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Il Foglio Rassegna Stampa
23.11.2011 L'importanza di Tzahal e degli avamposti per la difesa di Israele
Analisi di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 23 novembre 2011
Pagina: 8
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Il nido delle aquile di Israele»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 23/11/2011, a pag. IV, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "Il nido delle aquile di Israele".


Giulio Meotti

Una settimana fa, a Hebron, la città dei Patriarchi biblici, un soldato israeliano si è fatto prendere dall’agitazione e ha ucciso un famoso rabbino, scambiandolo per un terrorista. Due settimane prima, alcuni palestinesi hanno ucciso due coloni, i Palmer, padre e figlio di un anno. A marzo due terroristi hanno sterminato la famiglia Fogel a Itamar. La tensione nei Territori è alta. E’ iniziato il conto alla rovescia per “gli ultimi avamposti d’Israele”, gli insediamenti fatti di roulotte. Ci vivono circa quattromila coloni, una piccola parte degli oltre cinquecentomila che abitano in Cisgiordania, ma la più agguerrita e ideologizzata. Il governo Netanyahu deve evacuarli su ordine della Corte suprema, ma sta prendendo tempo, e molti ministri e deputati stanno cercando il modo per legalizzare gli avamposti. Sarebbe la più grande evacuazione da quando Ariel Sharon smantellò i villaggi ebraici di Gaza (Netanyahu si dimise pur di votare contro).
Il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, ieri ha minacciato di far saltare la coalizione se saranno smantellati gli insediamenti. Le colonie sulle colline sono molto più problematiche di Gaza, perché sorgono nel cuore di quella che i religiosi chiamano coi nomi biblici “Giudea e Samaria”. Come Sa- Nur, avamposto evacuato da Sharon, costruito sui resti di una vecchia fortezza turca, trasformata in caserma dagli inglesi durante il Mandato, passata ai giordani e infine dal 1967 agli israeliani. Le colonie svettano in punti strategici per l’esercito, specie ora che Tsahal parla di rientrare a Gaza se i missili dovessero volare di nuovo sulle città della costa. I settlers pensavano che la grande ondata di terrorismo avesse finalmente convinto tutti a seguire la loro strada, quella della presenza sul territorio costi quel che costi. Dicono che non basterà la promessa di Netanyahu di uno stato palestinese demilitarizzato, perché non c’è garanzia che esso possa restare tale negli anni e appena Hamas correrà per le elezioni (forse a primavera) il terrore tornerà anche qui. Non c’è soltanto la Giordania, oltre questi avamposti.
Dietro ci sono l’Iraq, la Siria, l’Iran. Israele non può immaginare di avere missili palestinesi, forse iraniani, a cinquecento metri dall’aeroporto Ben Gurion, o da Gerusalemme. Haifa è già stata bombardate da Hezbollah, Ashdod da Hamas. Gli avamposti sono grandi occhi dentro Jenin e Nablus, le due città palestinesi da cui si sono diramati centinaia di attacchi terroristi suicidi. Le roulotte dominano anche la vista di Ramallah, in un paesaggio spoglio, su un’altura detta Artis. La bandiera del sionismo religioso, quella gialla con la scritta “Messia”, sventola alta sugli avamposti, che qualcuno chiama “il nido delle aquile d’Israele”. Altri li paragonano al castello libanese di Beaufort, costruito dai crociati e diventato un avamposto ebraico nella guerra contro Hezbollah per vent’anni.
La Corte suprema ha ordinato al governo di smantellare gli outpost – in ebraico “ma’achaz” – perché non sono mai stati legalizzati. Il vice primo ministro Moshe Ya’alon ha detto: “Smettiamo di chiamarli ‘avamposti illegali’, li abbiamo creati noi del governo”. Tra i residenti ci sono molti ufficiali dell’esercito e dei servizi segreti con moglie e figli. Haaretz, il giornale della sinistra, parla di “decine di ufficiali dell’esercito che vivono negli outpost”. Presso Eli, dove un cecchino palestinese eliminò una a una dieci persone con un vecchio fucile, c’è la casa di Roi Klein, il comandante che durante la guerra del Libano si buttò su una granata per evitare che i suoi soldati fossero colpiti. Si va dal semplice container appoggiato in cima a una collina, tanto per conquistare una posizione, a qualche fascia di prefabbricati messi su un fianco. Sino a quelli che, man mano, si sono trasformati in insediamenti stabili, con i prefabbricati tipo “post terremoto” diventati casette dal tetto rosso. La terra su cui sorgono è “statale”, passata di mano in mano agli imperi che si sono succeduti, oppure è “abbandonata”, senza che se ne possa dimostrare la proprietà, oppure è acquistata dagli israeliani, come Havat Gilad. Alcuni invece sorgono su terra privata palestinese, e per questo la Corte suprema vuole evacuarli. L’esercito israeliano l’ha requisita per “ragioni di sicurezza” durante l’Intifada. Quando c’è tensione, lassù sulle colline, le comunicazioni si fanno difficili, la compagnia degli autobus sospende i collegamenti, nessuno si avventura sulle strade se non ha un fucile e se ci vai diventi spesso un bersaglio mobile per i cecchini. Vai al lavoro e sei sotto tiro, torni e sei sotto tiro e lo sei ancora anche quando arrivi al villaggio.
