Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Elezioni in Iraq: una prova di democrazia e un successo di Bush Thomas Friedman d'accordo. La sinistra 'benpensante' no, of course
Testata:Corriere della Sera - La Stampa - L'Unità Autore: Paolo Valentino - Asseel Kamal - Luigi Bonanate - Gabriel Bertinetto Titolo: «Friedman il liberal scommette sul futuro: E’ un Paese nuovo»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/03/2010, a pag. 18, l'intervista di Paolo Valentino a Thomas Friedman dal titolo " Friedman il liberal scommette sul futuro: E’ un Paese nuovo ". Dalla STAMPA, a pag. 9, l'intervista di Iyad Allawi dal titolo " Allawi: Vincerò io. Ci vuole una svolta " preceduta dal nostro commento. Dall'UNITA', a pag. 29, l'articolo di Luigi Bonanate dal titolo " Iracheni alle urne. Ma la democrazia è ancora lontana ", a pag. 30, l'intervista di Gabriel Bertinetto a Gary Sick dal titolo " Iraq, segnali di speranza Ora dovranno superare divisioni etniche e religiose", preceduti dai nostri commenti. Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Paolo Valentino : " Friedman il liberal scommette sul futuro: E’ un Paese nuovo "
Thomas Friedman
WASHINGTON — «Detto tutto ciò che si doveva dire, fatto ogni distinguo, il fatto vero è che l’Iraq sia riuscito a tenere due libere elezioni in cinque anni, sicuramente macchiate da violenze, ma sempre libere elezioni. Non dobbiamo mai e poi mai sottovalutare l’importanza di questo fatto, nel contesto della storia del Paese e della regione. È un fatto enorme, fisicamente e simbolicamente».
Il premio Pulitzer Tom Friedman, editorialista del New York Times e guru della globalizzazione, fu uno dei liberal americani che appoggiarono la guerra in Iraq. E non se n’è mai pentito, anche se non ha mai cessato di mettere a nudo e criticare duramente le bugie e gli errori dell’Amministrazione Bush, come non ebbe difficoltà ad apprezzarne la correzione di rotta che portò al rilancio del 2008 e alla progressiva stabilizzazione del Paese.
E anche oggi, Friedman si conferma un ottimista senza illusioni sul futuro dell’Iraq: «Sicuramente non dobbiamo neppure sottovalutare quanto sia difficile passare dal voto al governo democratico e alla costruzione di un esecutivo che riesca a far progredire la società. Oggi sappiamo che gli iracheni possono essere elettori. Si tratta di capire se possano essere cittadini e se i loro leader sapranno essere statisti. Personalmente sono pronto a scommettere di sì».
Ma quanto è reale il pericolo, dal quale molti mettono in guardia, che l'Iraq scivoli verso un regime autoritario?
«Ogni cosa è possibile, inclusa una svolta autoritaria, la paralisi o il collasso. Non possiamo escludere nulla».
Ricapitoliamo: 13 miliardi di dollari, 4400 americani uccisi, 100 mila iracheni morti, ne valeva la pena?
«Non spetta a me dirlo. Io sono stato favorevole alla guerra e in quanto contribuente, ho pagato una parte del costo in denaro. Ma non ho pagato alcun prezzo fisico o personale, come tanti altri americani. È una domanda di fronte alla quale taccio per umiltà. Ripeto, non spetta a me rispondere, ma a chi ha pagato quei prezzi e agli storici del domani. Posso dire questo però: si può argomentare che in Iraq non sia accaduto nulla che giustifichi quel prezzo. Ma si può anche argomentare il contrario, ci sono cose importantissime che sono successe e stanno succedendo, le elezioni sono sicuramente tra queste».
Se c’è un merito per quanto sta accadendo, a chi spetta?
«Anche qui, è una risposta ambivalente: a Bush spetta una parte del merito, ma anche molte critiche per i tanti, troppi errori commessi. Ne spetta agli iracheni, che però si sono anche mostrati incapaci di risolvere i loro problemi interni. Ambivalente è questa realtà». E questa Amministrazione? «Ha fatto un buon lavoro, evitando di venire immischiata nel processo interno, ma dando gli impulsi decisivi nei momenti critici e spingendo verso i compromessi necessari».
