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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
26.08.2013 Egitto: meglio i militari degli islamisti
intervista a Naguib Sawiris di Fausto Biloslavo, cronache di Giovanni Cerruti, Vittorio Sabadin

Testata:Il Giornale - La Stampa
Autore: Fausto Biloslavo - Giovanni Cerruti - Vittorio Sabadin
Titolo: «L’Egitto si è liberato di una dittatura - Il triste risveglio del Cairo. 'Due anni di rivolte per nulla' - Spranghe e Corano. La vendetta islamista sui tesori dei faraoni»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 26/08/2013, a pag. 11, l'intervista di Fausto Biloslavo a Naguib Sawiris dal titolo " L’Egitto si è liberato di una dittatura ". Dalla STAMPA, a pag. 12, l'articolo di Giovanni Cerruti dal titolo " Il triste risveglio del Cairo. 'Due anni di rivolte per nulla' ", a pag. 13, l'articolo di Vittorio Sabadin dal titolo " Spranghe e Corano. La vendetta islamista sui tesori dei faraoni ".
Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : " L’Egitto si è liberato di una dittatura "


Naguib Sawiris

Naguib Sawiris è un magna­te delle telecomunicazioni egi­ziano. Cristiano copto, ha con­trollato per un periodo anche Wind Italia. Nei giorni del caos al Cairo si è incontrato a Bruxel­les con la baronessa Catherine Ashton, rappresentante della politica estera Ue. Nell'intervi­sta esclusiva al Giornale ribalta lo stereotipo rilanciato dai me­dia sulla repressione dei Fratelli musulmani.
Lei è egiziano. Cosa pensa della caotica situazione nel suo Paese?
«Il popolo egiziano è sceso in piazza con milioni di persone, pacificamente e senza una sola vittima, per liberarsi di una ditta­tura religiosa fascista. Dall'altra parte i raduni dei Fratelli musul­mani non erano dello stesso te­nore. Nascondevano armi, ci so­no stati dei casi di torture (di so­spetti informatori della polizia ­nda) e hanno usato bambini co­me scudi umani. Non poteva an­dare avanti così. Dopo l'inter­vento delle forze di sicurezza ogni giorno che passa la violen­za sta diminuendo. L'Egitto è ben più tranquillo di prima».
Secondo lei la maggioranza degli egiziani appoggia i milita­ri o la Fratellanza islamica?
«I 20-30 milioni di egiziani sce­si in piazza erano tutti contro i Fratelli musulmani. È chiaro che la maggioranza della popo­la­zione si oppone alla Fratellan­za e alle loro attività terroristi­che. Per la prima volta i Fratelli devono subire l'avversione del 'popolo', come mai era accadu­to prima. In passato erano stati repressi sotto Nasser, Sadat e Mubarak. Oggi è il popolo egizia­no che vuole sbatterli fuori. Solo i Fratelli musulmani, che conta­no sul 5- 10% della popolazione, si oppongono ai militari. Anche i salafiti, un altro gruppo islami­co, si sono schierati con l'eserci­to ».
Circa un migliaio di persone sono state uccise dal 14 agosto durante le proteste dei Fratelli musulmani, in gran parte dal­le forze di sicurezza. Cosa pen­sa di questo bagno di sangue?
«Mi dispiace molto per qualsi­asi goccia di sangue egiziano ver­sata. Comunque non possiamo imputare alle forze di sicurezza di aver risposto al fuoco che arri­vava dalla parte dei dimostran­ti. Un centinaio di agenti sono stati uccisi. Se i raduni fossero stati pacifici non sarebbe acca­duto ».
Lei è copto. I cristiani in Egit­to sono minacciati?
«Gli estremisti e i loro seguaci sono dei codardi che bruciano i simboli e le attività dei cristiani. Sessantaquattro chiese ed istitu­zioni cristia­ne sono state date al­le fiamme in soli tre giorni, com­presi due luoghi di culto del III e IV secolo. Per non parlare dei ne­gozi di cristiani attaccati».
Migliaia di italiani vanno in vacanza in Egitto. Il turismo e l'economia in generale sono a rischio?
«Momentaneamente sì, ma spero che con l'inizio della sta­gione invernale pace e stabilità saranno ristabiliti e potremmo riaccogliere tranquillamente i turisti».
L'Europa e gli Stati Uniti ha­n­no minacciato ritorsioni per la violenta repressione al Cairo. Cosa ne pensa?
«È stata una mossa frettolosa e sbilanciata. La volontà popola­re ha abbattuto Morsi e il suo re­gime. L'esercito è intervenuto solo per appoggiare le intenzio­ni del popolo e prevenire lo scop­pio di una guerra civile».
Pensa che il generale Al Sisi, ministro della Difesa e uomo forte del governo transitorio, sarà il prossimo presidente egi­ziano in stile Nasser?
«No, perché sarebbe percepi­to come un colpo di Stato di cui molti già lo accusano. Nono­stante posso garantire che se chiedi a qualsiasi egiziano chi sia l'uomo più popolare nel Pae­se, in questo momento, tutti ri­spondono Al Sisi».
Lei appoggia l'idea dei Fra­telli musulmani fuorilegge?
«La loro costola politica, il par­tito Giustizia e libertà, deve con­tinuare ad operare secondo la legge. I Fratelli musulmani, in­vece, sono un movimento clan­destino. Non obbediscono alle leggi e non sono mai stati traspa­renti sulla provenienza dei loro fondi».
Cosa pensa della primavera araba?
«Come le stagioni dell'anno deve essere seguita dall'estate, l'autunno e l'inverno fino a quando riusciremo a raggiunge­re la visione finale della rivolu­zione ».
Turchia, Qatar, ma pure l'Iran, hanno duramente con­dannato la repressione dei Fra­telli musulmani. È un'interfe­renza nei problemi egiziani?
«Sì. E penso che gran parte di questi paesi non democratici non siano proprio nella posizio­ne di condannare. Prima di par­lare che guardino a casa loro».

