Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Sanzioni all'Iran. Ahmadinejad attacca la Cina perchè non ha posto il veto Cronache di Maurizio Molinari, redazione del Foglio
Testata:La Stampa - Il Foglio Autore: Maurizio Molinari - La Redazione del Foglio Titolo: «Sanzioni, Teheran furiosa con Pechino - Fionde per lanciare biglie e chiodi contro i pasdaran - Per dipingere la sua tela, l’Onda verde d’Iran aspetta i sindacati»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 11/06/2010, a pag. 21, gli articoli di Maurizio Molinari titolati " Sanzioni, Teheran furiosa con Pechino " e " Fionde per lanciare biglie e chiodi contro i pasdaran ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Per dipingere la sua tela, l’Onda verde d’Iran aspetta i sindacati ".
Obama, dopo aver tagliato i fondi alle organizzazioni iraniane che aiutavano i manifestanti contro il regime e si battevano per i diritti civili, ora chiede di essere solidali con l'Onda. Ipocrita, specie dal momento che la sua politica con l'Iran non è mai stata di netta condanna dei crimini commessi da Ahmadinejad. La porta è sempre aperta, la mano sempre tesa.
Ecco gli articoli:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Sanzioni, Teheran furiosa con Pechino "
Ahmadinejad
Mahmud Ahmadinejad sbarca a Shanghai e scaglia contro la Cina l’irritazione per le nuove sanzioni contro il programma nucleare votate dall’Onu. All’indomani dell’approvazione della risoluzione 1929 da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il presidente iraniano è arrivato a Shanghai per prendere parte alle celebrazioni dell’Expo e Teheran ha colto l’occasione per lanciare un duro affondo contro la Repubblica popolare, rea di non aver opposto il diritto di veto alle sanzioni che investono l’industria militare e numerose aziende legate ai Guardiani della rivoluzione. A rendere pubblica l’irritazione iraniana è stato Ali Akbar Salehi, capo dell’Agenzia atomica nazionale, che ha accusato Pechino di aver dimostrato con il suo assenso di «essere sotto il dominio dell’Occidente». «Il sostegno della Cina alle nuove misure contro di noi è destinato a condizionare negativamente le sue relazioni con il mondo musulmano. Quando se ne accorgeranno sarà oramai troppo tardi» ha aggiunto Salehi, accusandola di «fare scelte contraddittorie su Nord Corea e Iran» perché, mentre nel primo caso osteggia le condanne dell’Onu, nel secondo le permette e le condivide. «Un tempo la Cina definiva gli Stati Uniti “ tigre di carta” - ha aggiunto Salehi - ora bisogna chiedersi quale definizione meriti la Cina. A mio avviso, quella di nazione a "doppia faccia" per come si comporta sui programmi nucleari di Corea del Nord e Iran». Pechino ha tentato di gettare acqua sul fuoco con Qin Gang, portavoce del Ministero degli Esteri, che ha sottolineato la «grande importanze delle relazioni bilaterali». Questo però non ha fatto rientrare la rabbia di Teheran, che evidentemente contava sui solidi rapporti commerciali - gli scambi nel 2005 sono stati di circa 9,2 miliardi di dollari - per ottenere da Pechino almeno l’astensione sulle sanzioni. Ad aumentare le tensioni con Pechino è arrivata la notizia che il presidente Hu Jintao, assieme al collega russo Dmitry Medvedev, ha bocciato l’ipotesi dell’adesione di Teheran all’Organizzazione di cooperazione di Shanghai (Sco), di cui si è discusso al summit che si è aperto ieri a Tashkent, in Uzbekistan, e che aveva in agenda i possibili allargamenti. L’incrinatura del rapporti di Cina e Russia con Teheran premia la diplomazia silenziosa con cui l’Amministrazione Obama negli ultimi 18 mesi ha puntato a coinvolgere a pieno titolo Pechino e Mosca nella gestione del dossier iraniano, scommettendo sul fatto che un impegno diretto dei cinesi e dei russi nelle trattative li avrebbe portati a condividere i timori di Stati Uniti e Unione europea. In particolare, per quanto riguarda la Cina, sembra aver