Quali devono essere i prossimi passi degli Stati Uniti? «La domanda cui dobbiamo rispondere è la stessa che in Afghanistan: possiamo uscirne e sapranno gli iracheni mettere insieme una costruzione politica e sociale democratica sostenibile? Il nostro compito è far di tutto per aiutare questa prospettiva. Ma non ci dobbiamo illudere neppure per un secondo che ciò che sta accadendo in Iraq non sia importante per quanto accade in Iran. Gli sciti persiani dell’Iran guardano (con senso di superiorità) oltre il confine, dove però vedono gli sciti arabi iracheni tenere libere elezioni, mentre loro hanno dovuto scegliere da una lista predigerita di candidati. È un esempio dall’impatto potenziale immenso. Che siamo stati pro o contro la guerra in Iraq, credo sia tempo di concentrarsi su ciò che conta».
La STAMPA - Asseel Kamal : " Allawi: Vincerò io. Ci vuole una svolta "
Iyad Allawi promette, in caso di vittoria, equidistanza con Iran e Usa Quindi, per lui, la democrazia occidentale che ha liberato l'Iraq dalla dittatura di Saddam Hussein e la teocrazia iraniana sono sullo stesso piano. Un buon inizio, proprio... Ecco l'intervista:
Iyad Allawi
Iyad Allawi, nel suo quartier generale di Baghdad, è raggiante. Le notizie che giungono dai suoi uomini ai seggi sono «molto positive». Allawi, medico sciita, fuggito dall’Iraq negli Anni Settanta dopo un contrasto con Saddam Hussein che quasi gli costò la vita, è stato primo ministro ad interim nel 2005. Adesso la sua lista Iraqiya viene data testa a testa con l’alleanza guidata dal premier Nouri Al Maliki, e piovono le telefonate di congratulazioni da parte di altri leader alleati e di elettori di peso. «Se dovessi diventare primo ministro - rassicura subito - il mio governo avrà buone relazioni con tutti i Paesi vicini», compreso quell’Iran che non lo vedrebbe di buon occhio e preferisce l’attuale primo ministro. Pensa di avere buone chance per tornare a a guidare il governo del suo Paese? «La questione su chi sarà il prossimo premier è ancora prematura. Aspettiamo i risultati definitivi. È anche vero che sto ricevendo congratulazioni da molti uomini politici e personalità religiose, compreso Ammar Al Hakim, leader del Supremo consiglio islamico, che pure partecipa alla alleanza nostra avversaria Iraqi National Alliance (Ina)». Che cosa dicono le indiscrezioni sui risultati in suo possesso? «Siamo in vantaggio in province a maggioranza sunnita come quelle di Anbar, Mosul e Salah al Din. Andiamo molto bene soprattutto nei maggiori centri urbani. Sono risultati che vanno oltre le nostre aspettative più ottimistiche. Per questo sono fiducioso, anche se, ripeto, è ancora presto per arrivare a conclusioni sulla formazione del prossimo governo». Come risponde ai critici convinti che l’attuale premier Al Maliki garantisca rapporti più equilibrati a livello internazionale? «Si riferiscono all’Iran? L’Iran e gli altri Paesi confinanti sono i nostri vicini, popoli con cui abbiamo in comune relazioni storiche e con i quali vogliamo costruire ponti. Lo stesso vale per le nazioni europee, in particolar modo con l’Italia, nostra amica, che noi apprezziamo come nazione e come popolo». Se tornasse a guidare il governo, quali sarebbero le priorità? «L’Iraq ha bisogno innanzitutto di aiuto internazionale per sviluppare le sue infrastrutture. Credo che dall’Unione europea, e dall’Italia in particolare, possiamo aspettarci di più, se sapremo sviluppare le relazioni tecniche e culturali che hanno radici decennali. L’Europa e l’Italia stanno già addestrando il nostro esercito e le nostre forze di sicurezza, mentre sono un mercato importante per le nostre esportazioni di petrolio. Quindi abbiamo un interesse comune, naturale, a sviluppare gli scambi e la cooperazione». Il prossimo governo, però, sarà probabilmente di coalizione. Con chi siete disposti ad allearvi? «Se sarà disposto a cedermi la poltrona di primo ministro, non avrò problemi ad allearmi anche con Al Maliki. Ma non credo che la cosa più importante siano le alchimie politiche. Prima c’è il programma. Noi vogliamo portare sicurezza ai nostri cittadini, posti di lavoro e una pace stabile, a lungo termine. Non mi preoccupa con chi dovrò allearmi, la cosa che conta è realizzare gli obiettivi