La STAMPA - Giovanni Cerruti : " Il triste risveglio del Cairo. 'Due anni di rivolte per nulla' "


Abdel Fatah el Sisi

Dal quartiere delle ambasciate su fino a Piazza Tahrir, i cani fiutando cercano esplosivo tra le piante, in mezzo ai rifiuti lasciati da taxisti senza clienti e senza lavoro. All’alba andranno a riposare all’ingresso degli alberghi, tanto son poche le auto in arrivo dall’aeroporto, non ci sono nemmeno i facchini, nemmeno i ragazzini che chiedono un dollaro, un euro, una moneta qualsiasi. Una città al rallentatore, ancora impaurita. 22 milioni di cairoti, come tutto l’Egitto, in Stato d’Emergenza.

Davanti all’Hilton Ramses c’è sempre Amina, 12 anni, che aspetta e picchia l’asfalto con la sua la zampa destra. Sarà un’altra buona giornata, solo per lei. Con il sacco di paglia appeso al muso guarderà il padrone Hamed che dormicchia su una sdraio. Quando si sveglia Hamed Rafik dice quel che dicono i suoi colleghi, o i taxisti, o i barcaioli. «Maledizione, ma quando finisce tutto questo, qui mangia solo Amina. In una settimana ho incassato solo venti dollari, appena un viaggio con una giornalista della tv inglese sulla mia carozzella. Per la metà, dei dollari, adesso, sono pronto ad andare dappertutto...».

Non a Piazza Tahrir, che poi sarebbe qui dietro. All’altezza del convento delle «Religiose Francescane Missionarie d’Egitto», il portone sprangato e protetto da una lastra di ferro, due carri armati bloccano la strada. Non passerebbero neppure Amina e le altre carrozzelle. I soldati hanno il basco rosso, sono giovani, di leva. Taref ha 23 anni e studia microbiologia all’Università di Al Ahzar: «Ci hanno richiamato la mattina di Ferragosto, dopo gli scontri davanti alla moschea di Rabaa Al Adawiya». Paga raddoppiata, in questi giorni. Venti dollari, come l’unico viaggio di Hamed e Amina. Guadagnano solo i militari, al Cairo.

Un carro armato anche davanti ai muri rosati del Museo Egizio e Sayed il taxista sta seduto all’ombra del bagagliaio. «Rinuncio all’aria condizionata, non posso mica sprecare benzina». Dice che gli viene malinconia a star fermo qui. «Era il posto più trafficato di questa città, arrivarci era un’impresa, turisti in coda all’ingresso e in coda all’uscita. Io ho tre figli, mi andava bene, lavoravo con almeno 50 alberghi, mi chiamavano sul telefonino. Dalla mattina del 14 agosto non mi è mai arrivata una chiamata. Ora aspetto due della tv canadese, sono andati a vedere se il Museo è aperto. Ma è chiuso, è chiuso. Qui è tutto chiuso».