avuto successo la strategia del Segretario di Stato Hillary Clinton: fare leva sui rapporti con l’Arabia Saudita per offrire a Pechino una possibile alternativa alle ingente forniture di petrolio che acquista in Iran. Sul fronte russo, invece, restano delle ambiguità per via della scelta del Cremlino di confermare la decisione di vendere alla Repubblica islamica i sistemi antimissili S-300 perché «non esplicitamente citati dalla risoluzione». In serata è anche arrivata la notizia che la Russia sta discutendo con l’Iran l’ipotesi di costruire una seconda centrale nucleare dopo l’impianto di Bushehr, che sta per essere «acceso». Fra le contromosse di Teheran alla risoluzione 1929 c’è l’annuncio, giunto da Alaeddin Borujerdi, presidente della commissione Esteri del Parlamento iraniano, dell’imminente varo di «nuove norme per ridurre le relazioni con l’Agenzia atomica dell’Onu» al fine di «portare al minimo» la collaborazione con gli ispettori, ai quali è al momento consentito di avere accesso negli impianti del programma nucleare. Sebbene non sia ancora chiaro cosa Teheran intenda per «portare al minimo» una cooperazione già molto limitata, dagli ambienti Aiea trapela il timore che spossa includere di un blackout di informazioni e comunicazioni sui progetti di cui Ahmadinejad ha parlato a più riprese: dieci nuovi centri per l’arricchimento dell’uranio.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Fionde per lanciare biglie e chiodi contro i pasdaran "
Istruzioni per difendersi dalla repressione dei pasdaran, le proposte per una nuova bandiera iraniana e la rivelazione di una ricerca statistica su come andarono in realtà le presidenziali del 2009: in coincidenza con il primo anniversario della contestata rielezione di Mahmud Ahmadinejad, studenti e oppositori si affidano al web per far sapere agli iraniani che il movimento dell’«Onda verde» non si sente affatto sconfitto. A contenere i suggerimenti per i «coraggiosi manifestanti iraniani» è un video di 5,31 minuti messo su YouTube dal «Fronte di liberazione iraniano» (Ilf), nel quale si spiega «come difendersi da polizia e guardie religiose» durante gli scontri in strada. Nelle prime immagini si mostrano fazzoletti sul volto contro i lacrimogeni, caschi da moto per parare i colpi dei manganelli degli agenti e chiodi da gettare in strada per fermare le motociclette adoperate dai miliziani paramilitari «basiji». Poi si passa a spiegare come appiccare il fuoco ai pneumatici per tenere lontana la polizia, mostrando immagini di proteste dei black bloc in Europa, in un caso anche con bandiere rosse al vento. Nell’ultima parte ci sono invece i suggerimenti per attaccare i pasdaran: dalle fionde rudimentali ma capaci di lanciare biglie pesanti fino alle molotov e ai bazooka fatti in casa con semplici tubi, ma capaci di lanciare nella direzione voluta fuochi d’artificio molto potenti. Se «Ilf1389» è un manuale-video molto dettagliato nel preparare i manifestanti a dare battaglia nei centri urbani, su Facebook la protesta assume invece le fattezze di un gruppo denominato «A new flag for Iran», nel quale si illustrano le proposte alternative all’attuale drappo nazionale della rivoluzione iraniana. Si va da un tricolore a strisce orizzontali con impressa la scritta persiana «Azadi» (Libertà) a una bandiera con al centro la mano insanguinata che ricorda la morte delle vittime della repressione, fino all’ipotesi di mantenere il simbolo grafico che rappresenta Allah - presente nella bandiera della Repubblica islamica - ma su uno sfondo ben diverso dall’attuale, perché fatto di numerose piccole strisce bianche e verdi. Ciò che conta è «cambiare la bandiera per cambiare il regime» si legge nel sito, preannunciando che «il 12 giugno dichiareremo l’inizio di un Iran nuovo e libero». Fin qui i segnali di una mobilitazione in crescita da parte degli oppositori, che coincide con l’annuncio dei due principali leader