che stanno a cuore al nostro popolo, e costruire un Paese sulle basi intangibili della democrazia. Se serve, lavorerò al fianco di Al Maliki». Recentemente ha visitato quasi tutti i Paesi arabi della regione, compresi l’Arabia Saudita e l’Egitto. Che relazioni vuole costruire con loro? «Il messaggio che volevo portare, a pochi giorni dal voto, era che il nuovo Iraq ha bisogno dei suoi vicini arabi e ha bisogno dei suoi fratelli arabi. Le relazioni non possono che essere strette e amichevoli». E quelle con gli Stati Uniti? «L’America è un Paese amico, ha dato un contributo storico alla libertà dell’Iraq. Penso che le relazioni tra due nazioni amiche debbano essere basate sul rispetto reciproco e sull’aspirazione comune a preservare l’unità dello Stato iracheno, fondamentale. La nostra cooperazione è tanto più importante ora, durante la ricostruzione, che è la parte più difficile di un percorso di rinascita destinato a essere lungo».
L'UNITA' - Luigi Bonanate : " Iracheni alle urne. Ma la democrazia è ancora lontana"
Troppo difficile ammettere che le elezioni libere in Iraq e l'affluenza alle urne sono una prova della democratizzazione dell'Iraq, avvenuta grazie all'intervento degli Usa contro Saddam Hussein. Bonanate sostiene l'esatto opposto. Ci sono stati scontri alle urne, sono morte 40 persone, perciò non è democrazia. Certo, l'Iraq non è ancora una democrazia a tutti gli effetti. Ma se Bonanate non fosse roso dal tarlo antiamericano, riconoscerebbe i progressi fatti e che, rispetto ai tempi di Saddam, la situazione è migliorata. Ecco il pezzo:
Luigi Bonanate
Se questo è il modello di democrazia che andiamo esportando... 40 persone assassinate: basterebbe questo per farci proclamare che le elezioni irachene sono fallite, il loro risultato nullo, e così via. La democrazia nasce proprio per sostituire al colpo di fucile o al candelotto di tritolo la scheda nell'urna: è un primo passo, naturalmente, che non può non andare insieme a una serie di altre libertà. Per non fare gli schizzinosi, basterà ricordarneunpaio: libertà di espressione, libertà di religione. Di quest'ultima oggi come oggi proprio non si parla: chi volesse sfuggire alla presa sciita è meglio taccia o si nasconda (di religione in politica dovremo pure ungiorno o l'altro discutere: come non renderci conto che la religione dovrebbe essere esclusa dalla lotta politica?). Ma che dire della libertà di espressione? Chi di noi ha avuto sentore di una campagna elettorale? Quale dibattito pubblico ha preceduto le elezioni irachene? Già sappiamo chi le vincerà (o quanto meno la rosa è ristrettissima), e non perchécome qui da noi -i partiti abbiano già deciso i candidati, ma perché il gioco degli interessi riguarda il petrolio, non le libertà civili; non importa il programma di chi vincerà, perché vincerà chi è già stato scelto a governare la transizione petrolifera. Non sappiamo quanti cittadini abbiano potuto esercitare liberamente il loro diritto di voto e non sappiamo come avverrà lo scrutinio. Andrà come in Afghanistan lo scorso autunno, e lo spoglio delle schede sarà ultimato soltanto dopo che le forze di occupazione avranno stabilito quale sarà il miglior governo? Non faccio sterile ironia né voglio mancare di rispetto alla popolazione irachena. Ciò che succede in Iraq ci riguarda perché tocca la concezione della democrazia che noi occidentali sosteniamo e andiamo a diffondere per il mondo. Come possiamo immaginare che il fiore della democrazia cresca e si sviluppi inundeserto privo di istituzioni e regole del gioco? Non c'è dubbio che la democrazia rappresentativa sia un passaggio importantissimo per lo sviluppo politico di un Paese, ma essa deve risultare da procedure certe e da uguaglianza di accesso al voto. Altrimenti si tratta di ricerca di una legittimazione a posteriori di scelte di convenienze pure e semplici che vengono operate ben lontano dai luoghi della democrazia. Vale la pena votare quando non ci sono le condizioni per farlo democraticamente? Con quale interesse l'opinione pubblica irachena segue l'evento? Invece che sbracciarsiad applaudire alla vittoria della democrazia sul terrorismo, sarebbe meglio, almeno per ora, espellere la violenza politica dalla vita quotidiana in Iraq.