Sayed passa due ore più tardi dall’albergo. «Andiamo a vedere la Piramide di Giza? Andiamo allo Zoo? Andiamo a vedere il Canale di Suez?». Sta scherzando. La Piramide si vede da lontano, ed è in fondo al quartiere tra i meno tranquilli, ogni giorno sempre un corteo, ogni giorno sempre meno Fratelli Musulmani in strada, ogni giorno i militari dal basco rosso sempre pronti a sistemare rotoli di filo spinato e i carri armati in mezzo alla strada. Da qui a Suez, un’ora di macchina, s’incontrerebbero solo soldati, posti di blocco, controlli. A proposito, è chiuso anche lo Zoo.

L’ultimo venerdì è stato più di preghiera che di rabbia. Buon segno per il governo del generale Al Sisi, buon segno per chi spera nella fine del coprifuoco. Certo, ancora cortei in città, morti e feriti sul delta del Nilo, ma lontano dal Cairo. I Fratelli Musulmani sono nelle gabbie del carcere di Tora, o più a nord in quello di Abu Zaabal, nel deserto, dove le guardie agitano i manganelli per tener lontane mosche grandi come noci. O sono ingabbiati dal filo spinato nei quartieri, protetti dai vicoli dove il coprifuoco vale poco, la polizia non entra, e i narghile mai spenti mandano odore di tabacco alla mela anche nella notte.

Alle sei, un’ora prima del coprifuoco, i barcaioli se ne vanno dal lungo molo della Corniche. Niente, anche questa giornata è senza lavoro, senza turisti, senza mance. Mohamed Sahank aveva caricato il sacco con i pistacchi, le pannocchie abbrostolite, cocomeri e carote sottaceto, l’acqua e i succhi di frutta. «Sulla mia barca ho cinquanta, sessanta posti. Con mezzo dollaro a passeggero mi facevo due, tre viaggi al giorno sul il fiume, era la mia manna». Lo stipendio medio di un egiziano è 400 dollari al mese. «Quando andava bene li facevo in una settimana», dice Mohamed. Questo mese ha incassato solo 100 dollari, dice.

La sera i ristoranti degli alberghi sono una tristezza. Solo giornalisti, sempre meno giornalisti. Famiglie di ricchi egiziani si sono trasferite qui, ma cenano nelle suite, si vedono poco. Non escono. Il passatempo sono i matrimoni, ma le feste devono finire prima del coprifuoco, e non ci sono i balli, non ci sono i fuochi d’artificio, meglio non uscire in terrazza. I giornalisti escono, sono qui per questo. E a sera c’è l’appello, chi manca? E’ obbligatorio un permesso, si fa la coda per la domanda, si aspetta. E intanto? «Se andate in giro come turisti nessun problema, ma se fate i reporter la polizia vi arresta». Grazie.

I canali tv hanno in basso a sinistra la scritta «L’Egitto combatte contro il terrorismo», come la Cnn dopo l’11 settembre. Perche il Cairo continui a non dimenticare «l’attacco del fascismo teologico e religioso». Perchè l’Egitto si stringa a chi combatte e lo difende, al generale Al Sisi nuovo Faraone, forte come Mubarak quand’era forte, come Sadat, come Nasser. Ma si vede poco in tv, il generale. Non ne ha bisogno. Il suo nome si sente solo negli slogan dei Fratelli, «Sisi nemico dell’Islam». O nei cortei delle donne che agitano il cartello giallo con il numero 4, in arabo così simile a Rabaa, la moschea della prima strage.

Non ci sono sirene per il coprifuoco. A dire che è l’ora sono i colpi dei cingoli di carro armato attorno a piazza Tahrir. Sono le sette, il Caffè Groppi e il Cafe Riche si sono svuotati da mezz’ora, a casa gli scrittori, gli attori, i musicisti, gli intellettuali laici e ora disorientati, i ragazzi di Tamarod che non si aspettavano di veder Mubarak uscire di prigione. Mohamed Nabwy dice che «è tutto così strano, due anni fa l’avevamo cacciato ed è già tornato: e ce ne dobbiamo andare noi». Nell’ Egitto della “Restaurazione” i Tamarod restano senza piazza e senza voce. Nella notte di Tahrir si sentono solo i cani.

