamento, trasporto, e straordinari pagati al 200% come stabilisce la legge israeliana, qui come negli altri 8 impianti uguali a questo presenti in Israele». Respinge al mittente le critiche piovute sull’azienda «e possiamo dimostrarlo con i fatti», spiega Yossi Arazzar, direttore operativo di SodaStream. «Noi la vera pace la facciamo qui, questa fabbrica è uno splendido esempio di coesistenza pacifica che conduce a una prosperità economica da cui tutti traggono vantaggio, vengono rispettate le festività di tutte le confessioni religiose e favoriamo lo scambio culturale, come testimonia il fatto che non abbiamo mai ricevuto minacce». Forse i più stupiti di tanta attenzione attorno a “questa” fabbrica sono proprio gli operai palestinesi. In una delle sale dove si inscatolano gli apparecchi finiti, Jibril S. — un palestinese di 28 anni, sposato con due figli, e altri 4 parenti da mantenere — racconta: «Se la fabbrica chiudesse sotto la pressione del movimento Bds, i palestinesi non avrebbero altra possibilità di lavorare, mentre gli israeliani potrebbero certamente trovare un impiego altrove. Qui veniamo da Hebron, Ramallah, Gerico, Gerusalemme Est. In fabbrica non c’è discriminazione e lavoriamo tutti insieme. Ed è la cosa migliore». Il salario? «È uguale per tutti, di base sono 5.500 shekel (circa 1200 euro) al mese». Delle polemiche di questi giorni Jibril non sa nulla e Scarlett Johansson non l’ha mai vista nemmeno al cinema e a Ramallah nessuno ha visto l’altra notte lo spot al SuperBowl. L’attrice, dopo le polemiche sullo spot pubblicitario che la vede protagonista, ha deciso di non essere più dopo 8 anni ambasciatrice dell’ong Oxfam, il gruppo umanitario internazionale che condivide in parte le posizioni del Bds e che ha ritenuto incompatibile la posizione dell’artista. Lei ha parlato invece «di fondamentale divergenza di opinioni sul boicottaggio ad Israele». «La signora Johansson verrà presto a vedere con i suoi occhi questa fabbrica », conferma Arazzar. Il problema non è cosa produce SodaStream, ma dove viene prodotto e cioè l’Area C, sui cui destini lo scontro diplomatico internazionale ogni giorno diventa più duro. «Sgombriamo il campo da molte inesattezze», spiega ancora Maurice Silber, «non abbiamo avuto nessun finanziamento né aiuti» — anzi i rapporti sono abbastanza tesi fra la società e il governo di Benjamin Netanyahu — «ma certo se un domani questa zona passasse sotto controllo dell’Anp, non è detto che ce ne andremmo. Abbiamo 25 impianti in tutto il mondo, mi chiedo perché non dovremmo averne anche in Palestina ».
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