L'UNITA' - Gabriel Bertinetto : " Iraq, segnali di speranza. Ora dovranno superare divisioni etniche e religiose". Intervista a Gary Sick.
Anche Gary Sick non vede come un successo pieno le elezioni in Iraq. Essendo più raffinato di Bonanate, ammette che la sitazione in Iraq è migliorata dopo la cattura di Saddam Hussein, ma non riesce ad ammettere che sia un successo dell'amministrazione Bush e dichiara : " La guerra per rovesciare Saddam è costata da due a tremila miliardi di dollari, alcune migliaia di soldati americani uccisi, centinaia di migliaia di vittime civili irachene, l’esilio in patria o fuori per un terzo della popolazione. Un costo troppo alto, enorme. Siamo contenti che il tiranno non sia più al potere e che la democrazia cominci a formarsi. Ma allora mi chiedo, quale altro dittatore vogliamo rovesciare e quale prezzo siamo ancora disposti a pagare»? ". La guerra in Iraq aveva le sue ragioni. Era necessaria. E i risultati sono ben visibili a tutti. Sul fatto che le guerre abbiano costi elevati in $ e in vite umane, non è una novità. Non è piacevole, ma è così. Gary Sick se ne faccia una ragione e ammetta la realtà. L'Iraq sta diventando una democrazia e il merito è della guerra contro Saddam Hussein iniziata da Bush. Ecco l'intervista:
Gary Sick
Al telefono da New York il professor Gary Sick, studioso dei problemi politici del Golfo, ed ex-collaboratore di tre presidenti americani. L’Iraq ha votato. Nel 2006 o 2007 solo un giocatore d’azzardo avrebbe scommesso sulla fuoriuscita democraticadalla crisi.Eora?Lademocrazia è cosa fatta, professor Sick? «L’Iraq è certamente più democratico rispetto al 2003, quando un’oppressione tirannica impediva qualunque spazio ad un’eventuale opposizione. Oggi la possibilità di esprimere opinioni politiche esiste, ma non direi che la democrazia sia un fatto compiuto. Piuttosto, mostra segni di volersi manifestare. Il vero test sarà superato quando vedremoil grosso dei cittadini iracheni votare al di fuori degli schemi di appartenenza settaria, concentrandosi sui programmi dei vari partiti e candidati piuttosto che non sull’identità religiosa o etnica. Fin là non siamo ancora arrivati,macresce il sostegno alle posizioni espresse da personalità e movimenti di orientamento nazionalista, capaci di ignorare gli steccati particolaristici.Èunsegnale che induce alla speranza». L’affluenza è stata abbastanza alta, eaddirittura altissima,secondoi primi dati ufficiosi, nelle aree abitate in prevalenza dai sunniti. Cosa significa? «Èungrande passo in avanti. Significa il riconoscimento da parte dei sunniti di avere compiuto un grande errorequandoin passato boicottavano le elezioni tagliandosi fuori dal gioco.Hannopagatoun prezzo per non essere adeguatamente rappresentati nelle istituzioni. L’affluenza così massiccia dimostra che la gente non si lascia impaurire dalle bombe e dalla violenza. Anzi in un certo senso i tentativi di trattenere la gente in casa con il ricatto del terrore ottiene l’effetto contrario, rende i cittadini ancora più determinati nell’esercitare il proprio diritto. E se accetti di rischiare la vita per andare al seggio, vuol dire che sei convinto che a qualcosa serva». Un atteggiamento diffuso tra gli iracheni è il seguente:siamo liberi,malo Statonon funzionae le legginon vengonorispettate. Unademocrazia senza sostanza? «La libertà, è vero, non si traduce automaticamente in efficienza ed organizzazione. Quello che preoccupa soprattutto è la mancata evoluzione dei meccanismi politici oltre la fase in cui i vari partiti lottano essenzialmente per costruire se stessi e rendersi visibili. Ma ancora una volta sottolineerei quanto sia importante che i cittadini siano andati alle