Un anno fa quattro israeliani, tra cui una donna incinta, sono stati uccisi sulla strada per un avamposto a Hebron. Le trincee dell’esercito, segnate da reti mimetiche a larghi fori, circondano il plateau che fronteggia Jenin senza nessuna protezione circostante. Si può sparare sulle case, sui bambini, sui passanti da ogni parte. Il ministro del Likud Yisrael Katz ha detto che “ritirarsi da qui vorrebbe dire esporre una larga parte della nostra popolazione al rischio di attacchi terroristici”. I governi che si sono succeduti negli anni hanno oscillato, generando confusione, fra il considerare quelle terre moneta di scambio per raggiungere un accordo con i palestinesi, o “terra liberata” che ha conferito al piccolo Israele sicurezza e memorie storiche. Dall’avamposto di Bruchin si vedono i grattacieli Azrieli di Tel Aviv. A destra, le ciminiere di Hadera. A sinistra, il porto di Ashdod.
Dall’avamposto si tiene in palmo di mano metà della costa israeliana. “Siamo la linea di difesa di Tel Aviv”, dicono i responsabili di questo pugno di case color giallo pastello appollaiate su un’altura non lontana da Nablus. A Buchrin si dice che “agli arabi bisogna garantire tutti i diritti, ma controllo militare e sovranità devono restare nelle nostre mani”. In nome della sicurezza dei 105 avamposti giudicati “illegali”, soltanto 34 sono stati costruiti sotto governi di destra, mentre ben 71 sotto i laburisti Yitzhak Rabin, Shimon Peres e soprattutto Ehud Barak. La sinistra militante parla di peccato originale dei padri fondatori socialisti. Ehud Sprinzak, politologo all’Università ebraica di Gerusalemme, ha scritto che “l’ex premier Golda Meir non nascondeva le sue simpatie per quei giovani crociati della causa sionista, pronti ad abbandonare le comodità di Tel Aviv in nome della redenzione dei luoghi santi ebraici, nei territori appena conquistati”. Prima del ritiro da Gaza nel 2005, l’argomento principale per smantellare le colonie era la sicurezza: “Israele non può impiegare dieci soldati per proteggere cinque famiglie”.
Poi Hamas ha preso il territorio e ne ha fatto una rampa di lancio per i missili e Israele oggi rimpiange la grande calma che regnava con le colonie. A Havat Gilad, l’outpost evacuato nel 2002, furono impiegati mille soldati per muovere mille coloni. Più tardi, quando fu evacuata Mitzpeh Yizhar, per 500 persone arrivarono mille soldati. Ci sono state botte e non si contarono i feriti, anche fra i deputati accorsi sul posto. Oltre al rischio di caos sociale, se Israele smantellasse gli avamposti sarebbe come se accettasse confini “de facto”. Per adesso i cittadini di questi insediamenti si sentono parte della linea di difesa di un popolo assediato ai bordi e tormentato dal terrore. Con la benedizione di Yigal Alon e poi di Yitzhak Rabin, hanno proseguito la strada di dolore che “fece fiorire il deserto” con le prime aliah. Poi i coloni religiosi diedero al movimento quel segno di redenzione della terra che è rimasto parte importante della vicenda degli insediamenti. Il caso di Migron è emblematico per capire come siano nati.
