Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Siria, il conflitto si estende al Libano Intanto Kerry spinge per armare i ribelli. Cronache di Claudio Gallo, Mattia Ferraresi
Testata:La Stampa - Il Foglio Autore: Claudio Gallo - Mattia Ferraresi Titolo: «Così tra le strade di Tripoli si combatte la guerra ad Assad»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 24/06/2013, a pag. 11, l'articolo di Claudio Gallo dal titolo " Così tra le strade di Tripoli si combatte la guerra ad Assad ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " La guerra di Kerry sulla Siria fra fantasmi e calcoli". Ecco i pezzi:
La STAMPA - Claudio Gallo : " Così tra le strade di Tripoli si combatte la guerra ad Assad "
Claudio Gallo
È il teatro sbrindellato d’una tragedia arcaica Syria Street, nel cuore di Tripoli, la città più irrequieta del Libano, sempre prossima a esplodere in qualche conflitto politico mascherato da scontro settario. Le quinte sono di cemento grezzo, traforato dai buchi dei proiettili e dalle cavità aperte dai razzi. Dal 1975, il debutto della strana guerra civile libanese piena di stranieri, lo scenario non è cambiato, in basso c’è Bab al Tabasseh, il quartiere sunnita, in alto c’è Jabal Moshen, il quartiere alawita. In mezzo c’è la morte.
Il Libano è appena un quarto della California e da Beirut a Tripoli s’impiega soltanto un’ora, salendo a Nord. Ancora cinquanta chilometri e c’è la Siria. Più povera della capitale, 500 mila abitanti, è la roccaforte dei sunniti conservatori. Stendardi neri salafiti sventolano appesi ai pali della luce nelle strade principali. Un cartello mostra il volto sorridente del re saudita Abdallah, grande finanziatore degli islamisti locali. C’è anche qualche foto dei martiri caduti combattendo contro il regime in Siria, come nei quartieri sciiti di Beirut ci sono quelle dei miliziani di Hezbollah. Giovani volti barbuti chiusi nel sudario bianco, aggiustati nel sorriso inquietante di chi entra in paradiso.
Il clima è «business as usual», ma la tensione scappa fuori ad ogni occhiata. La piccola moschea all’inizio di Syria Street è innaffiata di proiettili, come se dall’altra parte sparassero a caso, dove viene viene. Ma guardando in su, verso le case mezze in costruzione di Jabal Moshen è lo stesso. Una rabbia incontenibile vomita fuoco di qui e di là, in ondate di cieco furore. Le auto passano ma la maggior parte dei negozi è chiusa. «Tu non li vedi, ma loro vedono te», dice Mohsen Sakkal giornalista della tv cristiana Mtv, riferendosi ai cecchini. Dal 2008 ci sono stati 18 battaglie con un centinaio di morti e molti feriti.
Per entrare a Jabal Moshen, il monte di Mohsen, bisogna passare un posto di blocco dell’esercito con i bidoni pieni di sabbia rossi e bianchi e il cedro stilizzato. I soldati indossano il giubbotto antiproiettile e l’elmetto di kevlar nel caldo infernale. Acquattato tra i sacchi, un vecchio blindato M113A2, che debuttò in Vietnam. Come succede in Libano, l’iconografia ti dice dove sei: ritratti del presidente Assad ricordano che si è entrati in un’area filo-siriana. Salendo s’incrociano grosse jeep Humvee piene di soldati, con la mitragliatrice M2 Browning pronta all’uso.
Sul lato della montagna che dà sul quartiere sunnita c’è la sede del leader alawita Refaat Eid, capo del Partito Arabo Democratico, una costruzione bassa di cemento armato che si appoggia al pendio. Gli alawiti sono una setta islamica della galassia sciita a cui appartengono gli Assad. Nel suo ufficio i soliti ritratti che marcano l’appartenenza politica: quello in posizione d’onore non è di Bashar, ma di suo padre Hafez al Assad, il leone di Damasco. Un grande schermo televisivo trasmette il mosaico delle telecamere di sicurezza.