urne, e credo che una classe politica capace di governare emergerà progressivamente. Abbiamo visto ad esempioun leadercomeAllawi candidarsi sulla base di una piattaforma senza contorni confessionali. Lo stesso premier in carica Maliki, pur avendo il sostegno di un partito sciita, il Dawa, non ha fatto appelli elettorali di tipo religioso, ma ha piuttosto insistito sull’importanza che tutto l’Iraq viva in condizioni di sicurezza. Il Paese sta cercando di uscire da unperiodo di sviluppo politico caotico e va in cerca di equilibrio. È presto per dire se e quando il processo si compirà, ma è in atto. Potremmo chiamare questa fase la fine dell’inizio ». Il ritiro delle truppe americane proseguiràsecondoil calendario fissato dal presidente Obama? «Penso di sì. Questo non significa che le condizioni di sicurezza siano necessariamente destinate a migliorare rapidamente. Abbiamovisto anzi che negli ultimi tempi sono ripresi attentati dinamitardi e attacchi missilistici. Questo però avveniva anche quando le nostre truppe erano schierate ovunque ed avevano il comando delle operazioni. Sono stato in Iraq cinque mesi fa.Hovisto che a controllare strade ed edifici c’erano solo militari iracheni, e sono rimasto impressionato dal loro grado di professionalità. Le chances di un ritorno ai giorni tragici della guerra civile sono molto ridotte. Tra l’altro, proprio a causa di quegli scontri fra milizie, la popolazione a Baghdad si è redistribuita nei vari quartieri secondo rigide divisioni di tipo etnico. È una cosa molto triste, che però almenoprovvisoriamente toglie pretesti alle mortali quotidiane aggressioni di qualche anno fa». Qualche commentatore nel suo Paese vede nella costruenda democrazia irachena una sorta di rivincita diBush, come se i massacri, le distruzioni, la destabilizzazione regionale e tutti gli altri sconquassi provocati dall’invasione trovino ora un senso. Leiè d’accordo? «No. La guerra per rovesciare Saddam è costata da due a tremila miliardi di dollari, alcune migliaia di soldati americani uccisi, centinaia di migliaia di vittime civili irachene, l’esilio in patria o fuori per un terzo della popolazione. Un costo troppo alto, enorme. Siamo contenti che il tiranno non sia più al potere e che la democrazia cominci a formarsi. Ma allora mi chiedo, quale altro dittatore vogliamo rovesciare e quale prezzo siamo ancora disposti a pagare»? Quale intreccio vede fra gli sviluppi politici iracheni e quelli del vicino Iran? «La paura che l’avvento degli sciiti al potere a Baghdad trasformasse l’Iraq in una dependance iraniana era ed è un’esagerazione.Hoincontrato molti dirigenti religiosi sciiti iracheni che respingono nettamente l’ipotesi. Alcuni parlano piuttosto di un’amichevole competizione fra i due Paesi. Semmai, una volta che l’Iraq abbia acquisito un assetto più stabile ed organizzato, è più facile che sia Baghdad ad influenzare Teheran. Ma questa è una ipotesi per il futuro. Certamente non vedo un Iran capace di dettare l’agenda all’Iraq né oggi né domani». Il rischio diunosmembramentodell’Iraq in tre Stati (sciita al sud, sunnita al centro,curdo al nord) è superato? EquellocheilKurdistansi dichiari indipendente? «L’obiettivo finale dei curdi è l’indipendenza. Mahanno saggiamente scelto di rinunciarvi a favore di un’ampia autonomia entro una cornice unitaria, perché sanno che un tentativo secessionista finirebbe in guerra. Nessuno dei vicini, dalla Turchia all’Iran, dalla Siria all’Iraq, li appoggerebbe, alcuni si opporebbero con le armi. C’è chi negli Usa ha stupidamente coltivato l’opzione della disgregazione. Per fortuna gran parte degli iracheni oggi non sono d’accordo».
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