Nell’aprile 2002, in piena Intifada, le autorità militari montano un’antenna per telefoni cellulari in cima alla collina. Migron sorge sopra un’arteria stradale decisiva per la sicurezza nella regione. La collina è bellissima: a est si vede il mar Morto, a ovest Gerusalemme. E’ una specie di paesino arroccato in cima a una delle più alte colline della Samaria, tutto pace e tranquillità, cullata dal canto dei grilli e da una brezza dolce, con vista mozzafiato sulla costa di Israele a cielo sereno. I coloni chiedono il permesso di recintare l’antenna e costruire una garitta di guardia per impedire attacchi. Poi si passa alla richiesta di elettricità. L’Israel Electric Corporation e l’amministrazione civile danno il consenso. Poco dopo arrivano l’acqua e le fogne dal ministero dell’Edilizia. La funzione di sicurezza è presto spiegata: in caso di movimenti sospetti, gli abitanti avvertono l’esercito. Pinchas Wallerstein, uno dei più noti leader degli insediamenti, ha detto che “se sarà rimosso Migron, sarà l’inizio di un trend per rimuovere tutti gli ebrei dalla terra d’Israele”. Il colonnello Yitzhak Shadmi è uno dei portavoce dei coloni e abita a Neve Tzuf, in mezzo a una foresta della Samaria: “Migron è stato costruito dal governo e dall’esercito, prima hanno piantato antenne militari, poi una presenza militare, infine sono arrivati i civili”, dice al Foglio Shadmi.
“L’avamposto sorge su un’altura strategica per l’esercito. Quando ci sono civili, c’è anche l’esercito. Se non ci sono civili, non c’è bisogno dell’esercito. Fra Jenin e Gerusalemme c’è sempre stato tanto terrorismo, poi gli avamposti assieme all’esercito hanno reso la situazione più sicura, ma tutto può esplodere in un attimo. Ricordiamo quanto è stato facile lo scoppio della Seconda Intifada. L’esercito all’apparenza protegge i coloni, ma se l’esercito abbandona queste terre e colline, cosa accadrebbe nel caso di una guerra regionale fra Israele, Libano e Siria? Per creare questo stato di sicurezza nei Territori, Israele ci ha impiegato vent’anni. Inoltre, se non fossimo là su quelle colline, l’esercito non potrebbe mai giustificare la presenza in quel territorio. Il terrore da Gaza non c’era prima che ce ne andassimo. Oggi Hamas è in grado di colpire Tel Aviv. Le colonie sono la linea del fronte, come il nord della Galilea contro Hezbollah e le città del sud contro Hamas. Tutti i confini estremi d’Israele sono vitali per la sicurezza della costa”. Alcuni insediamenti sono vecchi, nascono vent’anni dopo la nascita di Israele. Taluni sorsero con intenti difensivi evidenti, altri – quelli dei religiosi – su ispirazione nazionalista, altri come colonie agricole sulla scia dei kibbutz e parecchi persino perché le case in quelle zone costano poco.
Ma la recente vicenda dell’Intifada li ha compattati tutti nella convinzione politica che sia un errore andarsene. Lo shabbach, i servizi segreti dell’Interno, ha detto preoccupato che alcuni elementi hanno cominciato ad agitarsi nella speranza di compiere qualche gesto di provocazione che mandi lo sgombero a gambe all’aria. La gente degli outpost vive lontano da tutto ciò che profuma di consumismo. E’ un nazionalismo pionieristico scevro da dubbi. Ragazzi nati e cresciuti nelle colonie più antiche, che hanno deciso di abbandonare il tetto paterno per andarsi a preparare il proprio nido in cima alle colline. Un container, un prefabbricato o una casetta costruita con le proprie mani. Si ritengono la “nuova avanguardia” dei coloni, pronta a difendere gli avamposti, soprattutto a sud di Gerusalemme, tra Betlemme e Hebron. Le ragazze hanno nomi magnifici, come Hodaya (in ebraico, Ringraziamento), Tikwa (Speranza) e Yeshua (Salvazione). I giovani sono studiosi della Bibbia con la kippa in testa e la mitraglietta Uzi in mano, l’indice sempre sul grilletto. “Netanyahu ha deciso che si deve costruire soltanto nelle colonie più grandi e sacrificare quelle piccole, ma non si fermeranno agli avamposti, smantelleranno anche le colonie grandi in un effetto domino per tutta la sicurezza d’Israele”, ci dice Hillel Weiss, decano degli studi di letteratura alla Bar Ilan University e mentore dell’ala più motivata dei settlers.