La STAMPA - Vittorio Sabadin : " Spranghe e Corano. La vendetta islamista sui tesori dei faraoni "

La comunità internazionale deve certamente dare priorità al ritorno della democrazia in Egitto ed evitare che ci siano altri scontri e altre vittime, ma non una sola parola è stata spesa né dagli Stati Uniti né dall’Europa per fermare il grande saccheggio di millenari reperti archeologici in corso nel Paese. Da mesi, approfittando del caos e dell’attenzione dei media concentrata solo sulle piazze del Cairo, molti siti archeologici vengono attaccati da uomini armati, i musei più lontani dalla capitale sono devastati, le piramidi meno famose e meno protette sono violate e le loro pietre di nuovo usate per costruire muri e case.

Contro questo scempio si battono, impotenti, poche coraggiose persone. Monica Hanna, un’archeologa di 29 anni, era a Mallawi nei giorni del saccheggio del museo, che custodiva importanti reperti scavati nell’area di Amarna. Era in corso una manifestazione di Fratelli musulmani in favore del loro leader Mohamed Morsi, quando alcuni giovani armati sono entrati nell’edificio. Hanno ucciso l’uomo alla biglietteria, spaccato le vetrine e razziato tutto quello che c’era: di 1.089 reperti, 1.050 sono stati portati via. Le statue più pesanti sono state abbandonate sul pavimento, ma più tardi qualcuno è tornato con sbarre di ferro per distruggerle. «Ho cercato di fermarli – racconta Hanna – e mi hanno risposto che volevano rompere tutto per punire il governo, che al Cairo uccideva i loro compagni. Ho detto loro che stavano distruggendo oggetti che appartenevano da millenni al popolo egiziano e non al governo del Cairo, ma non hanno capito. Mi hanno insultata perché non portavo il velo».

I saccheggiatori hanno bruciato due mummie e rubato pezzi davvero unici, come un busto della sorella di Akhenaton, il faraone della diciottesima dinastia che istituì a Tell el-Amarna il culto del dio solare Aton. Il busto di sua moglie, Nefertiti, è per fortuna al sicuro nel Neues Museum di Berlino.

Pochi chilometri a Sud del Cairo, la necropoli di Dahshur è crivellata di buche scavate nel terreno da saccheggiatori di tombe. Nella vasta area archeologica ci sono le piramidi di Snefru, il padre di Cheope, e la piramide nera sotto la quale, nel 1800 a. C., il faraone Amenemhat III fece scavare un complesso dedalo di cripte e cappelle. La zona, che è stata per lungo tempo area militare e che veniva usata da re Farouk come riserva di caccia, è considerata ancora vergine dagli archeologi, e si ritiene che nasconda eccezionali reperti.

Una notte – ha raccontato Said Hussein, uno dei responsabili del sito - sono arrivati 30 uomini armati di mitra, hanno rotto un braccio al custode e hanno sfondato il cancello per scavare nell’area. Nessuno contrasta i predatori: molte guardie sono state richiamate al Cairo a sedare i disordini, e le poche rimaste non vogliono rischiare la vita per una misera paga. Così anche gli abitanti della zona hanno cominciato a scavare indisturbati, sperando di trovare il reperto che cambierà loro la vita.

Altre razzie sono state segnalate a Abu Rawash, Abusir, El Hibeh e Luxor, e un tentativo di distruggere le collezioni custodite a El Bahnasa è stato respinto. Il saccheggio di un patrimonio che appartiene all’umanità va avanti da due anni, a causa dell’impotenza di chi dovrebbe impedirlo. Il ministero delle Antichità si finanzia con i soldi dei turisti, ma di turisti non ce ne sono più. Con le poche lire rimaste, il ministro Mohamed Ibrahim ha promesso il perdono e una ricompensa a chi restituisce oggetti trafugati, e nei giorni scorsi qualche pezzo poco importante è tornato al museo di Mallawi.

Nella comunità internazionale degli archeologi c’è il terrore che si possa ripetere l’attacco al museo del Cairo avvenuto nel gennaio 2011, durante i primi disordini contro il presidente Hosni Mubarak, nel quale furono rubati circa 50 reperti, alcuni appartenenti al corredo funebre di Tutankhamon. Il museo è chiuso ma, nonostante i carri armati che lo circondano, non è per niente al sicuro.

Su Facebook si è organizzata una Egypt’s Heritage Task Force, una comunità composta da esperti e da cittadini comuni, egiziani e stranieri, che segnalano i saccheggi di cui sono venuti a conoscenza, documentandoli con foto. Scorrere l’elenco, che si allunga ogni giorno, riempie di indignazione e tristezza. Speriamo che a Washington, a Mosca e a Bruxelles, dove si discute tanto sul destino di questa oscura «primavera egiziana», qualcuno se ne accorga, e levi almeno una voce.

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