Sulla quarantina, Eid siede sulla sedia che prima era di suo padre Ali, grande amico di Martin Luther King. «Come può vedere - dice - la guerra siriana è già passata in Libano». L’ipotesi che sia una guerra religiosa lo fa arrabbiare. «Ma quale guerra settaria, qui trova le intelligence di tutto il mondo: americani, russi, francesi, sauditi, qatarini. C’erano solo due stati che proteggevano le minoranze in Medio Oriente: la Siria e il Libano. E ora sono sotto attacco, ma la religione non c’entra, alcuni dei miei alleati sono sunniti». Secondo lui i salafiti, sponsorizzati dalla Turchia e dal Qatar, stanno trasformando i territori siriani che controllano in basi terroristiche, da cui domani partiranno gli attentati contro l’Europa. «Noi ci battiamo per sopravvivere - dice - in Siria siamo 15 mila assediati da un milione di sunniti».
L’arcinemico degli alawiti abita nel quartiere di Abu Amra, in cima a un’altra collina, roccaforte dei salafiti. I salafiti sono un movimento islamico rigorista nato nel XIX secolo che si propone di ritornare alla purezza delle origini musulmane. Dai al Islam al Shahal, uno dei fondatori del movimento salafita libanese, sta in un condominio da cui si vede Tripoli scendere verso il mare. Nella casa accanto abitava Abd Majid Rafii, segretario del partito Baath filo-iracheno, grande amico di Saddam Hussein. La finestra dello studio dà sulla distesa di cemento del centro e, appena sotto, sulle cupole verdi e i minareti della moschea mamelucca di Taynal. Lunga barba bianca, tunica e velo bianco in testa, calzini bianchi, solo le scarpe nere. Anche lo sceicco siede sulla sedia che fu di suo padre Salem.
Non vuole sentire parlare di pace. «Troppo tardi - dice - l’occidente ha lasciato che i massacri andassero troppo avanti. Non capisco questa vostra pazienza, sospetto che vi vada bene così». Il vecchio religioso sa bene quali parole usare per colpire la coscienza degli occidentali. «Avete distrutto valori come i diritti umani e l’indignazione». La sua è la posizione dei ribelli: avanti fino alla caduta di Assad (che però non è molto vicina), nessun accordo, mai. Che ne dice sceicco delle accuse di atrocità rivolte sempre più spesso ai combattenti salafiti? «Falsità, c’è qualche errore, è vero. Ma sono errori individuali, mentre per Assad l’atrocità è una politica». E comunque di Jabhat al Nusra, il fronte filo-al Qaeda che combatte in Siria, non ne vuole sentire parlare. «Con quelli - fa seccato - non abbiamo rapporti». Anche lui è convinto che in Libano la guerra sia già arrivata. «Tutta colpa dei terroristi di Hezbollah, sostenuti dall’Iran». E con Jabal Mohsen come la mettiamo, guerra per sempre? «Deve capire che ormai si combatte anche da noi. Non finirà, finché quelli saranno i fantocci di Damasco». A Bab al Tabbaneh e sulla montagna costruiscono le frasi allo stesso modo, si trasmettono il potere allo stesso modo: a forza di odiarsi si somigliano.
Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : " La guerra di Kerry sulla Siria fra fantasmi e calcoli"
Mattia Ferraresi John Kerry
New York. John Kerry è in guerra. Il segretario di stato americano è la testa di ponte in una battaglia di palazzo fra falchi, colombe e varie specie intermedie sull’intervento in Siria. Dalle parti di Foggy Bottom l’idea che la Casa Bianca conceda fucili e altre armi leggere ai ribelli siriani in risposta alle armi chimiche di Bashar el Assad è inaccettabile, e Kerry ha messo tutta la sua foga interventista sul tavolo della Situation Room. Il sempre informato Jeffrey Goldberg ha raccontato di un diverbio fra il segretario di stato e il capo delle Forze armate, il generale Martin Dempsey. Kerry chiedeva al gabinetto di guerra dell’Amministrazione Obama di autorizzare immediatamente bombardamenti aerei sulle installazioni militari di Assad, a partire da quelle usate per lanciare attacchi con le armi chimiche. Dempsey non ci ha più visto. Ha chiesto al segretario di spiegare quali fossero esattamente i suoi piani militari dopo una serie di bombardamenti del genere, ha cercato di rendere palese ai colleghi della sicurezza nazionale quanto fosse naïf e disinformata la proposta del diplomatico, il tono della voce si è alzato e il silenzio attorno s’è fatto più profondo. Goldberg ha evocato lo storico litigio fra Madeleine Albright e il “soldato riluttante” Colin Powell sull’intervento americano nei Balcani, analogia perfetta per spiegare le divergenze fra la leadership civile e quella militare. Da allora i messaggi interventisti lanciati sotterraneamente da Foggy Bottom si sono fatti più potenti. I diplomatici articolano la loro posizione richiamando il successo dei balcani e il fallimento del Ruanda, prove a loro dire incontrovertibili che l’inazione americana è l’anticamera della tragedia. L’analogia usata dagli avversari di Kerry come controargomento è quella dell’Iraq, ed è lì che si coagulano le preoccupazioni di Barack Obama, che finora ha appoggiato le colombe militari e offerto un contentino simbolico ai falchi diplomatici soltanto quando si è trovato a corto di alternative. L’arrivo all’ambasciata presso l’Onu di Samantha Power, che sul genocidio del Ruanda ha costruito le sue posizioni politico- umanitarie, rafforza le legioni del segretario di stato. Ma gli argomenti di Kerry non sono soltanto di quel genere ideale che finora ha spostato la posizione di Obama giusto di pochi centimetri. Kerry sa che la seconda conferenza di pace di Ginevra sarà vacua quanto la prima se gli equilibri della guerra civile non saranno modificati con un’azione dall’esterno. Il tiranno non negozia la pace quando è ancora sul trono. Ci sono poi le ragioni geopolitiche più vaste, l’onnipresente influenza dell’Iran e le infiltrazioni di Hezbollah, che si aggiungono al lavorio dell’apparato diplomatico per convincere la Casa Bianca che la presenze estremiste al fronte non hanno preso il sopravvento sui ribelli buoni, argomento duramente contestato dal Pentagono. Nella gerarchia militare è ancora aperta la ferita dell’intervento in Libia, a lungo sconsigliata dal Pentagono secondo un calcolo fra costi e benefici e spinta dalle voci civili dell’Amministrazione. I Balcani e l’Afghanistan La leva più potente a disposizione di Kerry è però quella della coerenza politica. In un’intervista con il solito Goldberg a proposito della minaccia iraniana, Obama aveva detto che “il presidente degli Stati Uniti non bluffa”. Non minaccia reazioni che non porta a termine e non disegna linee rosse che lascia varcare senza conseguenze. Rispondere all’uso di armi chimiche con un invio di fucili è, nello schema di Kerry, un bluff mascherato male e per questo sussurra all’orecchio del presidente i rischi politici che corre svelando la sua posizione ipocrita. Finora Obama ha dato ascolto ai consigli dei militari, ma si tratta di una convergenza quasi incidentale, motivata da ragioni diverse da quelle addotte dai generali. Dempsey sostiene che l’intervento è impraticabile e troppo denso di conseguenze; Obama è più preoccupato dell’impopolarità politica e del significato storico di un eventuale conflitto che potrebbe non concludersi nei tempi suggeriti da Kerry. Il segretario ha in mente lo schema chirurgico dei Balcani, il presidente quello lungo dell’Afghanistan. E un sondaggio Pew dice che il 70 per cento degli americani è contrario all’azione, picco d’impopolarità che non aiuta la guerra di Kerry per detronizzare Assad.
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