“Se l’esercito non può proteggersi, che lascino che i cittadini si difendano da soli, non abbandoneremo le nostre case come a Gaza. Oggi nei territori di Giudea e Samaria ci vivono 600 mila ebrei, lo stesso numero di quando fu fondato lo stato d’Israele nel 1948”. Per questo Weiss, che è il curatore degli scritti del premio Nobel Shmuel Agnon, ha fondato l’Autorità ebraica, organismo di rappresentanza dei coloni. “Ci sono avamposti legali, come Havat Gilad, che esistono da quindici anni – continua Weiss – Ci sono avamposti costruiti in una notte dai giovani in reazione a uccisioni da parte di terroristi. Devi fare dieci chilometri in auto nel deserto per raggiungerli, alla fine del mondo. Sono case costruite con la pietra o il fango, dove si vive di agricoltura. Non hanno elettricità o acqua corrente, usano piccoli generatori per sostenersi. Ci sono avamposti più grandi, come Itamar, che ha sette colli come Roma. Sono esperimenti di grande successo per l’agricoltura biologica. Non è mai stata sottratta della terra ai palestinesi, prima era degli ottomani, poi degli inglesi, dei giordani e infine d’Israele. Soltanto una guerra più grande, come con l’Iran, potrà dissuadere lo stato dallo smantellare gli avamposti. E allora Israele sarà in pericolo, perché si innescherà un effetto a catena fino alla costa”. Ci sono molti americani in cima agli avamposti.
Dopo il 1967, sull’onda della Guerra dei sei giorni, ne giunsero più di ottomila. Un’immigrazione legata al sogno della “grande Israele”, religiosa. Soprattutto ragazzi e ragazze di Brooklyn, con una percezione dell’Olocausto e dell’antisemitismo rituale e ideologica, hanno combattuto l’assimilazione e deciso per un’aliah militante. Molti vivono a Migron, il primo nell’agenda di Ehud Barak per l’evacuazione. Ci si vive in un continuo stato di precarietà: arrivarci è spesso un problema da macchina blindata, mandar fuori i figli è un’impresa da batticuore, andare al cinema o a teatro a Gerusalemme significa attraversare di notte Ramallah. Le pietre volano, e anche le bombe molotov. Molti outpost portano il nome di cittadini israeliani uccisi dai terroristi, come Mitzpe Danny, Beit Haggai, Maale Rehavam, Aryeh, Yad Yair, Mitzpeh Shabo, Rachelim e Shevut Rachel. Quest’ultimo ha assunto il nome di una donna uccisa dopo la Conferenza di Madrid del 1991. Il marito, David Druck, ha detto: “Puoi spostare una casa, ma non una tomba. E’ la mia risposta ai terroristi”. E’ la logica di molti avamposti: loro uccidono, noi costruiamo. Un cartello recita: “Migron, la battaglia di tutti”.
Anche il presidente del Parlamento, Reuven Rivlin, ne ha chiesto la legalizzazione. Il futuro di questa piccola comunità di cinquanta famiglie va al di là del singolo caso. Riguarda il futuro della presenza israeliana nei Territori e lo scenario peggiore, ovvero che la violenza possa esplodere di nuovo nelle città più importanti e contro la quale gli avamposti furono creati. I cittadini di Migron mostrano documenti del ministero della Difesa che avviava un percorso di legalizzazione. Ma da allora hanno vissuto in un limbo. Come ha scritto il Jerusalem Post, se Migron cade seguiranno altri insediamenti; se resta in piedi la presenza ebraica in quelle terre incandescenti sarà assicurata per sempre. Ci dice il professor Hillel Weiss, che ha appena assunto anche la direzione del dipartimento di studi yiddish dell’Università Bar Ilan: “E’ una vergogna che il popolo d’Israele sia sopravvissuto a Hitler e che oggi distrugga i propri avamposti.
Lassù nelle colline ci vive il popolo ebraico migliore e più puro. La terra d’Israele è il patto fra Dio e il suo popolo, ma è anche un diritto sancito dalla comunità internazionale. Io vivo a Elkana, una colonia mainstream perché incuneata dentro alla barriera di sicurezza. I miei vicini, quasi tutti borghesi, si illudono che a loro andrà bene. Ma quando scoppierà la grande guerra, forse con l’Iran, non ci sarà differenza fra chi sta dentro o fuori il recinto”. Chiediamo a Weiss se pensa che ci sarà ancora lo stato ebraico per il centenario del 2048: “Io non so neppure se ci sarà domani”.

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