della protesta, Mussavi e Karrubi, che non ci saranno manifestazioni nel primo anniversario della rielezione di Ahmadinejad. Ma la notizia di maggiore valore che filtra dall’Iran è contenuta nel documento dell’Università Ferdowsi di Mashad, che racchiude i risultati di una ricerca statistica che gli studenti hanno condotto nell’estate 2009 in tutto il Paese, applicando rigidi metodi scientifici, per appurare il reale risultato delle urne. Tra il 4 e il 20 agosto è stato intervistato un campione di 1.382 iraniani oltre i 18 anni, rappresentativo del corpo elettorale. Il risultato relativo all’affluenza è stato molto simile a quello dichiarato dalle autorità: 83,5 per cento contro 85 per cento. La differenza sta invece nel risultato del voto perché, secondo le risposte raccolte dagli studenti, a prevalere non fu Ahhmadinejad ma Musavi, raccogliendo il 50,4 per cento delle preferenze contro il 44,3 del rivale. Per spiegare la sua scelta, il 55,8 ha indicato «problemi economici», il 18,6 «problemi sociali e culturali» e il 12,3 «questioni di politica interna ed estera». È interessante infine notare che a definirsi «insoddisfatti del governo» sono stati tanto il 46,6 per cento di sostenitori di Musavi che il 19,3 per cento degli elettori di Ahmadinejad, lasciando intendere che anche all’interno della coalizione che sostiene il governo possa covare un forte malessere.
Il FOGLIO - " Per dipingere la sua tela, l’Onda verde d’Iran aspetta i sindacati "
Roma. A Teheran riconosci l’estate quando la polizia morale torna a fare gli straordinari. Le notti profumano di gelsomino, i veli scivolano, i soprabiti si accorciano e gli occhi della Repubblica islamica sono ovunque, pronti a condannarti. L’anno scorso l’ euforia pre elettorale aveva regalato qualche settimana di tregua spensierata, grazie anche all’avallo dell’ambizioso sindaco di Teheran, Mohammad Bagher Ghalibaf. Ma questa non si preannuncia come un’estate indulgente. Il mese di Khordad è denso di anniversari: il regime commemora la morte di Khomeini, i suoi oppositori la ribellione contro la riconferma di Mahmoud Ahmadinejad, le uccisioni in piazza, il regolamento di conti avvenuto dopo, con impiccagioni e molti manifestanti scomparsi. Il 12 giugno 2009, a poche ore dalla chiusura dei seggi, con una rapidità miracolosa o sospetta (i conteggi sono eseguiti manualmente), gli iraniani hanno scoperto che il presidente era stato rieletto con il 63 per cento dei consensi. Quella che è seguita è stata la più sconvolgente contestazione all’ordine costituito dal 1979. Un trauma che l’ayatollah Ali Khamenei, tra alterne fortune, cerca da un anno di esorcizzare. Con l’approssimarsi della più infausta ricorrenza del regime, la vigilanza è allo zenit: da settimane le file delle forze di sicurezza si ingrossano grazie all’afflusso massiccio di bassiji da tutto il paese. I giustizieri in motocicletta sono tornati e a temere non sono soltanto le “mal velate”. Come l’estate scorsa per le strade di Teheran le scritte sediziose appaiono e scompaiono sotto uno strato di vernice nera. Circolano volantini che invitano alla protesta dal 10 al 20 di giugno. Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi, leader dell’Onda verde, hanno rinunciato a indire una manifestazione domani, per “proteggere le vite e i beni della gente”. Quasi nessuno si azzarda più a vaticinare il giorno del giudizio per la Repubblica islamica, e non solo per paura del regime. L’Onda verde sconta un difetto di leadership. “Gli artisti possono adottare due metodi – ha detto Moussavi – Alcuni restituiscono sulla tela quello che l’immaginazione ha già creato. Altri iniziano a dipingere senza sapere quale sarà l’immagine finale e lentamente, gradualmente, la loro arte prende vita sulla tela. Questo è l’approccio del movimento verde”. Chi vuole vedere il bicchiere mezzo pieno esalta il carattere postmoderno dei verdi, rintracciando nella descrizione del “metodo Moussavi” la manifestazione degli agognati germi del pluralismo e della democrazia. Agli occhi degli scettici, invece, Moussavi e Karroubi appaiono piuttosto leader accidentali adattatisi a seguire la piazza piuttosto che a guidarla. Un approccio “gradualista” che, pur spingendosi oltre il pallido sogno di riformismo dall’alto dell’ex presidente Mohammed Khatami, evita di fare i conti con l’eredità di Khomeini, continuando a dare risposte ambigue sulla legittimità del velayat-e faqih (la sovranità del giureconsulto, cardine dell’architrave istituzionale iraniana), sui diritti delle donne e delle minoranze. Moussavi tenta una via inclusiva senza però fornire risposte convincenti ai rilievi che gli vengono mossi nel merito. “Questo sarà l’anno della pazienza e della perseveranza”, ha detto nel suo messaggio di Nowruz. C’è chi vi ha letto un’eco gandhiana e chi ha percepito piuttosto la paura di spingersi oltre i confini dell’ortodossia. Ma Moussavi, forse migliore del suo passato, non è il Nelson Mandela né il Lech Walesa che molti sull’onda dell’entusiasmo si erano augurati fosse. La confusione intorno alle sue intenzioni e alla possibilità “controrivoluzionaria” che incarna è complicata dalla cacofonia di voci che nella diaspora traducono gli eventi iraniani agli opinion maker occidentali. Che ne è stato di Rafsanjani? Protagonisti di primo piano della scena intellettuale iraniana – come i dissidenti Akbar Ganji e Mohsen Kadivar – si accusano a vicenda di voler applicare alla crisi post elettorale una targa troppo o troppo poco laica. Secondo Ganji, Kadivar, seguace di Montazeri, non mira ad altro che a sostituire il grande ayatollah scomparso promuovendo la sua interpretazione della dottrina sciita. Kadivar, a sua volta, accusa Ganji di disconoscere pericolosamente le radici islamiche dell’Iran e di flirtare con le teorie del discusso filosofo Abdolkarim Soroush. Descritto come il Martin Lutero dell’islam, Soroush sostiene la tesi di un Corano soltanto parzialmente frutto della rivelazione divina e per questo passibile di un’esegesi che si dilata di pari passo con l’espansione dell’intelletto razionale. Non si tratta, evidentemente, di sottigliezze, e la circostanza che queste differenze vengano a galla alimentando il dibattito anche in Iran non è di per sé un fatto negativo; d’altro canto la mancanza di una piattaforma condivisa consente ai falchi di propagare l’immagine di avversari deboli e litigiosi. Eppure, nonostante il controllo dell’ordine pubblico, i conservatori sono in crisi. L’ayatollah Khamenei ha legato il suo destino alle fortune del corpo dei Sepah-epasdaran e gli equilibri perfettamente calibrati tra destra e sinistra, clan e fazioni sono saltati. Khamenei non è più il severo custode della tradizione, l’arbitro fintamente imparziale, ma un giocatore come gli altri. E ora che ha scoperto le sue carte, il rahbar non è mai stato più solo. I conservatori sono dilaniati da lotte intestine e la memoria di Khomeini non è più un totem inviolato. Alla tradizionale cerimonia di commemorazione della morte del padre della rivoluzione, il nipote Hassan Khomeini è stato coperto dai fischi dei pretoriani di Ahmadinejad e costretto a rinunciare al proprio intervento. In una foto pubblicata sul sito dell’agenzia Fars Khamenei appare visibilmente alterato: gli eredi del padre della rivoluzione simpatizzano notoriamente per i riformisti e Moussavi, ma attaccare la famiglia Khomeini è un anatema per la maggior parte dell’elettorato conservatore. Poco prima della contestazione Hashemi Rafsanjani e Hassan Khomeini venivano ripresi l’uno accanto all’altro durante i discorsi di Ahmadinejad e Khamenei. “Se il popolo è con noi abbiamo tutto, ma se il popolo non è soddisfatto è impossibile governare”, diceva poco più di un anno fa Rafsanjani dal palco della preghiera del venerdì. Non aveva ancora perso l’allure del kingmaker, la sua fronda era ancora una minaccia e tentava di reinventarsi come l’uomo della mediazione. La sua scommessa è stata neutralizzata. I suoi familiari sono stati arrestati e i suoi beni minacciati di confisca. Quando Khamenei ha avvertito: “Il passato è ininfluente, l’unico criterio per giudicare le persone è la loro attuale posizione nei confronti del regime. Ci sono stati individui che hanno accompagnato l’imam Khomeini nel suo volo per Teheran e sono stati giustiziati”, era impossibile non pensare alla sorte che potrebbe attendere Moussavi, Karroubi e Hashemi Rafsanjani. Il kuseh, lo squalo, non è ininfluente – come segno di sfida e di vitalità ha anche ripubblicato sul suo sito il discorso di un anno fa in cui chiedeva il rilascio dei prigionieri politici e una mano tesa ai feriti – ed è improbabile che Khamenei ricorra a misure tanto drastiche, ma la sua sosta in purgatorio stavolta potrebbe davvero essere l’ultima. La spaccatura della classe dirigente khomeinista non è una buona notizia per il regime né per la stessa sopravvivenza politica del rahbar. La dipendenza di Khamenei dal partito dei pasdaran sta erodendo i suoi spazi di manovra e non si tratta di una posizione auspicabile quando, al di là dell’asfittico cerchio dei notabili della nomenclatura, si agitano nuovi spettri. La contestazione di Iran Khodro Gli analisti di cose persiane concordano nel dire che per forzare la mano di Khamenei il movimento verde dovrà conquistare gli operai delle fabbriche, gli impiegati statali, i dipendenti delle aziende di servizi metropolitani. In questo frangente la corruzione e l’incapacità gestionale dell’amministrazione Ahmadinejad si stanno rivelando formidabili alleate della sedizione. Durante la sua presidenza il numero di fabbriche saltate per bancarotta è aumentato a livelli esponenziali. Operai, autisti e impiegati di società quali la metropolitana di Teheran, l’acciaieria di Isfahan, la più importante industria di telecomunicazioni di Shiraz e la terza sezione della raffineria di Abadan hanno incrociato le braccia e protestato contro il governo con lo sciopero della fame. Pena per l’insubordinazione: il licenziamento o l’arresto. Mansour Osanlou, leader del sindacato dei conducenti d’autobus della capitale è imprigionato da anni, è stato confinato tra assassini e spacciatori. L’estate scorsa lo sciopero generale era soltanto uno spauracchio che evocava i fantasmi del 1979. A un anno di distanza è già un’ipotesi meno peregrina. Quest’inverno alcuni siti legati ai verdi hanno annunciato un incombente blackout . La notizia si è rivelata infondata, ma secondo il ricercatore sui temi legati al lavoro Mohammed Majloo lo choc provocato dalla repressione post elettorale ha spinto molte organizzazioni a unire le forze “e le rivendicazioni operaie si stanno saldando con quelle per i diritti civili”. Secondo Majloo, “esistono forti possibilità di coordinamento” . Il 18 giugno dell’anno scorso i lavoratori di Iran Khodro hanno manifestato compatti. Un episodio di disobbedienza significativo se si considera il valore strategico della società, una delle maggiori industrie automobilistiche del medio oriente e insieme la società con il più alto tasso di crescita di tutto l’Iran. Una manifestazione ancora più rilevante se si tiene presente che chi lavora per Iran Khodro non ha nemmeno accesso ai consigli di lavoro islamici sponsorizzati dal governo e subisce le vessazioni della Harassat, una forza di polizia privata alle dirette dipendenze dei manager della società. Negli stessi giorni, nelle strade dense di lacrimogeni, infermiere e insegnanti sono stati tra i primi a sfidare la sorte e il porto di Bandar Abbas ha letteralmente congelato ogni attività. Nel ’78-’79 gli ultimi ad abbracciare la causa della rivoluzione furono gli operai dei pozzi petroliferi e i colletti bianchi della Banca centrale. Il loro contributo fu determinante.
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